Mosè disse: fammi conoscere le tue vie… Il Signore disse: Ecco un posto vicino a me, tu ti presenterai sulla rupe e avverrà che quando transiterà la mia gloria, io ti metterò in un anfratto della roccia … io toglierò la mia mano …… tu potrai vedere (ciò che è) dietro di me, ma non ti sarà concesso di vedere il mio volto. (Esodo 33: 13 – 23) Cosa voleva sapere Mosè? Dio aveva decretato la morte di tutto il popolo, mentre solo una sua piccola parte aveva servito il vitello doro e trasgredito i comandamenti. Quali erano i criteri della giustizia divina? La concezione della giustizia divina è completamente diversa da quella umana? Perché non riusciamo a vedere nessuna giustizia in terra? La risposta di Dio è che se si metterà in un luogo vicino a Lui, Mosè potrà avere una percezione della storia dell’uomo: stando in alto, l’orizzonte è più ampio e si ha una visione maggiore, si può vedere e capire meglio cosa succede in terra. Dio dice quindi a Mosè: “mettiti in un luogo vicino a me” in modo da poter avere una visuale diversa: le cose ti appariranno completamente diverse.
“Tu potrai vedere (ciò che è) dietro di me”: quando non siamo più coinvolti in quanto accade intorno a noi e ci troviamo a una distanza storica dagli eventi, riusciamo a capirli meglio. Per un istante, stando nella grotta, dopo che il Signore sollevò la sua mano, Mosè riuscì a capire cosa stava accadendo. Ma cosa riuscì a vedere Mosè: da una parte è scritto non ti sarà concesso di vedere il mio volto, perché un uomo non può vedere il mio volto e (rimanere) in vita (Esodo 33, 20); ma qualche verso prima troviamo scritto: Il Signore parlò con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla al suo compagno … (Esodo 33, 11).
Cosa si nasconde dietro questa strana contraddizione: scrive Barukh Halevi Epstein in Tosefet Berachà
Rashi spiega: “Non potrai – non ti dò il permesso di vedere il mio volto”, ma non spiega cosa è che lo costringe a dare questa spiegazione; forse l’intenzione è di dire che l’uomo non ha la possibilità di vedere il volto divino e poi continuare a vivere? Si può dire che questa espressione contrasti con quanto scritto prima (Esodo 33, 11): Il Signore parlò con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla al suo compagno … e, quando si parla faccia a faccia, le persone che parlano si vedono l’un l’altro: come può dire qui che non potrai vedere il mio volto? Quindi Rashi spiega che il verbo “Non potrai” non significa che non avrai la possibilità, ma nel senso che non te lo permetto. Lo stesso significato dobbiamo dare ad altri passi: Non potrai mangiarlo nelle tue città (Deuter. 12, 7); Non potrà mandarla via per tutta la sua vita (Deut. 22, 19); Non potrà dare la primogenitura al figlio della donna amata rispetto a quella odiata (Deut. 21: 16), e ci sono altri passi simili. Qui dice: ora non ti dò questo permesso.
Quindi, secondo Rashi in questo momento Dio non permette a Mosè di “vedere” il suo volto, cosa che a quanto pare sembrerebbe sia stata concessa prima: Ma cosa significa che Dio parlò con Mosè faccia a faccia?
In realtà l’espressione “parlare faccia a faccia” significa che fu possibile un colloquio che dava l’impressione di “vedere il volto di Dio”. Questa espressione si trova anche nella storia di Giacobbe, dopo la lotta con la strana creatura che lo aggredì di notte prima dell’incontro con Esaù: Giacobbe chiamò quel luogo Peniel poiché disse: “Ho veduto faccia a faccia Dio e ho avuto salva la vita” (Genesi 32, 31). Giacobbe aveva avuto l’impressione di aver visto faccia a faccia Dio, e anche questo solo fatto gli fa dire che è stato in pericolo di vita. In tutta la Bibbia, e successivamente anche nella tradizione talmudica, l’incontro con Dio o meglio l’esperienza mistica portata fino all’estremo è considerata rischiosa: nel racconto dei quattro maestri che sono entrati nel PARDES (il giardino dell’interpretazione mistica della Torà) l’esperienza mistica causa la morte di uno dei Maestri (Haghigà 14b).
