Un furetto arso vivo, un caprone legato per le zampe e poi sgozzato, una donna violentata con un’enorme bottiglia e un tizio a cui vengono cavati gli occhi con un cucchiaio. Questo il campionario minimo (c’è molto altro) di crudeltà, efferatezze e atrocità proposte nel film che spacca a metà Venezia 76. L’uccello dipinto,regia del ceco Vaclav Marhoul, due ore e quarantanove di durata sempre con carni spappolate e maciullate, è il classico film dove coprirsi gli occhi serve davvero a poco. Le urla e i rivoli di sangue ti raggiungono ovunque, anche sulla poltroncina. Fosse un horror o uno slasher movie potremmo capire il desiderio di trasfigurazione che porta con sé il cinema di genere. Ma visto che si tratta di un lavoro “realistico”, leggasi l’idea che per mostrare la violenza va mostrata nella sua interezza senza risparmiare alcun dettaglio esplicito, proprio non ne comprendiamo i presupposti se non quelli di un furbesco e limitante sensazionalismo.
Per capirci. Riprendiamo la sequenza dell’uomo (Udo Kier) che acceca il rivale in amore cavandogli gli occhi. Marhoul e il suo team tecnico non sono sazi della scena in cui vediamo la vittima di spalle e la sentiamo urlare, come dell’ulteriore movimento di macchina che va a scoprire l’accecato con le mani davanti agli occhi e il viso ricoperto di sangue. No, non basta. Servono almeno un altro paio di sottolineature: i bulbi oculari per terra leccati dai gatti e ancora un attimo dopo il protagonista, un bambino che fugge per mezzo est Europa negli anni ’40 (a breve raccontiamo la trama), che riporta i bulbi sanguinolenti all’uomo che a sua volta, nel prenderli in mano, si toglie le mani dal viso e lo spettatore è costretto a sorbirsi pure il particolare dell’incavo degli occhi svuotato e nero.
Tratto da un romanzo scritto nel 1965 da Jerzy Kosinksi, L’uccello dipinto è la storia ambientata in un imprecisato immenso spazio dell’Est Europa nei primi anni Quaranta di un bambino senza nome di origine ebrea che, morta la donna che lo accudiva, (morte da lui involontariamente provocata) si ritrova in almeno una decina di situazioni terrificanti che lo vedono continuamente in fuga, per poi ogni volta soccombere subendo bastonate, venendo sodomizzato, sospeso per aria con corde, gettato in una vasca di merda, caricato a pugni sui vagoni piombati nazisti che portano nei campi di concentramento. Se lo sfondo del quadro è fosco fuori misura (ce la “bella” fotografia in bianco e nero a pompare sul “realismo” di cui sopra) ecco che i contatti che il piccolo protagonista ha non concedono mai un appiglio di umanità e di calore.
Che siano donne o uomini, contadini o persone meno rozze, che siano esseri umani isolati dal mondo o piccole comunità sufficentemente integrate, il bimbo subisce vessazioni orribili da tutti. E non che ai poveri animaletti che gli ronzano attorno, e a cui lui sembra affezionarsi, se la passino meglio, anzi. Più che un racconto sul bene e sul male in ognuno di noi, Marhoul docet, L’uccello dipintosembra infatti l’abbozzo tentennante di un revenge movie che prima o poi matura in ulteriore violenza. Quindi mazzate su mazzate, squarci su squarci, orrore su orrore. In questo desiderio “storico” di accumulo che fa quasi sfigurare le SS quando entrano in scena, solo in paio di capitoli su nove, una quisquilia, con le loro classiche mitragliate con cui falciano disperati deportati in fuga. Il fatto che il romanzo contenga quei particolari (in Italia è edito da Minimum Fax e online ce ne sono ampi stralci gratis) non ne giustifica una rappresentazione così facile e a buon mercato. Il regista ha assicurato che a tutte le povere bestie del film non è stato torto un pelo, e che macellazioni e morte sono frutto solo del lavoro in post produzione. Sarà, ma quanta inutile e gratuita violenza in Concorso a Venezia. Inspiegabile il cast all star: da Harvey Keitel a Barry Pepper, passando da Stellan Skarsgard.