Dialogo tra una professoressa e un rabbino
Gianfranco Di Segni
Al Seder della seconda sera di Rosh Hashana, in una casa ebraica romana, ho assistito al seguente dialogo fra una professoressa e un rabbino. La prima parte è una fedele trascrizione dello scambio fra i due protagonisti, la seconda si basa su quanto il rabbino in questione, che conosco molto bene da diversi decenni, mi ha spiegato al ritorno verso casa. [Le parole fra parentesi sono annotazioni esplicative aggiunte da me].
Parte prima
Rabbino: – L’altro ieri sono stato a Selichot, c’era molta gente.
Professoressa: – Dove, al Giardino del lago a Villa Borghese?
R.: – No no, quello è il Tashlikh. Le Selichot sono le preghiere penitenziali che si recitano in piena notte, in particolare la vigilia di Rosh Hashana e Kippur, e a Roma sono molto frequentate. Il Tempio Grande era pieno, sia uomini che donne, tutti giù, nella navata centrale divisi da una mechitzà [separazione]. Il Tashlikh a Villa Borghese l’abbiamo fatto oggi pomeriggio.
P.: – Senti, mi dici dove sta scritto nella Torà che ci vuole la mechitzà? [sottinteso: sappiamo bene che non c’è scritto].
R.: – Nella Torà in effetti non c’è scritto, ma è scritto nella Mishnà [Middòt 2:5; Sukkà 5:2].
P.: – Ah, nella Mishnà [sottinteso: e la Mishnà non è mica la Torà!].
R.: – La Mishnà è anch’essa Torà, è la Torà orale.
P.: – Appunto, orale [ossia: non fa testo come la Torà scritta!].
R.: – La Torà orale è stata data sul Monte Sinai insieme alla Torà scritta. Conferma, professore? [Il rabbino si volta verso un noto professore di studi ebraici, anch’egli ospite al Seder, che segue il colloquio con molta attenzione. Non ho potuto però vedere se annuisse o no].
P.: – E chi l’ha detto che la Torà orale è stata data sul Monte Sinai? I Rabbini?!
Un altro commensale: – Ma i Rabbini, si sa, sono dei bugiardi! [La frase, effettivamente un po’ forte, non è stata detta in tono offensivo, ma solo polemico; oltre tutto il commensale è cugino del rabbino].
R.: – Non sono solo i Rabbini a dirlo. E’ la Torà stessa che lo dice. Diverse volte è scritto di osservare una certa norma “come ti ho comandato”. Ma non si trova scritto in nessun punto come quella norma vada osservata. Il testo scritto, quindi, presuppone un insegnamento orale che l’accompagna.
[Nel frattempo viene servita la cena e la discussione si interrompe. Poi si parla d’altro. Andando a casa, faccio la strada insieme al rabbino il quale mi spiega come avrebbe continuato ad argomentare e a rispondere a eventuali domande e obiezioni. Il seguito è una ricostruzione certamente valida per il pensiero del rabbino, che conosco da più di cinquant’anni e sono sicuro di riportare fedelmente le sue idee, mentre le parole della professoressa sono solo verosimili.]
Parte seconda
R.: – A ben vedere, non esiste una Torà scritta. Esiste un testo scritto la cui lettura costituisce la Torà. Anche la Torà scritta è in realtà orale. E in effetti, la parola ebraica che indica la “Sacra Scrittura” è Mikrà, che vuol dire “lettura”.
P.: – In che senso non c’è una Torà scritta? Non capisco.
R.: – Il punto è che l’ebraico è una lingua consonantica, non ci sono le vocali. Quindi non si saprebbe come leggere la Torà se non ci fosse una tradizione orale a indicare come il testo vada letto. E non ci sono neanche i segni di interpunzione per dividere le frasi. Chi ci dice se una certa parola fa parte della frase che la precede e non di quella che segue? La tradizione orale. C’è un famoso racconto nel Talmud in cui un pagano va da Shammai e gli chiede di essere convertito all’ebraismo a condizione che gli insegni solo la Torà scritta. Shammai lo caccia via su due piedi. Allora il pagano va da Hillel e gli dice la stessa cosa. Hillel lo accetta e inizia a insegnarli l’alfabeto, prerequisito per poter leggere la Torà scritta. Il giorno dopo il pagano torna per un’altra lezione e Hillel gli insegna l’alfabeto alla rovescia. Ma come – dice il pagano –, ieri me l’hai insegnato in modo diverso! Hillel risponde: – Ti sei fidato di me ieri quando te lo insegnavo? Allora fidati di me quando ti insegno la Torà orale.
