Nel mezzo della descrizione delle molte mitzvot elencate nella Parashà di Achare Mot, la Torà sembra prendersi una pausa. D-o dice a Moshè: “Parla ai figli di Yisrael e di’ loro: Io sono D-o, il vostro D-o…Non imitate le pratiche dell’Egitto, dove avete abitato, e non imitate le pratiche di Canaan, dove vi conduco” [Vayikra 18:3]. La Torà non sembra però identificare queste pratiche. Rashi, spiega che il riferimento all’Egitto e a Canaan non è arbitrario. Queste due nazioni sono considerate le più degradate. Ciò che segue questo ammonimento ci dà un’idea di quello che sembra volere indicare la Torà. Pochi versetti dopo, la Torà stessa fornisce un elenco di relazioni illecite, che va dall’incesto alla bestialità, per le quali erano noti Egizi e Cananei. Ma il divieto include anche la cultura di queste nazioni, che si trattasse di frequentare i loro teatri o stadi. Relativamente a questi divieti si potrebbe argomentare che quelli erano tempi antichi in cui la gente non sapeva come comportarsi o era isolata e che nel mondo moderno siamo educati a rispettare le donne, le minoranze, gli animali e chiunque altro sia considerato vulnerabile. La risposta in realtà è: fino ad un certo punto.
L’Or haChayim sottolinea le numerose volte in cui la Torà scrive: “Io sono D-o” per insegnarci la difficoltà di astenersi da relazioni illecite. La difficoltà nel controllarsi, uniti alla riservatezza e alla libertà di accesso, rendono l’incesto e l’adulterio facili e, per alcuni, persino naturali. Quindi, cosa deve fare un ebreo? Anche oggi, nel mondo moderno, spesso ci troviamo circondati da bestialità e incesto. La nostra missione è lottare per rimanere padroni delle proprie emozioni, anziché schiavi di esse. Questa capacità contraddistingue la vera libertà e il genuino servizio di D-o. Ma come fare?
Se dovessimo scrivere un’opera magna sull’etica ebraica, ci ritroveremo a studiare il testo della Parashà di Kedoshim per un bel po’ di tempo. Il teologo ottocentesco August Klostermann intitolò questa sezione “Das Heiligkeitsgesetz”, ovvero “il Codice della Santità”, sostenendo che questo testo fosse distinto dalle altre parti della Torà e meritasse uno studio particolarmente attento. In Kedoshim, D-o fa una particolare richiesta al popolo ebraico: “Siate santi (kedoshim), perché Io, il vostro D-o, sono santo (kadosh)”. Moshè, osserva Rashi, avrebbe condiviso questa richiesta con “kol adat Yisrael” – l’intera congregazione di Israele. La santità, quindi, è una responsabilità comunitaria. Eppure le mitzvot che seguono immediatamente questo comandamento non sembrano essere di ordine pubblico, ma sembrano regolare obblighi personali.
Queste mitzvot toccano ogni aspetto della vita: il modo in cui l’ebreo si comporta negli affari e in casa, come si veste, come mangia, come parla e persino come pensa. Queste mitzvot, quindi, contraddistinguevano l’ebreo dal non ebreo, motivo per cui, forse, molti traducono la parola “kadosh”, sostituendo il significato letterale, santo, con il significato di distinto o separato. Oggi, queste leggi continuano a caratterizzare l’ebreo osservante come “distintamente altro”, nelle parole di Rav Adin Steinsaltz. L’alterità è insita nell’adesione al Codice di Santità, ed è un’esperienza difficile. Rav Steinsaltz nel “La Rosa a Tredici Petali” sostiene che la lotta quotidiana presentata da questi comandamenti è in realtà un’impalcatura per “la lotta fondamentale per la santità”. La santità è uno stato che si crea quando gli ebrei si sforzano di rispettare i rigorosi e vasti requisiti del Codice di Santità “senza soccombere alla noia e alla disperazione”.
