Un film e un convegno per far emergere dall’oblio un protagonista “silenzioso” della nostra cultura
A mettere insieme i tasselli, si stenta a credere che uno come Alessandro Rimini sia esistito davvero. E ancor di più che sia caduto nell’oblio. Rimini (1898-1976), che le foto d’epoca restituiscono nella sua formidabile eleganza, è stato uno degli architetti che ha maggiormente contribuito a trasformare Milano nel Ventennio. Ed era ebreo. Questa sera al Cinema Arlecchino, nella serata «Architettura e memoria» a cura dell’Ordine e della Fondazione degli Architetti della provincia di Milano e del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cedec), la sua figura sarà finalmente celebrata anche grazie alla proiezione del nuovo cortometraggio a lui dedicato diretto da Davide Rizzo, alla cui realizzazione hanno contribuito i ricordi lucidi, nonostante l’età, della signora Liliana Rimini Lagonigro, che dell’architetto è figlia. «Illuminato, simpatico, pragmatico: mio nonno era maniacale sul lavoro. Un puro», racconta Chantal Lagonigro, figlia di Liliana. Con lei proviamo a riannodare la matassa, perfetta per un biopic alla Netflix.
Si comincia tra le calli veneziane, dove Rimini nasce e si diploma in Belle Arti nel 1921 dopo essere stato fatto prigioniero, diciannovenne, a Caporetto ed essere fuggito a piedi dal campo Munster in Westfalia. Sarà solo la prima delle sue prigionie, e la prima delle sue rocambolesche fughe. Approda a Milano nel ’25, la sua prima commissione importante è la costruzione del cinema Colosseo di viale Montenero: ancora oggi le decorazioni mitologiche della galleria e i decori del soffitto lo rendono speciale, ma negli anni Trenta era all’avanguardia con 1800 posti, balconata scenografica, ventilatori enormi e impianto sonoro perfetto (non a caso Mussolini lo scelse per uno dei suoi discorsi, nel ’29). Le sale cinematografiche si moltiplicano in quegli anni, alleate ideali del regime: Rimini ne firma un’altra, l’Impero di via Vitruvio (resiste fino al 1989, oggi è un parcheggio).
Il suo stile è un uomo raffinato, eppure bravo a tenere il cantiere – convince: gli viene affidato il progetto dell’ospedale Cardarelli di Napoli. «Degli anni partenopei ricordava la simpatia degli operai e la bellezza del luogo, un posto di cura circondato dal verde, da cui si vedeva il Vesuvio», dice la nipote. Ma Milan, l’è semper un gran Milan: Rimini torna e ne connota, con il suo razionalismo classicista, il centro. Lavora alla Torre Snia Viscosa di piazza San Babila, e, tra Monte Napoleone e via Bagutta, in un lotto a forma di trapezio difficilissimo da progettare, crea nel ’38 l’edificio che diventerà il Garage Traversi (oggi, dopo una tormentata ristrutturazione, è una boutique di Louis Vuitton). Dopo le leggi razziali è costretto a lavorare nell’ombra: progetta ma non firma l’auditorium Giuseppe Verdi, il teatro Smeraldo (oggi Eataly), il cinema Metro Astra di corso Vittorio Emanuele (ora un negozio di Zara).
Nel ’44 la furia nazista colpisce con una bomba il cinema Colosseo: Rimini si reca sul posto in incognito per controllare i danni ed è arrestato dalle SS per delazione di un collega: «Non ci ha mai rivelato il nome», dice la nipote. L’architetto intuisce che il peggio sta per arrivare: vende la sua corposa collezione d’arte e compra una casa in campagna, a Roverbella, dove spedisce la moglie, cattolica, e i figli. Trova preti compiacenti per registrare a battesimo i ragazzi: «Chiede di retrodatare la data il più possibile, così le SS non avrebbero sospettato», continua Chantal Lagonigro. Seguiranno tre settimane a San Vittore («la peggior prigionia di sempre»), il trasferimento al campo di concentramento di Fossoli («da cui inviava lettere ironiche per tranquillizzare la famiglia: in una c’era uno schizzo di lui su un’amaca») e poi sul treno con destinazione Auschwitz. Uomo di testa e d’azione, durante uno stop alla stazione di Verona salta giù dal vagone e si finge poliziotto: gli va bene. Starà nascosto in campagna fino alla fine del conflitto. Nel Dopoguerra lavora a Milano con Gio Ponti, completa altri cinema e la sede della Metro-Goldwyn-Mayer. Gli viene offerto di rifirmare i progetti negati negli anni bui delle leggi razziali, ma declina. Trascorre gli ultimi anni a Rapallo, dedicandosi alla pittura.
Rimini non ha lasciato una riga né un testo teorico: «Eliminava tutto: è complesso ricostruirne la carriera conclude la nipote -. Diceva che erano le sue opere a dover parlare. Severo con gli altri e ancor più con sé stesso, finiva un progetto e subito commentava che lo avrebbe rifatto tutto diverso. Nonostante quel che aveva subìto, era sempre rivolto al futuro».
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