La differenza tra Mosè e gli altri profeti è bene espressa da quanto scritto in Numeri (12: 6 – 8): Il Signore disse: “ascoltate le mie parole: se vi è tra voi un profeta, Io, il Signore, mi faccio conoscere a lui per mezzo di una visione, parlo a lui in sogno. Non è così con il mio servo Mosè, egli è fedele in tutta la mia casa. Bocca a bocca Io parlo a lui, con chiarezza e non con enigmi, egli vede la visione divina. Il Talmud (Yevamot 49b) interpreta così queste parole: “Tutti i profeti (essendo convinti di parlare con Dio) profetizzano come in uno specchio luminoso, Mosè nostro maestro profetizza e parla con Dio come in uno specchio luminoso: Rashi aggiunge: “Tutti i profeti profetizzavano guardando in uno specchio che non è luminoso e pensavano di vedere (ma non vedevano) il Signore; Mosè nostro maestro osservava in uno specchio luminoso, e sapeva che non aveva visto in volto il Signore”.
Mosè era consapevole che non aveva sperimentato direttamente l’essenza di Dio, che non è esprimibile con categorie umane: Rashi vuole dirci che i termini “vedere la sua immagine” e parlare “bocca a bocca” non hanno niente a che fare con un fenomeno ottico. L’uomo non è in grado di recepire l’essenza divina: Mosè sapeva bene che non aveva visto Dio e questa consapevolezza è espressa nelle parole “l’uomo Mosè era molto umile”: in questo senso Mosè era la persona più umile di ogni altro uomo, in quanto nonostante fosse arrivato a recepire un’esperienza elevatissima, rimaneva consapevole che in realtà non vedeva l’immagine del Signore. L’accento è quindi sulla convinzione che si sta parlando con qualcuno e per questo è detto “bocca a bocca”. Anche qui nella visione sul Sinai Mosè dialogò, ma non vide Dio.
Due discese dal monte: il volto raggiante dell’uomo più umile del Mondo
Ma cosa cambia tra la prima discesa di Mosè (quella che lo portò a spezzare le tavole) e la seconda per la quale Mosè ritagliò nella pietra le nuove tavole.
Ora quando Mosè scese dal Monte, avendo in mano le due tavole della Testimonianza, egli non sapeva che la pelle del suo volto era divenuta risplendente (1) dopo che il Signore gli aveva parlato. Aronne e tutti i figli d’Israele riguardando Mosè, videro che la pelle del suo volto risplendeva e non osavano avvicinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e si avvicinarono a lui Aron e tutti i principi della congrega ai quali Mosè parlò. Dopodiché si fecero avanti tutti i figli d’Israele e trasmise loro tutti gli ordini che il Signore gli aveva dato sul monte Sinai. Mosè dopo avere terminato di parlare con loro, si coprì la faccia con un velo. Ora quando Mosè si presentava al Signore per parlare con Lui, si toglieva il velo finché usciva fuori dalla tenda dell’adunanza e ripeteva ai figli d’Israele ciò che gli era stato prescritto. E i figli d’Israele vedevano il volto di Mosè, la cui faccia era raggiante; poi Mosè rimetteva il velo sulla faccia finché rientrava a parlare con Il Signore.
(Esodo 34: 29 – 35)
Mosè scende dal Monte con le tavole della legge in mano, sia la prima che la seconda volta, ma solo alla seconda discesa il volto di Mosè diventa raggiante: che differenza c’è tra i due eventi?
Dopo la prima discesa il testo sottolinea per ben tre volte che le tavole e lo scritto erano opera divina, ma nulla viene detto a proposito del volto di Mosè.
Dopo la seconda discesa dal Monte con nuove tavole viene sottolineato per ben tre volte che Mosè aveva il volto raggiante, lui che aveva tagliato le tavole, che erano ora opera umana dovuta a Mosè. Perché questo cambiamento avviene solo dopo la seconda discesa, mentre avrebbe potuto accadere dopo la prima discesa.
Dopo la salita sul Monte per ricevere il Decalogo, Mosè sparisce per 40 giorni. In questo periodo il popolo, rimasto senza guida, cerca un sostituto, ma non un uomo che sparisce di tanto in tanto: vogliono un nuovo “Dio” che li guidi. Una volta fatto il vitello d’oro, il popolo viene a conoscenza del fatto che non ci sarà più la guida divina, ma solo una inviato che li porterà alla Terra promessa. Una volta che Mosè viene nuovamente recuperato da Dio, è necessario restituirgli quel prestigio che in parte aveva perso. Il popolo voleva una persona che avesse caratteristiche quasi divine: il volto raggiante sembra voler restituirgli questo prestigio di cui peraltro Mosè non si rende conto (Mosè non sapeva che il suo volto era raggiante). Il popolo teme di avvicinarsi a Mosè e quindi Mosè metterà un velo appena avrà finito di parlare con il popolo e poi tornerà a metterlo dopo aver parlato con Dio. Il miracolo non è più nelle tavole, ma nella figura di Mosè e questo servirà a restituire a Mosè il prestigio che gli spettava.
