Le parole ormai in disuso che un tempo intrecciavano ebraico al dialetto ferrarese
Gianmarco Marzola
Lo zio sedeva davanti a me guardandomi sorpreso. Non avrebbe immaginato che quel gergo che utilizzava più di 50 anni fa con gli altri marzar, ragazzi di bottega, sarebbe stato comprensibile a suo nipote. Anche io non ci potevo credere, anche se sapevo che mio zio Giorgio era dotato di un distinto talento per le lingue – destreggiandosi in comacchiese come un madre lingua anche se nato a Ferrara centro. Eppure mio zio conosceva qualche parola dell’ebraico. Non lo poteva credere nemmeno lui.
L’argomento venne fuori una sera in trattoria con il signor Gianni, un suo vecchio amico e collega, e lo zio Lucio, entrambi grandi conoscitori del settore tessile di Ferrara, soprattutto per quanto riguarda la zona del centro. I tre si erano messi a parlare dei vecchi tempi, di come lavorassero nelle botteghe della Ferrara del Secondo Dopoguerra e di quello strano linguaggio in uso all’epoca: parole in gergo ferrarese ma distorte in una lingua strana che parlavano appunto solo i marzar, i commercianti e bottegai. Era una lingua in codice che al tempo – parliamo dei primi anni ’50 – solo persone dai trent’anni in su conoscevano, tutti lavoranti nel settore tessile, più che altro addetti alla vendita, nella Ferrara del centro.
“Devi considerare che un tempo era tutto diverso – mi raccontano -. Non c’erano i supermercati dove la gente comprava di tutto, ma si veniva in piazza a comprare. I negozi erano totalmente diversi, nemmeno si chiamavano “negozi” ma “botteghe”. A servire non c’era una sola persona come oggi. Ad esempio da Mazzilli, in via degli Adelardi, all’angolo con via Bersaglieri del Po, erano quasi trenta gli impiegati, c’era chi si occupava dei magazzini e chi del banco di vendita. E c’erano giorni, come il lunedì, in cui affluiva una gran quantità di gente dalle campagne che avevi il negozio pieno! E allora dovevi stare all’occhio, che magari qualcuno provava a rubare, o dovevi saper dire al tuo collega che il signore che stava servendo era uno con i soldi e che quindi il prezzo per lui doveva crescere e non calare. Nelle botteghe infatti non c’era il prezzo fisso. Allora adoperavi questa lingua, che solo i tuoi colleghi, capivano.”
Si usava in vari negozi del settore tessile. Si usava nelle zone del centro, in via Mazzini, in via Canonica (nel primo tratto di Bersaglieri del Po, adiacente al Listone) e anche in San Romano. Ma non tutti la conoscevano. Già negli anni ’50 erano in pochi che la sapevano parlare. E non in tutti i negozi.
“In quei tempi le botteghe di vestiti erano più che altro laboratori di sarti che si ingrandivano, e invece di servire i grandi mercanti come Vecchi, Fusi e Gibelli, cercavano di farsi una propria clientela mettendo dei manichini e un banco di vendita nella parte anteriore del laboratorio. Eppure questo idioma non lo conoscevano. I miei titolari, che lo conoscevano bene, avevano iniziato anche loro come commercianti, in un negozio di via Mazzini, Bottoni e Zagni. Visto che a Ferrara la maggior parte delle botteghe del settore tessile era di proprietà di alcune famiglie ebraiche, dicevamo tra di noi che erano termini ebraici ma nessuno sapeva di cosa si trattasse. Addirittura per dire “merda” si usava una parola che non credo proprio che gli ebrei potessero utilizzare in questo senso. Insomma merda si diceva Shoah. Per dire che qualcuno era andato in bagno si diceva
L’è andà in tal Moshao, l’è dré far na Shoah
Secondo me sono stupidaggini, non può essere ebraico!” mi spiegò lo zio Giorgio.
