Lo Shemà, la preghiera ebraica per antonomasia è una Voce che risuona ogni giorno
Tra le preghiere ebraiche, e probabilmente tra quelle di tutti i popoli, poche hanno avuto un ruolo e una presenza così continua come quella che può vantare lo Shemà’: questa preghiera ha accompagnato il popolo ebraico lungo tutta la sua storia, nelle situazioni e nei frangenti più diversi, sia di luminosa gioia che di oscuro dolore, e ad essa il singolo ebreo ha affidato le sue speranze, anche nei momenti di massima disperazione.
Davvero strana e unica la storia di questa preghiera che, nel senso stretto di questo termine, non è una preghiera, ma è un brano della Torà che contiene la parola di Dio all’uomo e non la parola dell’uomo a Dio e che, secondo la tradizione, sostituisce la lettura dei Dieci Comandamenti: cosa ha fatto quindi dello Shemà’ la preghiera ebraica per antonomasia?
Innanzi tutto, la sua semplicità, almeno apparente; il suo linguaggio perentorio, ma insieme intimo, comprensibile a ogni persona: non è infatti casuale che lo Shemà’ sia la prima preghiera che si insegna ai bambini. In secondo luogo, il fatto di contenere l’essenza ultima dell’ebraismo, l’osservanza dei precetti basata sull’amore verso Dio e lo studio della sua legge: una legge la cui osservanza è considerata un privilegio, e non soltanto un giogo da cui liberarsi, come dimostra la festa di Simchàt Torà , dedicata alla gioia per averla ricevuta, un caso questo forse unico nella storia dei popoli.
Si badi bene che l’amore verso Dio comprende in sé anche l’amore per ogni uomo, ma i percorsi che conducono a questo risultato possono essere diversi. I Maestri infatti discutono su quale principio fondare tutta la Torà e troviamo due posizioni apparentemente contrapposte, quelle di Rabbì Akivà e di Ben ‘Azai. Rabbì Akivà privilegia il principio Ama (per) il tuo prossimo, come (per) te stesso , ma nel momento della grande prova, quando i romani lo torturano a sangue, trova la forza per pronunciare le parole dello Shemà’; Ben ‘Azai, invece, afferma che il passo “Nel giorno in cui Dio creò l’uomo, lo creò a immagine divina” contiene il principio generale su cui basare tutto l’ebraismo, le sue norme sia “sociali” che “religiose”. Quindi, l’amore per l’uomo deve condurre all’amore verso Dio, oppure viceversa l’amore verso Dio a quello per l’uomo.
Oggi nell’era della comunicazione, nell’era della ricerca frenetica degli ascolti , è sempre più necessario sentire la Voce che ci viene dall’ Ascolta : in un mondo dove risuonano molti, forse troppi messaggi, dove l’ascolto è difficile e il più delle volte approssimativo, sapere porgere l’orecchio – non solo quello fisico come dicono i nostri commentatori medievali – nel modo e nel momento giusto, è fondamentale per ogni esperienza religiosa.
L’uomo moderno, disturbato dal frastuono che lo circonda, stenta a mettersi in ascolto: la fuga dalla civiltà e il ritiro in luoghi appartati, protetti e lontani da una società sempre più invadente e rumorosa, hanno spesso tentato l’uomo, in quanto ritenuti la soluzione più semplice per cercare di ascoltare la Voce. L’ebraismo ha tuttavia sempre cercato di coniugare insieme l’esperienza individuale con quella collettiva, perché laddove l’individuo ha difficoltà a porsi in ascolto, può farlo se inserito in una collettività che lo aiuta e lo guida nella sua ricerca dell’ Ascolta .
L’ebraismo, in quanto religione rivelata, sottolinea l’importanza della prima rivelazione, quella del Sinai; tuttavia i Maestri insegnano che ogni giorno, e non una sola volta nella storia, una Voce risuona sul monte Chorèv, il monte Sinai: sta all’uomo cercare di raccoglierla, porgendo l’orecchio ai suoni e alle voci che arrivano dal creato e dalla storia dell’uomo.
Febbraio 2003 – Pubblicato su Shalom