Nella Parashà di questa settimana si cela un segreto ardente come la cenere, e fresco come la sorgente: “זֹאת חֻקַּת הַתּוֹרָה” — Questo è il chok, la legge senza spiegazione. La mucca rossa, la Parà Adumà, è l’epicentro di questo mistero. I Maestri insegnano: la sua cenere purifica l’impuro, ma contamina il puro. Un paradosso. Ma la Torah intreccia paradossi che molte volte smontano la logica ma ricostruiscono l’espressione del cuore. Come può accadere che lo stesso atto porti purezza a uno, e impurità ad un altro?
Non solo nella dinamica, ma anche nella logica degli elementi stessi vive il paradosso: la cenere e l’acqua si incontrano. Il fuoco brucia la mucca rossa, la riduce a polvere, a morte, un ricordo di ciò che fu. Eppure, proprio quella cenere, unita all’acqua viva, diventa sorgente di nuova purezza. Fuoco che distrugge, acqua che genera. “Morte che lava via la morte”. “Distruzione che partorisce vita”. Così Hashem ci sussurra: là dove la fiamma spegne, in realtà riaccende, e lo fa insieme al suo elemento opposto, alla sorgente. Là dove la cenere racconta l’apparente fine, unita all’acqua promette un nuovo inizio. E nella loro unione impariamo che non esiste rovina che non possa diventare rinascita.
Ecco la radice: colui che era tame’, impuro — chi portava in sé la morte, la paura, il peso — si avvicina al Cohen. Il Cohen prende su di sé la procedura di purificazione, manipola la cenere, spruzza l’acqua, e soprattutto ASCOLTA. E in quell’ascolto c’è un segreto: diviene un “terapeuta dell’anima”. Guarda bene: il Cohen Gadol, purissimo in sé, si sporca di impurità perché si è esposto all’angoscia del suo fratello. È entrato nello spazio oscuro dell’altro per portare luce. Proprio come uno psicologo: chi arriva turbato, parlando, si svuota. Si libera, si scioglie, le sue parole diventano acqua che lava la roccia del cuore. Ma, chi ascolta, si bagna di quell’acqua torbida: ora dovrà purificarsi. Ecco perché siamo chiamati Mamlechet Kohanim — “Un popolo di sacerdoti”. Non siamo solo individui: siamo il Cohen dell’altro. Siamo psicologi silenziosi, ascoltatori pazienti.
Quando tuo fratello versa parole di pianto, tu le raccogli. Ti “contamini”, sì — ma per rendere lui puro. E ora torna Moshè: Hashem gli disse: “Parla alla roccia, ed essa darà le sue acque”. Ma Moshè colpì. Ecco la ferita: quando dimentichiamo la forza della parola, ricorriamo al bastone. Quando manchiamo di parole, usiamo la forza. Ma la Torah è acqua viva: scaturisce solo dalla parola pronunciata con emunà. Rashi spiega: Moshè non aveva bisogno di colpire. Avrebbe dovuto parlare — come uno che parla a un cuore di pietra, e lo scioglie. Come un Cohen, come uno psicologo, come un fratello, la pena: non entrerà in Israele ma rimarrà fuori, nel deserto “Midbar”, il cui nome si può leggere anche come “Medaber” l’essere parlante, colui che impara ad usare la parola; e così negli stadi della materia secondo la Kabbalà: Domem, Tzomeach, Chay, Medaber, cioè Minerale, Vegetale, Animale, Essere umano. Leggendo bene, ai due estremi troviamo Domem e Medaber non Minerale e Umano ma le stesse parole che si possono leggere come “Essere Muto” ed “Essere Parlante”.
Qual è quindi il messaggio della Torà: Quando incontri l’impuro, l’angosciato, l’incompreso, non estrarre bastoni. Non alzare la voce. Parla. Siedi accanto. Lascia che l’altro versi l’acqua amara. Non temere di contaminarti: la Torah ti darà la cenere per purificarti. Parla — perché la parola è la sorgente; Ascolta — perché l’ascolto è la cenere; Purifica — perché sei un Cohen di questo popolo di Cohanim. Così, da una roccia, scaturirà acqua dolce. Così, chi era impuro tornerà puro. E chi era puro e si è caricato del peso, troverà anche lui purificazione nel silenzio, nella preghiera, nel Mikveh delle lacrime di chi è stato salvato.
Shabbat Shalom