P.: – Ma nelle Bibbie stampate ci sono le vocali, quindi lo sappiamo come vanno pronunciate le parole.
R.: – Già, ma la vocalizzazione scritta risale a poco più di 1000 anni fa, prima non c’era. La corretta lettura si tramandava da maestro ad allievo.
P.: – Ma la pronuncia si può capire dal contesto, come del resto succede con l’ebraico moderno. I giornali o i libri in Israele non sono mica punteggiati, anzi: quando lo sono, gli israeliani leggono più lentamente, gli disturba la lettura.
R.: – E’ vero, l’ho notato anch’io. Però a volte, quando c’è ambiguità in una certa parola, allora mettono alcune vocali.
P.: – Mi puoi fare un esempio di espressione ambigua nella Torà?
R.: – Presto fatto. Mangeresti mai la carne con il latte?
P.: – Assolutamente no! E’ uno dei fondamenti dell’ebraismo e della kasherut. Inorridisco solo all’idea!
R.: – E da dove si impara il divieto di mangiare carne e latte?
P.: – Be’, dalla Torà. Non c’è forse scritto “Non mangiare il capretto nel latte di sua madre”?
R.: – In realtà è scritto “Non cucinare il capretto nel latte di sua madre”. E’ addirittura ripetuto tre volte, per insegnarci che non solo è vietato cucinare carne e latte insieme, ma anche mangiarne e trarne qualunque godimento. Ma come si dice latte?
P.: – Mi sembra chalàv. [Il padrone di casa chiede conferma alla figlia della professoressa, studentessa universitaria in Israele da quattro anni che conferma].
R.: – Giusto. Ma le stesse lettere che formano la parola chalàv possono essere lette anche come chèlev.
P.: – E allora? Che vuol dire chèlev?
R.: – Vuol dire grasso. E la frase funzionerebbe bene ugualmente, anzi forse meglio: “Non cucinare il capretto nel grasso di sua madre”. Chi ci dice che è chalàv, latte, e non chèlev, grasso?
P.: – Ho capito, i soliti Rabbini.
R.: – Prima dei Rabbini lo dicevano i Profeti e i Kohanim. Gli stessi che hanno insegnato non solo come leggere e interpretare la Torà ma anche come osservare tante norme. Ammesso (e non concesso) che, come è stato detto prima, i Rabbini siano dei bugiardi, allora se hanno inventato la Torà orale, hanno inventato pure quella scritta. Fare questa differenziazione fra Torà scritta e Torà orale non sta né in cielo né in terra. [Ho l’impressione che queste ultime parole del rabbino non siano solo un modo di dire.] La possibilità di leggere chèlev è in effetti presa in considerazione, per essere subito scartata, nel Talmud bavlì (Sanhedrìn 4a-4b). Un altro esempio di possibile lettura duplice, ma sbagliata, è il noto verso Timchè et zèkher Amalèk, “Cancella il ricordo di Amalek”: zèkher si scrive uguale a zakhàr, “maschio”, o zekhàr, “maschio di” (vedi TB, Bavà Batrà 21a-21b).
P.: Ma tutta la Mishnà è stata insegnata sul Monte Sinai?
R.: – In nuce sì, ma non necessariamente in modo esplicito. All’interno della tradizione orale si distinguono diverse componenti. Ci sono le norme che risalgono direttamente a Moshè (halakhòt le-Moshè mi-Sinài), ci sono norme che si ricavano attraverso le interpretazioni dei Maestri, secondo precise regole ermeneutiche. Ci sono le ghezeròt (decreti) e le takkanòt (ordinanze), introdotte dai Maestri per rafforzare l’osservanza scrupolosa delle mitzvot e per il buon andamento della società [vedi l’ottima esposizione di queste categorie fatta dal Rambam nell’Introduzione alla Mishnà].