Il pericolo ora sarà quello di evitare che la figura di Mosè possa essere trasformata quasi in una divinità. La Torà è molto attenta a non dar adito all’idea che Mosè sia quasi una divinità: quando parla della nascita di Mosè, racconta che era nato per via naturale da una donna, e ne dà la genealogia a partire da Levì (Cap.6: 14 – 26). Inoltre, almeno all’inizio, Mosè non reagisce positivamente alla proposta di essere capo d’Israele, che viene rinviata al mittente e accolta dopo una lunga trattativa. Solo prima di della morte e della sua sepoltura Mosè viene chiamato “Ish haElokim”, uomo di Dio.: Mosè non farà nessun uso di questo “titolo”, perché la Torà poi ribadisce che Mosè era l’uomo più umile della Terra.
Panim e i suoi significati
La riflessione sulla parola Panim induce ad altri confronti sia interni alla Torà che esterni e sui quali vorrei solo lanciare qualche idea:
1. Che rapporto esiste tra quanto affermato nel secondo comandamento, dove troviamo l’espressione Non avrai altre divinità di fronte al mio volto, Panai.
2. Qual è la relazione tra l’affermazione il Signore parlò panim el panim (faccia a faccia) con Mosè e la parola Panim che viene usata per indicare le 70 facce della Torà: Shivim panim latorà.
3. Si va in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme e bisogna far sì che “Il mio volto non venga visto a mani vuote”.
4. Emmanuel Levinas ha sviluppato molta parte della sua filosofia partendo e arrivando al “volto”: in quale relazione si pone la sua filosofia rispetto alla Torà con cui sappiamo egli si confrontò spesso.
Cerchiamo di rispondere ad alcune di queste domande:
Abbiamo in effetti diversi Panim. La faccia dell’uomo, le facce della Torà, la faccia – il volto del Signore. Ora la Torà è l’espressione diretta del volto di Dio: se vuole entrare nell’intimità della Torà, l’uomo deve cercare di incontrare il volto di Dio, il modo in cui Egli si rivolge a noi in un certo passo e in cui noi cerchiamo Lui. Il pericolo per l’uomo è quello di porre davanti al Signore “altre divinità”: Rashi dice: (Divinità) che non sono divinità, ma altri le hanno fatte divinità … un’altra spiegazione: esse sono “altre per coloro che li servono”… Il pericolo dell’alienazione è sempre forte, è il pericolo appunto di diventare schiavi di un oggetto, mentre le tavole hanno la parola libertà incisa (Haruth – Herut – libertà) nella loro pietra: il dialogo presuppone una risposta ed è ciò che l’uomo si aspetta nell’intimo della sua ricerca.
Levinas chiama “volto” il modo che l’altrui ha di rivelarsi alla mia vista senza essere riducibile all’immagine che ho di lui. Il dialogo tra Mosè e Dio viene descritto come qualcosa di simile al dialogo tra l’uomo e il suo compagno.
In sintesi: l’uomo può capire gli eventi solo guardando ciò che è già trascorso. Nel frattempo deve cercare però cercare di mettersi in sintonia e cercare il volto dell’altro che può essere un altro uomo o Dio stesso: come dice Davide (Salmo 73, 28): Quanto a me, l’essere vicino al Signore costituisce il mio bene.
Scialom Bahbout
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(1) Nella traduzione latina della Bibbia, la Vulgata, l’espressione Karan ‘or panav, viene tradotta nel senso che delle corna si erano formate sulla faccia di Mosè, cosa che ha influenzato molte della immagini create da artisti cristiani: non è escluso che questa interpretazione sia stata anche influenzata dall’uso dei soldati romani di indossare copricapi con corna in segno di forza.
Barukh Halevi Epstein (1860 – 1942)
Uno dei più importati studiosi in Lituania prima della Shoà. Il padre è l’autore di ‘Arukh hashulchan. Ha studiato con il padre e poi nella Yeshivà di Volozhin, dove il rosh Yeshivà era lo zio, il Natziv. Era una persona geniale nello studio della Torà, ma si guadagnava da vivere come ragioniere e come direttore di banca. Tra i suoi scritti: Torà temimà, dove svela le fonti dei midrashim dei Maestri e delle Halakhot (secondo Rambam); Barukh sheamar, commento al siddur; Mekor barukh, libro di ricordi sul mondo delle Yeshivot lituane e dei grandi maestri che le guidavano. Tosefet Berakhà è un ampliamento del suo commento di Torà temimà. Nei suoi commenti segue il metodo del peshàt, spesso fa uso del Talmud Yerushalmi e dimostra una grande capacità critica.