Rav Lord Jonathan Sacks sostiene che un aspetto peculiare e qualificante dell’antica religione politeista fosse “l’offuscamento dei confini… tra dèi e umani, tra vita e morte, tra i sessi e così via“. In netto contrasto con questa concezione, la Torà ci insegna che ci sono confini che non possono essere offuscati. Non c’è santità nell’infrangere i confini. Piuttosto, la vera santità sta nel mantenerli. D-o stesso ha creato il mondo, ci dice la Torà, attraverso la rottura. Nel libro di Bereshit, nei versetti che descrivono la creazione del mondo, la Torà usa la locuzione Vayavdel – e Lui ha separato. L’integrità del mondo è nata da una scissione. Dopo questa scissione la Torà scrive che D-o, Vayar ki tov – e vide che era buono. Il mondo ha trovato la sua integrità nella fessura tra luce e oscurità, tra il mare e il cielo. L’elenco dei comandamenti nella Parashà di Kedoshim non è costituito da leggi casuali. L’ethos dell’ebraismo risiede in “un universo ordinato in cui ogni cosa, ogni persona ed ogni azione ha il suo posto giusto”, Scrive Rav Sacks. “Questo ordine è minacciato quando il confine tra diverse specie di animali, tra diversi tipi di cereali e di tessuti viene violato; quando il corpo umano viene lacerato o quando le persone mangiano sangue, segno di morte, per nutrire la vita.”
Naturalmente, non tutto nella vita può essere suddiviso in due opzioni diametralmente opposte. Esistono alcuni concetti ed identità che sono meglio compresi come uno spettro. Il discorso moderno giustamente sfida i rigidi binari in ambiti in cui l’esperienza umana è più complessa. Ma la Torà ci ricorda che, anche se in certi ambiti può essere lecito, non tutte le distinzioni sono artificiali, che alcune di queste distinzioni sono sacre e sono da mantenere. Ironicamente, siamo sempre più sfidati a distinguere tra ciò che è binario e ciò che è uno spettro. La sfida è discernere la differenza. Sfumature e complessità sono tratti preziosi, eppure il mondo è stato creato in binari e D-o ha visto del bene in questi binari. In un mondo ossessionato dalla trascendenza, la Parashà di Kedoshim ci ricorda che la santità derivante dall’etica risiede nei confini, non oltre. Siamo destinati e ci è richiesto di rimanere entro i rigidi standard etici determinati da D-o, entro limiti che ci lasciano visibili, separati e per certi versi soli, ma soli con kol adat Yisrael, tutta la congregazione di Israele.
Spesso nella nostra storia ci siamo ritrovati soli, separati, con pochi alleati. Questa separazione forzata ha avuto il risultato di rafforzare il nostro destino di essere distinti e soli; E così, come avvenuto ciclicamente nella storia ebraica e come, purtroppo, sta avvenendo anche oggi nella nostra vita contemporanea, mentre il mondo dubita della rettitudine del popolo ebraico, ci ritroviamo nuovamente isolati. L’ebraismo ha offerto un’alternativa iconoclasta alle teologie del Vicino Oriente, attraverso l’idea innovativa, allora come oggi, che gli esseri umani hanno la potenzialità, di fatto, di essere in grado di essere kedoshim, santi, distinti, in una maniera che li rende simili a D-o. D-o ha detto: è possibile diventare santo attraverso i limiti. Non credere di essere il più potente, non credere di diventare più umano, quando superi determinati limiti. Kedoshim tihiyu. Sarete santi. Sarete santi nelle vostre distinzioni e nei vostri limiti, che non rappresentano in realtà limiti allo sviluppo personale, allo sviluppo comunitario o dell’umanità intera, tutt’altro, rappresentano limiti che permettono di non perdere la bussola, limiti che rappresentano una base solida per permettere lo sviluppo individuale e collettivo. Sarete santi nell’impegno che mettete nell’osservare le leggi di D-o, le leggi che coinvolgono ogni aspetto della vostra vita. Sarete santi. Ognuno di voi, tutti voi senza alcuna distinzione.