“Devo ammettere con una certa vergogna che il libro che presento qui è un imbroglio”. L’autore, lo storico Yehuda Bauer, avverte il lettore fin dalle prime righe. Ebrei – Un popolo in disaccordo non è un tradizionale testo di storia né segue le regole della scrittura accademica. Non ci sono note, documenti, citazioni: è una collezione di saggi o meglio un lungo saggio che con passione, ironia e disincanto esplora l’intricata storia del popolo ebraico dall’antichità ai giorni nostri senza mai perdere d’occhio il tema dei diritti umani a cui l’autore ha dedicato buona parte della sua vita. L’imbroglio evocato dall’incipit si rivela così un esercizio di libertà intellettuale – del genere che solo uno studioso del calibro di Bauer, 97 anni, fra i maggiori esperti di storia ebraica contemporanea, conferenziere di successo e popolare protagonista della scena pubblica israeliana, poteva regalarci.
Pubblicato nel 2014 e da poco in italiano con alcuni aggiornamenti su iniziativa di Gariwo, il Giardino dei Giusti di Milano (Libreria Editrice Cafoscarina, 512 pp.), il volume chiarisce la premessa fin dal titolo. Il filo che tiene insieme la storia ebraica, sostiene Bauer, non è quell’unità che politici e moralisti ovunque invocano come la panacea di tutti i mali. Al contrario, “l’unità, per la civiltà ebraica, sembra una condanna a morte”. Dalle dispute sul Talmud alle rivalità fra le corti chassidiche, dalla costante dialettica fra Israele e la Diaspora alla frammentazione della società israeliana, il mondo ebraico è da secoli un calderone di voci, controversie e opposte interpretazioni. E proprio in questa vigorosa cultura della discussione sta il segreto della sua sopravvivenza. “Ci sono sempre stati tentativi di unificazione, quasi sempre falliti. Se però questi sforzi, compiuti da attori religiosi, secolari, politici o economici, avessero successo, il popolo ebraico probabilmente si disintegrerebbe”.
Se ad accomunare quasi 15 milioni di persone disseminate fra Israele, gli Stati Uniti e il resto del pianeta è il disaccordo, la domanda che ne consegue è cosa sia il popolo ebraico. È una religione, una cultura, un’etica? La sovrapposizione fra etnia e religione, che resiste nel luogo comune e fino a qualche secolo fa era scontata, non fotografa più la realtà. Si può essere ebrei in mille e più modi e l’osservanza non è il solo. “La maggioranza degli ebrei in qualunque parte del mondo – conclude dunque Bauer – dovrebbe essere definita come un’etnia la cui cultura è basata sulla tradizione religiosa, ma in cui la maggior parte dei suoi membri non pratica la religione dei padri”.
Alla luce di queste considerazioni l’Olocausto, con cui a torto spesso si identifica la storia ebraica, assume una luce ancora più inquietante. “L’idea nazista di una cospirazione politica ebraica era l’immagine speculare del loro desiderio di controllare il mondo: l’invenzione di un’entità politica ebraica serviva ai loro scopi ideologici, ma non era altro che un’illusione”.
Sono i temi a cui Bauer dedica la seconda parte del libro e sono pagine di profonda umanità, a cui il rimando fra Storia e vita imprime una particolare urgenza. “Quell’inferno non l’ho vissuto sulla mia pelle” scrive. “Io e i miei genitori migrammo in Palestina da quella che era all’epoca la Cecoslovacchia, da Praga per la precisione. Lasciammo la città nella notte fra il 14 e il 15 marzo 1939, la notte in cui i tedeschi occuparono la Boemia e la Moravia (oggi Repubblica ceca), tre settimane prima del mio tredicesimo compleanno”.
I Bauer se ne vanno con lo stesso treno su cui viaggia Max Brod, lo scrittore e poeta che diventerà l’esecutore testamentario di Kafka. A preparare il viaggio, alcuni anni prima, era stato il padre, ingegnere e sionista convinto. Dopo la guerra scopriranno che i familiari rimasti in Europa sono stati assassinati dai nazisti. “E sì, ancora una volta, io non ho vissuto sulla mia pelle l’Olocausto”, ripete l’autore e sono parole così cariche di dolore da levare il fiato.
Sono gli anni che precedono la fondazione dello Stato d’Israele e il giovane Yehuda si ritaglia presto un ruolo attivo. Entra nei ranghi del Palmach, la formazione paramilitare clandestina dell’Haganah preposta alla difesa degli insediamenti ebraici e combatte nella guerra del 1948. Nel 1952, dopo la laurea al Cardiff College in Galles, entra nel kibbutz Shoval nel Negev e presto ottiene una cattedra alla prestigiosa Università ebraica di Gerusalemme.
Sarà l’incontro con Abba Kovner, il comandante partigiano che per primo alza la bandiera della Resistenza ebraica nell’Europa occidentale, a spingerlo a studiare l’Olocausto e la storia dell’antisemitismo di cui diventerà uno dei maggiori studiosi e divulgatori.
