Intervista al rav prof. Benedetto Carucci Viterbi, direttore dell’insegnamento delle materie ebraiche nelle scuole della Comunità Ebraica di Roma
Da Ofakim, periodico dell’Hashomer Hatzair di Roma
Quali mutamenti ci sono stati nell’atteggiamento nei confronti delle conversioni (in particolare dei minori) rispetto alla precedente gestione del Rabbinato Capo dall’insediamento di Rav Riccardo Di Segni?
A me pare che al momento non ci siano decisioni formali. Mi sembra di evincere da alcune dichiarazioni del Rabbino Capo che il principio (per lo meno per quanto riguarda la conversione dei minori) sia che ci deve essere una responsabilità molto forte da parte della famiglia. è nota la polemica che si è accesa qualche anno fa a proposito del documento approvato dall’Assemblea Rabbinica d’Italia. Il principio è nella sostanza questo: visto che l’halachà stabilisce che la conversione del minore è un caso particolare, poiché il minore non ha coscienza, e dunque non può coscientemente prender su di sé l’obbligo dell’osservanza delle mitzvot, allora c’è qualcuno che si prende in carico questa responsabilità, e fondamentalmente la presa in carico è del Bet din, il tribunale rabbinico, il quale ha la forza ed il dovere di esser certo che questo atto di conversione che si fa in base alla forza che il tribunale rabbinico stesso ha possa andare a buon fine, nel senso che possa produrre un ebreo osservante. Mi sembra che l’impostazione generale del Rabbinato di Roma sia: da una parte non aver nessun tipo di chiusura, dall’altra però richiedere in maniera abbastanza forte la responsabilità nell’educazione ebraica da parte della famiglia. Ho fatto un’analisi recente delle iscrizioni alle scuole ebraiche, e ne emergono dei dati un po’ particolari. Risulta da questa analisi (poco scientifica, ma comunque valida) che una minoranza assoluta dei figli di matrimonio misto che hanno fatto il ghiur katan frequentano la scuola ebraica; questo è un fatto un po’ strano. La principale funzione che dovrebbero svolgere i genitori che fanno questa scelta è quella di preoccuparsi dell’educazione ebraica. Questo credo sia quello che il tribunale rabbinico di Roma chiederà: un impegno forte nell’ambito dell’educazione ebraica di figli.
Comunque, purché ci sia un impegno da parte della famiglia in questo senso non esiste un “no” pregiudiziale alle conversioni di minori da parte del tribunale rabbinico.
Non mi sembra che il Rabbino Capo Di Segni abbia mai fatto dichiarazioni pubbliche di questo genere. Mi sembra che la questione sia tutta sull’impegno che le famiglie intendono prendersi. Credo che la questione sia ancora oggetto di studio da parte del tribunale rabbinico di Roma, e quindi può essere forse un periodo di attesa, ma non mi pare proprio che la tendenza di rav Di Segni sia una chiusura generalizzata ed a tutti i costi nei confronti delle conversioni in generale o delle conversioni dei minori in particolare.
Mentre nel resto del mondo ebraico qual è l’atteggiamento del Rabbinato? L’atteggiamento del Rabbinato nei confronti della questione delle conversioni dei minori è generalmente molto rigido. Cercherò di farla un po’ semplice. Il principio talmudico è questo: si può dare un merito ad una persona anche quando questa non è consenziente, ma non si può dare un demerito ad una persona quando questa non è consenziente. Allora, possiamo dare il merito di diventare ebreo osservante al minore che non è consenziente; ma se facciamo diventare ebreo un minore che non osserverà le mitzvot gli diamo un demerito, e per ciò stesso l’atto giuridico della conversione non è valido, presentando un vizio nella sostanza. Dunque, in virtù di questo principio, la tendenza generale del Rabbinato nel mondo è di limitare assai (quasi completamente) la conversione dei minori.
