Questo è uno shabbat particolare, in quanto è quello che precede il digiuno del 9 di Av.
“Echà essà levaddì torchakhem u massakhem ve rivekhem – Come posso sopportare da solo il vostro annoiarmi il vostro peso e le vostre contese?” Così inizia il primo discorso che Mosè, in punto di morte rivolge al popolo, prima di abbandonarlo definitivamente.
Finalmente Mosè, il Maestro del popolo di Israele, prima di commiatarsi definitivamente dal popolo riesce a sfogarsi per tutto ciò che aveva commesso contro D-o e contro di lui, durante il viaggio di quarant’anni nel deserto.
Egli, come ogni essere umano, dopo tanta sopportazione viene punito per essersi lasciato andare una sola volta all’impeto di rimproverarli; viene punito con una punizione che nessun altro uomo avrebbe saputo sopportare con tanta fede in D-o: non sarebbe mai entrato in quella Terra per la quale aveva sacrificato la sua vita e quella della sua famiglia.
“Echà hajetà le zonà kirià neemanà – Come mai è divenuta prostituta quella città chiamata finora degna di fede?” Così inizia il discorso che il profeta Isaia, circa 1000 anni dopo, rivolge ad un popolo che aveva dimenticato tutte le leggi che Mosè gli aveva trasmesso direttamente dalla voce di D-o.
Il popolo che era stato chiamato “am segullà – popolo tesoro di D-o “, si era traviato e prostituito ad altri popoli e alle loro divinità. Un popolo famoso per la sua integrità, era divenuto oggetto di scherno per i popoli limitrofi.
E infine, colui che assiste in prima persona al dramma della distruzione di Gerusalemme, del suo Tempio, all’eccidio ed alla deportazione di gran parte del popolo – il profeta Geremia – userà la stessa espressione di Mosè e di Isaia, per narrare i momenti più drammatici della fine.
“Echà jashevà badad – Come mai risiede solitaria la città che conteneva gran moltitudine di gente?” Così iniziano le sue lunghe ed accorate lamentazioni, assistendo inerme alla sofferenza di un popolo sottomesso e sconfitto dai babilonesi.
Il digiuno del 9 di Av, è il simbolo di tutte le sofferenze passate e presenti – del nostro popolo; un giorno in cui non basta piangere e lamentarsi per ciò che fu, ma per riflettere su cosa fare affinché ciò che è stato non debba ripetersi. Purtroppo però, il popolo ebraico è più volte tornato a ripetere gli stessi errori e per questo, dopo quattro secoli la tragedia è tornata a ripetersi.
Sostengono i Chakhamim che, se il primo Tempio fu distrutto per la trasgressione delle mizvot, il secondo fu distrutto per sinnat chinnam – l’odio gratuito fra fratelli.
Essi si chiedono: “quale vantaggio si può ricevere nell’odiarsi tra fratelli, figli dello stesso padre?”.
Due fratelli non sono due cose separate, ma due rami che appartengono allo stesso tronco.
Possono separarsi, ma il legame è all’origine; quel legame che unirà in modo indissolubile il loro destino. Più volte la nostra storia millenaria ci ha insegnato l’esperienza, mettendoci in guardia di non ripetere gli stessi errori.
Noi ebrei siamo accomunati dallo stesso destino: non esistono ebrei più o meno buoni, più o meno ebrei: esistono gli ebrei e basta!
Durante le preghiere del giorno di tishà be Av, alcuni minhaghim hanno introdotto elegie in cui si ricordano anche le vittime della Shoah.
Questo perché durante questa giornata, abbiamo il dovere di piangere anche per loro e riflettere sul fatto che i nostri nemici, non fanno differenza su quale ebreo accanirsi: l’importante è che siano ebrei e tutti gli ebrei sono uguali.
La parola “echà” tradotta “come mai” fonda le sue origini, in una espressione che si trova nel terzo capitolo del libro di Bereshit – Genesi. Quando Adam, su consiglio di Chavà, mangiò il frutto che il Signore D-o gli aveva proibito e, nascondendosi alla presenza divina, si giustificò dicendo che si vergognava.
L’espressione con cui D-o lo cerca, suona con la parola “aiecca” che tradotto vuol dire “dove sei?”.
Leggendo questa parola senza vocali, potremmo leggere “echà – come mai?”; lo stesso “come mai” di Mosè, Isaia e Geremia.
Quando l’ebreo perde se stesso (Adamo perde se stesso nel momento in cui trasgredisce) è perché perde la sua strada, la sua vera identità; quella identità che lo distingue (nel caso dell’umanità) da tutti gli altri esseri del Creato, nel caso del popolo ebraico, da tutti gli altri popoli.
Il lutto, che nella tradizione ebraica è soltanto qualcosa di transitorio, nel caso del 9 di Av ha lo scopo di farci ritrovare la nostra vera e unica identità: quella della appartenenza ad un popolo diverso da tutti gli altri, che si mantiene soltanto per la nostra diversità e per l’osservanza delle mizvot.
Ki nicham A’ ammò gaal Jerushalaim – Poiché nel consolare il suo popolo il Signore ha redento Gerusalemme.