P.: – E la separazione fra uomini e donne al tempio che tipo di norma è?
R.: – La separazione fra i sessi nel Bet Hamikdash e poi nel Bet Hakeneset (che è un Mikdash me’at, un “piccolo santuario”) rientra nelle takkanòt. La Mishnà (Sukkà 5:2) lo chiama Tikkùn gadòl (un grande Tikkùn). Il Talmud (TB, Sukkà 51a-52a) afferma che questa takkanà si fonda sui versi della Scrittura (ops, della “Lettura”), nel libro di Zekharià (12:12-14). Il profeta, descrivendo un lutto nazionale che si celebrerà in futuro a Gerusalemme, dice che uomini e donne staranno separati (i commentatori, sulla base della Ghemarà, spiegano che il lutto di cui si parla è quello per la morte del Mashiach ben Yosef). Il Talmud aggiunge che se in un’occasione luttuosa si sta separati, tanto più lo si deve stare nelle occasioni festive, quando l’atmosfera gioiosa potrebbe indurre ad assumere atteggiamenti sconvenienti. In un altro passo del Talmud (Kiddushìn 81a) si dice che Abbaye e Ravà, durante i matrimoni o le derashot (lezioni pubbliche nelle feste), sistemavano delle barriere fra uomini e donne fatte di anfore o di canne che impedivano il passaggio degli uni verso le altre: spiegano Rashì e Tosafòt che nelle feste veniva molta gente, sia uomini che donne, a sentire i discorsi dei maestri e “posavano gli occhi l’uno sull’altro”.
P.: – Perché hai detto che in nuce tutto deriva dal Monte Sinai? In che senso?
R.: – Il Midrash dice che D-o rivelò a Moshè sul Monte Sinai non solo la Torà con gli altri libri della Bibbia e la Torà orale (Mishnà e Talmud), ma anche i testi del Midrash e persino le domande che gli allievi intelligenti avrebbero un giorno fatto ai loro Maestri. Non credo si debba prendere questo midrash alla lettera, cioè non credo che i Maestri che hanno formulato questo midrash intendessero dire letteralmente che Moshè conosceva tutto quello che è stato scritto e detto nel corso di tremila anni e passa. Penso che la loro intenzione fosse di dire che potenzialmente tutto si trova nella Torà rivelata sul Monte Sinai. In fondo, anche le domande degli allievi e i midrashim dei Maestri si basano su una qualche lettera o parola della Torà. E la Kabbalà, che anch’essa fu rivelata a Moshè, si basa sulle lettere e sugli spazi bianchi fra le lettere. Sempre lì, quindi, si va a ricadere.
P.: – Non è che mi hai proprio convinto che Torà scritta e Torà orale abbiano lo stesso valore.
R.: – Lo vedo. Ma i moderni scettici non sono i primi a dubitare del valore della Torà orale. Già duemila anni fa c’erano i Sadducei, che credevano solo alla Torà scritta. Conosci qualche Sadduceo in circolazione oggi? Non ne è rimasta traccia. Qualche secolo dopo di loro vennero i Karaiti, che già dal nome si capisce che accettavano solo la Mikrà, la Torà scritta. Chi si oppose fortemente ai Karaiti fu il Rambam (Maimonide). Conosci qualche Karaita?
P.: – In effetti sì. Una volta ho incontrato un tale che diceva di esserlo.
R.: – E’ vero, ce ne sono alcuni. Ma sono un’esigua minoranza. Già noi ebrei lo siamo, e loro sono la minoranza della minoranza.
P.: – Be’, l’idea di essere identificata con i Karaiti non mi va tanto giù.
R.: – E ti credo. Mi sembra molto meglio seguire la scuola del Rambam. Shanà tovà.
P.: – Shanà tovà anche a te.