Attivo in politica nel partito socialista Mapam e dal 2000 membro dell’Israel Academy of Sciences and Humanities, è consulente del Museo dell’Olocausto Yad Vashem di Gerusalemme e collabora a molti progetti fra cui il monumentale film di Claude Lanzmann Shoah (1985). È tra i fondatori del Genocide Prevention Advisory Network e il suo nome è apparso spesso nelle petizioni a sostegno dei rifugiati africani in Israele.
Quello di Bauer è un impegno a tutto campo che si esprime fin dalla terminologia. L’uso della parola Olocausto in queste pagine è una scelta precisa e motivata. Benché parte del mondo ebraico preferisca la dicitura Shoah, ormai corrente anche sui media, Olocausto – scrive – “è diventato il termine accettato per descrivere lo sterminio del popolo ebraico” (negli Stati Uniti rimane di fatto quello predominante). Derivato dal greco Holokaustos che indica un’offerta interamente bruciata agli dei, “è inapplicabile al genocidio degli ebrei” ma anche il termine Shoah è problematico. “A volte nella Bibbia si riferisce a un disastro naturale, o persino al deserto, e talvolta è connessa al sacrificio”. La parola “Khurban” (disastro), suggerisce, andrebbe meglio. “Ma finché ci capiamo su che cosa si definisce, cioè il genocidio degli ebrei, qualsiasi nome va bene”.
Ci sono però questioni dove le parole pesano. È il caso del termine genocidio – una delle espressioni più inflazionate nel linguaggio dei media e della politica. Coniato nel 1943 da Raphael Lemkin, avvocato ebreo fuggito negli Stati Uniti, ha un significato ben preciso e si riferisce all’intenzione e all’atto di distruggere un gruppo umano, ci ricorda Bauer.
È dunque inesatto applicarlo al conflitto israelo-palestinese perché quello di Israele non è un progetto di sterminio di massa. Allo stesso modo, dice, è fuori luogo ricorrere al concetto di “apartheid” per definire il rapporto fra israeliani e palestinesi. A innescare lo scontro non è infatti il razzismo ma un’ideologia nazionalista spinta agli estremi. Non è una valutazione etica o politica ma un invito alla precisione e all’onestà intellettuale – tanto più che l’autore non ha mai fatto mistero delle sue opinioni sul governo Nethanyahu, è un fautore del ritorno di Israele ai confini del 1967 e non nasconde che il rischio di uno stato di apartheid esiste.
Lo sterminio degli ebrei per mano dei nazisti, dei loro sostenitori e collaboratori è stato invece un genocidio e rappresenta un evento senza precedenti. Se lo si compara ai massacri che punteggiano la storia dell’umanità, la differenza “non sta né nella sofferenza delle vittime (che è la stessa in tutti i genocidi), né nel loro numero (si sono verificati eventi genocidari con un numero maggiore di vittime), né nella proporzione delle vittime rispetto al numero complessivo del gruppo preso di mira (rispetto agli ebrei, è stata assassinata una percentuale maggior di armeni e tutsi)”.
A distinguerlo sono l’intenzione di un massacro totale; la volontà di realizzarlo su scala globale, non a caso i nazisti parlano di “soluzione finale”; la motivazione puramente ideologica; l’aspirazione a un nuovo ordine mondiale basato sulle razze; l’obiettivo di distruggere un popolo che ha avuto uno straordinario impatto sul mondo cristiano e musulmano. E infine l’elemento più noto: la scala industriale di un assassinio di massa consumato nel cuore della civilissima Europa. Tutto ciò, insiste Bauer, non ne fa un evento “unico” – l’aggettivo che l’immaginario collettivo ormai associa all’Olocausto.
Sostenere la sua unicità, ascriverlo alla sfera dell’incomprensibile e inimmaginabile o rimetterlo nelle mani di Dio – tutte interpretazioni piuttosto diffuse nel mondo ebraico – anziché renderlo indimenticabile finiscono per consegnarlo all’oblio. “Se dicessi che è stato unico, cioè che è successo una sola volta nella storia, potremmo anche dimenticarlo, perché non avrebbe più alcuna importanza per i vivi – è successo una volta, e non si ripeterà più”. Considerarlo senza precedenti invece “significa che è stato e può essere un precedente”.
L’impegno collettivo, ammonisce Bauer, deve iniziare proprio da qui per evitare che quell’avvertimento rimanga inascoltato. A questo poco servono la retorica della Memoria, le emozioni facili e i “mai più” delle cerimonie che ogni anno affollano il calendario del 27 gennaio.
“Nell’era della globalizzazione sembra che ci sia una quasi naturale preferenza per il contesto rispetto al testo, o in altre parole una preferenza ad affrontare le questioni che ruotano attorno all’Olocausto piuttosto che l’Olocausto”. Confrontarsi seriamente con il passato significa invece fare i conti con la storia e il suo svolgersi, nelle scuole e nella società tutta, per capire davvero cosa sono la democrazia, la buona cittadinanza, l’eguaglianza. Nel tempo effimero dei social e del politically correct è un richiamo che suona controcorrente. D’altronde, ci aveva avvisato fin dal principio – questo non è il classico libro di storia. È un lussureggiante imbroglio dove vale la pena calarsi per respirare un’aria frizzante di dubbi e domande.