In questo senso l’Italia rappresenta un’eccezione, e forse c’è (o è giusto ci sia) un’intenzione di correzione di questa anomalia? In questo senso l’ebraismo italiano non è anzitutto una realtà così uniforme come potrebbe sembrare, perché la tendenza a limitare molto le conversioni dei minori è stata seguita abbastanza da alcune Comunità – per esempio nell’Italia settentrionale – già da diversi anni. Quindi ci sono state delle differenze d’impostazione all’interno del Rabbinato italiano. E credo che questa pausa di riflessione, queste scelte che il Rabbinato di Roma e rav Di Segni faranno siano in linea con una tendenza che non è solamente del Rabbinato mondiale, ma che è anche del Rabbinato italiano, così come si evinceva chiaramente da quel documento dell’Assemblea Rabbinica Italiana che tutti i rabbini d’Italia avevano unanimemente sottoscritto.
C’è una possibilità di revisione di conversioni di minori precedentemente effettuate?
Direi di no. Qualcuno potrebbe sollevare quest’obiezione, ma mi sembra che anche halachichamente questa sia una posizione che deve essere molto discussa. Credo che il principio sia che gli atti presi dal tribunale rabbinico sono validi, e da essi certamente non si può recedere.
è possibile che si determinino casi di famiglie all’interno delle quali un figlio sia ebreo ed altri nati successivamente non lo siano?
Io non faccio parte del tribunale rabbinico, e dunque vedo la questione dall’esterno. Credo che il Rabbinato – così come d’altra parte già quel documento di qualche anno fa aveva detto – analizzerà singolarmente le varie situazioni e deciderà in relazione agli impegni educativi della famiglia. Non credo si possa fare un discorso generale ed assoluto sulla questione.
Ma nei casi particolari non è escluso che ciò possa accadere.
Credo che in Italia in qualche Comunità questa situazione specifica già si sia verificata. Mi sembra che la disponibilità alla riflessione sulla questione da parte di Di Segni sia assolutamente massima, e quindi porsi in termini problematici negativi a priori è un’impostazione perlomeno un po’ curiosa.
Qual è invece l’impegno educativo da parte delle Comunità?
Questa mi sembra sia la sfida fondamentale. Il principio è che da una parte i Rabbinati possono chiedere condizioni a patto che poi dall’altra si impegnino a fornire strumenti di tipo educativo e partecipativo. Io credo che se in passato c’è stato un difetto esso sia stato quello di chiedere poco e dare ancor meno; quindi era ovvio che si chiedesse poco, poiché si dava poco. Nel momento in cui si chiede di più, la Comunità ed i Rabbinati si debbono dare delle strutture e degli strumenti che tassativamente offrano una serie di percorsi formativi ed educativi. Non si può chiedere senza dare, insomma.
Ma non c’è il rischio della creazione di un circolo vizioso, in quanto si può diventare ebrei soltanto acquisendo un’educazione ebraica, ma imprescindibile all’acquisizione di quest’educazione è la frequentazione di una scuola ebraica che è aperta solamente a chi ebreo già è?
Questo in realtà non è vero, perché le scuole in ebraiche in Italia sono scuole paritarie e per legge debbono accogliere qualsiasi persona che si riconosca nel Piano dell’Offerta Formativa e che ne chieda l’iscrizione. In realtà non è più così da un po’. Non entro nelle competenze del Rabbino Capo e del tribunale rabbinico, ma credo che si possano trovare infinite soluzioni. Non vedo questo come un problema. Anche se si ipotizzasse una possibilità di ghiur in tempi successivi previa formazione ebraica, non mi sembra esista veramente un ostacolo a permettere a chi veramente si impegna in questa direzione a partecipare alla formazione ebraica. Dal punto di vista legislativo è evidente che nelle Comunità dove ci sono delle scuole ebraiche la possibilità d’iscrizione c’è.
