Viviamo in un’epoca che celebra il singolo, la voce personale, l’autorealizzazione. E, preso il concetto per il lato giusto, può essere molto positivo: ogni anima ebraica è un mondo a sé. Il Talmud insegna che chi salva una vita è come se salvasse un intero universo. Ogni ebreo è una lettera insostituibile nel Sefer Torà della creazione, composto da seicentomila anime, corrispondenti alle lettere del Sefer Torà di pergamena. Eppure, questa stessa unicità può diventare la nostra più grande insidia: quando il valore del singolo degenera in egoismo e individualismo, perdiamo la melodia dell’insieme. Ogni organo insegue la propria gloria, ogni voce vuole primeggiare, e il corpo si disgrega.
È il pericolo dell’egocentrismo che sostituisce la missione collettiva. La Parashà di Bemidbar ci offre un antidoto potente: la separazione in tribù non è un invito alla divisione, ma un’educazione alla complementarietà. La Torà descrive un popolo disposto come un corpo vivo – dodici tribù, ognuna con la sua posizione e la sua bandiera, ma tutte raccolte attorno al Mishkan, cuore pulsante della Shechinà. Il Midrash Rabbah insegna che ogni tribù rappresenta un organo del corpo spirituale del popolo: il cuore non può diventare polmoni, i polmoni non possono sostituire la mente. Solo insieme si crea l’organismo sano e armonioso che porta la Presenza Divina nel mondo. Recitava un motto della Psicologia della Gestalt: “Il tutto è più della somma delle sue singole parti”. La Torà lo afferma da millenni: la vera forza nasce quando le diversità si uniscono in un’unica armonia. Ma questa lezione non è astratta. La storia di Purim ce lo ricorda con forza. Haman, per giustificare il decreto di distruzione, disse ad Achashverosh: “Yeshno am echad mefuzar u’meforad” – “C’è un popolo disperso e diviso” (Ester 3:8).
La divisione era la nostra vulnerabilità, la frattura che poteva spezzarci. Ester, invece, comprese che la salvezza passa dall’unità: “Lech kenos et kol haYehudim” – “Va’ e raduna tutti gli ebrei” (Ester 4:16). Solo la ricomposizione dell’organismo collettivo poteva spezzare il decreto del male. E qui si rivela il legame profondo tra Purim e Shavuot. A Shavuot, riceviamo la Torà, ma solo perché ci presentiamo “Ke’ish Echad Belev Echad” cioè come un solo uomo con un solo cuore. E a Purim, dopo la salvezza, il popolo “Kiblu ve’kiymu” – “accettarono e confermarono di nuovo la Torà” (Ester 9:27). Due momenti, un’unica lezione: la Torà scende solo su un popolo che riconosce la propria diversità come ricchezza e la propria unità come missione. Così, la Parashà di Bemidbar ci insegna che la divisione delle tribù non è un sintomo di frammentazione, ma un invito alla responsabilità: ognuno con il suo ruolo, ognuno indispensabile, ma tutti parte di un unico corpo, il popolo d’Israele. E in questo corpo, la Torà che riceveremo a Shavuot è il respiro Divino (Ruach Hashem) che entra nel singolo corpo e che anima ogni fibra, la voce che armonizza ogni nota. Che possiamo, allora, portare avanti questa lezione eterna: custodire la nostra unicità, ma sempre al servizio dell’unità. Perché solo uniti possiamo ricevere la Torà – e solo uniti possiamo portare la luce di Am Israel nel mondo.
Shabbat Shalom