E invece si zio, è proprio ebraico. Solo che è cambiata la prima lettera. Merda si dice Tsoah, e moshao, mi ricorda proprio la parola moshav, insediamento, ma in ebraico come in italiano la parola viene dall’idea di sedersi, in ebraico yashav. Insomma può anche voler dire un posto dove ci si siede, come il gabinetto.
Questo è forse l’esempio più strano tra le tante parole di cui sentii parlare quella sera. Di sicuro anche quello meno elegante. Ma – intendiamoci fin da subito – essendo questo un gergo segreto ed incomprensibile ai più, non era di certo usato per comunicazioni “eleganti”. Era invece utile per comunicare informazioni più triviali, legate sia alla necessità del marzar, ovvero vendere la merce ad un prezzo “giusto”, sia alla malizia del ferrarese che voleva sparlare liberamente anche davanti ad un fiume di clienti.
Invece se c’era una ragazza che si sapeva che era una poco di buono – notare già il maschilismo e la malizia – le si dava della puttana ma in modo che lei non capisse. Le si dava insomma della Zanah (Zonah in ebraico puttana).
Se c’era uno che avevi paura che rubasse, gridavi al tuo collega:
Nàina al zot, cal non ganavi!
Qui la spiegazione è più complicata. Innanzitutto la prima parte della frase, Naina al Zot, non è certo che sia ebraico, anche se suona molto come ‘Ayn ‘al zot, occhio a lei, o occhio a quella cosa, potrebbe anche essere ferrarese. Naina sembra voglia dire “guarda” anche nelle campagne, mentre Zot potrebbe essere la contrazione di Giovanotto ferrarizzato: Zuvanot, Zvanot, Zot. Ganavi è invece evidentemente la versione ferraresizzata di ganav, rubare.
Più evidenti invece le origini delle parole che vengono direttamente dall’ebraico: Zaqenche voleva dire vecchio, Tov, per dire buono o bello, Dabra (Diber in ebraico) che vuol dire parlare. Ma anche per dire di si, lo si diceva come anche oggi in ebraico moderno, Ken!
Lasa lì ad dabrar e lavora un poc!
dicevano magari a una collega che stava sempre li a parlare ma non serviva mai i clienti.
Quando poi riuscivi a vendere lo Zaqen, le cose vecchie, ti prendevi la schánta (parola di origini a me ignote), che era un aumento di stipendio calcolato sul prezzo a cui avevi venduto lo Zaqen.
C’era insomma un sistema per comunicare che faceva l’uso di termini e parole ebraiche tra i venditori del settore del tessile. Non era certo tutto ebraico: ad esempio a volte si usava, invece della versione “ebraica” di una parola, un anagramma della parola italiana o ferrarese. Per dire “donna” mio zio si ricorda due parole: Zorah (che suona molto come l’ebraico ma di significato incerto) oppure “nado” che è l’anagramma di “dona”. Come tutti i gerghi, anche quest’idioma si reinventava continuamente.
È importante però sapere che l’uso di questo idioma rompe la divisione confessionale ebreo/non-ebreo che uno si aspetterebbe. L’evidente origine ebraica di molti termini non dovrebbe meravigliare, visto che tradizionalmente a Ferrara dalla prima metà del XIV secolo il tessile e soprattutto la lavorazione della lana erano in mano alla comunità ebraica che fece fiorire al tempo l’economia del ducato Estense. Nella storia Una lapide in via Mazzini, Giorgio Bassani parlava in effetti di un dialetto ferrarese con termini ebraici che era in uso all’interno della comunità ebraica. Ormai nel Dopoguerra questo gergo era qualcosa che veniva parlato tra i bottegai del tessile indipendentemente dal loro credo. Era un idioma pratico, utilizzato per scopi reali e utili, non una lingua usata a marcare un tratto identitario specifico di una religione o di un’etnia. Anzi, al giorno d’oggi, nessuna delle persone che mi hanno raccontato di quest’idioma sembrerebbe avere origini ebraiche.
http://www.listonemag.it/2016/09/13/le-botteghe-storiche-del-centro-usavano-un-linguaggio-in-codice/