Filippo Tedeschi
È di domenica 5 luglio la notizia del sostanziale blocco della nuova riforma sulle conversioni da parte del nuovo governo israeliano. La riforma proposta dal precedente governo Netanyahu prevedeva la creazione di tribunali rabbinici locali che avessero potere decisionale sui ghiurim (conversioni), spostando questa prerogativa dal rabbinato centrale a nuovi tribunali che, secondo la tesi di chi sosteneva questa riforma, sarebbero stati più in linea con le tendenze religiose del territorio.
Con le nuove elezioni di quest’anno però, per ottenere la maggioranza, Bibi ha dovuto far entrare nel governo i partiti della destra religiosa haredi sefardita (Shas) e askenazita (United Torah Judaism) che, come contropartita, hanno preteso sostanziali modifiche a questo provvedimento ridimensionandone la portata.
Forte sostenitore di questa riforma nello scorso governo era stato Avigdor Lieberman di Yisrael Beytenu, partito che storicamente è vicino agli Israeliani di origine sovietica. È infatti di origine sovietica il principale blocco di Israeliani che, immigrati in Eretz Israel secondo la legge del ritorno che concede la cittadinanza diretta anche a chi abbia anche solo un nonno di fede ebraica, si ritrovano poi, ad esempio, ad avere difficoltà a sposarsi proprio per il fatto di non essere considerati Ebrei in terra d’Israele.
Messaggi di sgomento nei confronti di questo dietrofront arrivano anche da Nathan Sharansky dell’Agenzia Ebraica che sottolinea come un argomento così delicato non possa essere così stravolto ad ogni tornata elettorale in base solo a rapporti di potere e di maggioranza.
Il rabbinato centrale da parte sua rivendica la necessità di un’uniformità di giudizio e di condotta del tribunale davanti ad ogni candidato al ghiur nel rispetto dell’alachà. Partendo dal presupposto infatti che chi decide di entrare a far parte del popolo d’Israele deve sostenere un impegno ancora più forte nell’osservanza delle mitzvoth, la fiducia nella futura condotta del candidato deve risultare piena e il giudizio imparziale.
Evidente però è il peso politico di questa decisione. Da una parte i partiti del centro/centro-destra israeliano vedono nella possibilità di facilitare i ghiurim una risposta all’aumento demografico della popolazione araba musulmana in Israele, dall’altra il centro-sinistra condanna queste scelte del governo sostenendo con le parole di Herzog (Zionist Union) che Israele con queste politiche diventa “un paese più cupo che si arrende agli elementi più estremisti haredi”. Terza campana di cui abbiamo già parlato è proprio quella haredi di Shas e UTJ sostenuta, in questo caso, anche dal rabbinato centrale.
È intuibile però come la scelta di decentrare le decisioni sui ghiurim rischia di essere un rimedio pericoloso. Pensiamo ad esempio alla realtà italiana. Anche qui i sostenitori della tradizionale competenza del rabbinato locale spiegano giustamente che la vicinanza e la conoscenza di lunga data dello specifico caso può portare a decisioni più adatte. Tuttavia si è andati progressivamente verso il modello del Bet Din unico, o di pochi Batè Din, per avere dei criteri generali e condivisi su una materia così delicata. Pensiamo a cosa accadrebbe se gli ‘Olim sapessero che è meglio stabilirsi nella tale o tal’altra città di Israele solo in base alla più o meno benevola giurisprudenza dei locali tribunali rabbinici. E’ probabilmente su un piano culturale che in Israele si deve invece tentare di unire al giusto rigore della decisione alachica anche un realistico carattere di speranza e scommessa nell’avvenire.
Ma anche al di là dello specifico tema dei ghiurim resta dunque la necessità degli Israeliani di riuscire a coniugare il fatto di essere uno stato ebraico, e quindi di non prescindere dall’alachà, con il dover essere comunque uno stato democratico e multietnico. Questa è una sfida che Israele deve essere in grado di affrontare e che sarà fondamentale per il suo futuro.
http://www.ugei.it/anche-in-israele-si-parla-di-ghiurim