Assumendo che in una Comunità ortodossa rientri strettamente nella giurisdizione del tribunale rabbinico stabilire chi sia ebreo e chi non lo sia dal punto di vista halachico, poiché le nostre Comunità sono evidentemente anche delle strutture politiche, amministrative e sociali, è pensabile che la Comunità accetti tra i proprî iscritti anche persone che non vengono considerate ebree dal tribunale rabbinico?
è assolutamente impossibile. Credo che anche a livello di statuto di legge che si dà la Comunità il criterio relativo all’appartenenza sia quello rabbinico, perché la determinazione di chi è ebreo e di chi non lo è di stretta competenza del tribunale rabbinico. Il gran problema che si è creato in Israele (che dal punto di vista ebraico è estremamente grave) è che ci sia stato un pronunciamento halachico di un organo che halachico non è. Non voglio entrare nella polemica [della quale si è parlato nel precedente numero, ndr], ma è un problema teorico sul quale varrebbe la pena riflettere. C’è una situazione paradossale, per cui la Corte suprema, che non è un organo halachico, ha di fatto emanato una decisione halachica, stabilendo i cirterî per definire chi sia ebreo e chi non lo sia.
La questione non è piuttosto che in Israele sia attribuita la preminenza ad organi halachici? Se non fosse il tribunale rabbinico ortodosso a dover stabilire chi sia ebreo e chi no, e dunque chi abbia diritto automatico alla cittadinanza e chi no, altri organi politici o giuridici non sarebbero costretti ad emanare decisioni di carattere halachico.
Certo, ma il caso specifico è un po’ paradossale: la posizione dell’halachà e del Rabbinato è molto chiara dal punto di vista della conversione (è ebreo chi nasce da madre ebrea o chi diventa ebreo in base ai parametri che l’halachà tradizionale stabilisce per il ghiur). Ora, immaginare che ci possa essere un organo che stabilisce l’esistenza di un criterio halachico alternativo, di un iter per diventare ebrei diverso da quello che l’halachà prevede, è un’anomalia, soprattutto se questo organo non è halachico. A me sembra sinceramente che nell’ambito dell’ebraismo italiano quest’ipotesi sia piuttosto remota, anche perché si ingenererebbe probabilmente un contrasto molto forte tra l’autorità rabbinica e l’autorità politica che in un ebraismo numericamente esiguo come il nostro non mi sembra sia una situazione realisticamente immaginabile. Il problema d’Israele è l’esistenza un ambito prettamente civile, secondo il diritto generale, che è quello dell’acquisizione della cittadinanza, cui si sovrappone una questione invece prettamente halachica. Questo problema crea evidentemente un intreccio di questioni esplosivo. La domanda è: come si può immaginare qualcosa di simile nell’ambito dell’ebraismo italiano? In Italia chi richiedesse una legittimazione comunque non la richiederebbe come latore di un diritto civile, ma religioso. Ad esempio: mi converto nel modo in cui voglio ma pretendo poi che il rabbino ortodosso mi consenta di mettere il mio cadavere dentro il cimitero ebraico. Questo non è un fatto civile, è un fatto prettamente religioso.
Ma il problema alla base è il l’Intesa del 27 febbraio 1987 tra l’UCEI e lo Stato, patto che si basa su criterî sostanzialmente territoriali, e che neppure prevederebbe l’esistenza di una pluralità di tipologie di Comunità.
Ma questa è la forma che sino ad oggi si è democraticamente data l’ebraismo italiano. Dal momento in cui la maggioranza di coloro che inviano i loro delegati al congresso dell’Unione sarà diversa si porrà il problema, che sarebbe un problema molto grave. Ma al momento quest’immagine di ebraismo unitario in cui esiste una territorialità unica non è stata imposta da nessuno, è stata autodeterminata dagli ebrei italiani. Certo, non in tutti i Paesi del mondo è così, anzi quella dell’ebraismo italiano è forse una condizione molto specifica. Ma è stato l’ebraismo italiano stesso a scegliersela.
Pallino Nero
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