L’amore epistolare di Franz Kafka finì in campo di concentramento
Emilio Gentile
«Alle sette e mezza di mattina, i bambini cechi sono entrati a scuola come d’abitudine. Gli operai e gli impiegati sono andati al lavoro come al solito. I tram erano pieni come sempre. Solo le persone erano diverse. In piedi, fermi, stavano in silenzio. Non ho mai sentito così tanta gente tacere. Le strade erano immerse nel silenzio. Le persone non discutevano. Negli uffici nessuno alzava la testa dal proprio lavoro. …alle 9.35 del 15 marzo 1939 l’esercito del Reich ha raggiunto la Národní trvída (strada centrale di Praga). Su marciapiedi schiere di persone camminavano come sempre. Nessuno si è voltato a guardare».
Così, con una nota che sembra redatta da un’indifferente cronista, Milena Jesenská descriveva l’occupazione dello Stato cecoslovacco, sorto venti anni prima sulle rovine dell’impero asburgico. Eppure, l’indifferenza era sentimento estraneo alla personalità di Milena, che amava intensamente la sua città e la sua nazione. «Milena di Praga», come si faceva chiamare e si presentava, nel 1939 aveva quarantatrè anni e aveva già vissuto un’esistenza intensa, appassionata, animata dall’esuberante vitalità di donna precocemente ribelle e libera di frequentare i circoli artistici e intellettuali della sua città, immersa fra amicizie e amori. «Come amica – ricordava chi la conobbe negli anni giovanili – era inesauribile, una fonte inesauribile di bontà e di aiuti… prodiga di tutto in misura incredibile: della vita, del denaro, dei sentimenti». Il padre medico e professore universitario a Praga, nel 1918 aveva messo Milena in una casa di cura per impedirle di sposare, lei non ebrea, un intellettuale ebreo di Vienna, ma Milena era fuggita, si era sposata e a Vienna aveva lavorato come portabagagli alla stazione e come traduttrice per contribuire al modesto bilancio familiare. Fallito il matrimonio, era tornata a Praga dove visse nuove esperienze, nuove amicizie, nuovi amori.
Nel frattempo aveva conosciuto Franz Kafka, traducendo in ceco i suoi racconti. Fra il 1920 e il 1923, Kafka fu legato da un amore soprattutto epistolare a Milena, affascinato dalla sua vitalità: «Tu che vivi vivamente la tua vita fino a tali profondità», le scriveva. Le Lettere a Milena dello scrittore ceco, pubblicate dopo la Seconda guerra mondiale, l’hanno fatta conoscere per molto tempo come «l’amata da Kafka», mentre Milena merita d’esser conosciuta e apprezzata come scrittrice e grande giornalista.
Se grande è il giornalismo che anticipa la storia quando intuisce e narra con lucidità l’avvento di una tragedia, Milena fu una grande giornalista, come dimostrano gli articoli che pubblicò fra l’estate del 1938 e la primavera del 1939. Descrisse la crudele persecuzione degli ebrei austriaci dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich nel marzo 1938. Poi, nel settembre dello stesso anno, dopo la cessione dei Sudeti alla Germania nazista, imposta alla Cecoslovacchia dai governanti democratici di Francia e Inghilterra, illuse di saziare così la voracità imperialista del dittatore nazista, intuì che incominciava la tragedia del popolo ceco: «Siamo soli». Infine, testimoniò l’invasione pacifica della Boemia e della Moravia, che pose fine all’esistenza della Cecoslovacchia, trasformando Praga nella capitale di un piccolo Stato vassallo del nuovo impero hitleriano. «Come si presentano i più grandi avvenimenti della Storia? In maniera inaspettata e improvvisa», osservò Milena quando i tedeschi entrarono a Praga: «Ma una volta accaduto, ci rendiamo conto di non essere sorpresi». Lei non era sorpresa.
Quando vide la persecuzione degli ebrei austriaci dopo l’Anschluss, si era resa conto che «l’odio contro gli ebrei alberga latente anche nelle persone migliori e che non c’è niente di più facile che risvegliarlo», mentre i nazisti attuavano un «pogrom freddo», come Milena lo definì, cioè «un’operazione programmata, calma, un decreto disposto dal governo che, pur non togliendo la vita agli ebrei, toglie loro qualsiasi possibilità di vivere». E aveva compreso che «proprio perché la diaspora ebraica è planetaria, il destino degli ebrei ha a che fare e dipende dal passo che il mondo farà in direzione della barbarie o verso la libertà». Quando le democrazie imposero al governo cecoslovacco la cessione dei Sudeti, Milena si unì alla gente di Praga che voleva reagire alla minacciosa potenza germanica: «Morire per la libertà è un dovere e un diritto», scrisse, perché «chi non si difende perde tutto». Ma nello stesso tempo ammise anche la «dolorosa necessità di arrendersi senza combattere».
E quando Praga fu occupata senza un gesto di resistenza, e Mussolini disse che un popolo incapace di compiere almeno un gesto era «maturo per il destino che lo ha colpito. Più che maturo, marcio!», Milena rispose che il gesto che i cechi avrebbero potuto compiere il 15 marzo «non sarebbe stato altro che un gesto suicida». Forse sarebbe stato «bello versare del sangue compiendo un gesto eroico per la propria patria», ma «non siamo abbastanza per poterci permettere di compiere un gesto», mentre il popolo ceco aveva il dovere di stare tutti uniti e difendere la terra su cui camminiamo, la lingua che parliamo, la cultura che abbiamo creato, le canzoni che cantiamo. …Siamo otto milioni: troppo pochi, davvero troppo pochi per un suicidio. Ma abbastanza per vivere».
Il dovere di vivere non fu un appello alla rassegnazione. Militante nella resistenza clandestina, Milena aiutò partigiani ed ebrei a espatriare, girando per le strade di Praga, lei non ebrea, con la stella gialla sul cappotto. Fu arrestata dalla Gestapo nel novembre 1939 e deportata nell’autunno 1940 nel campo di concentramento di Ravensbruck. Margarete Buber-Neumann, sua compagna di prigionia, la descrisse sofferente, ma «piena di coraggio e di iniziative… Milena non divenne mai una detenuta, non poteva diventare ottusa e brutale come tanti altri». Morì per malattia renale il 17 maggio 1944, dopo aver accettato fino all’ultimo, soffrendo, il dovere di vivere.
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