Due anime in un solo corpo: dai poeti ai rivoluzionari, un’identità tormentata. La storia di un’assimilazione, prima del diluvio
E’ il 1933: Hannah Arendt, detenuta e rilasciata dalla Gestapo, decide di lasciare la Germania della barbarie. E’ senza documenti, il treno corre verso il confine con la Cecoslovacchia. Va nella direzione opposta a quella che, 190 anni prima, aveva seguito il quattordicenne Moses Mendelssohn andando dalla nativa Dessau verso la Berlino dell’illuminismo. “Oggi sono passati sei buoi, sette maiali e un ebreo” annotava nel suo registro il custode della porta di Rosenthal. La Arendt, la sera prima di partire aveva recitato poeti greci cenando sul Kurfürstendamm con Kurt Blumenfeld. Il giovane Moses, malnutrito, sapeva solo l’ebraico e lo Judendeutsch: tedesco, latino, greco, francese, inglese li avrebbe imparati da solo e in segreto, agli ebrei era proibito.
Con Mendelssohn, “Socrate tedesco”, “Lutero ebraico”, filosofo e scrittore noto in tutta Europa, ammirato da Goethe e da Herder, amico di Lessing e di Wieland, iniziava “la lunga fila degli ebrei tedeschi assimilati che adoravano la cultura e la civiltà tedesca”; Amos Elon inizia da lui per narrare la storia dell’assimilazione degli ebrei tedeschi. E’ un processo che riguarda tutti gli ebrei europei: ma solo in Germania esso “riflette la complessità di un rapporto che alla fine diventò una sorta di identità (…); il dualismo di tedeschi ed ebrei, due anime in un solo corpo, sarà la preoccupazione e il tormento degli ebrei tedeschi per tutto l’800 e i primi decenni del ’900. In nessun altro paese dell’Europa occidentale questo dualismo fu così profondo e alla fine così tragico”.
Elon si ferma prima della tragedia. Se fosse andato oltre, scrivere questa storia sarebbe stato forse impossibile: la tragedia avrebbe divorato tutto, quel buco nero avrebbe attratto tutto a sé. Mentre quei 190 anni, dal 1743 al 1933, furono un periodo ricchissimo di idee, di sforzi, anche di successi: vanno ricordati insieme agli uomini e alle donne che gli hanno dato vita. Se non ci fosse la tragedia, scrisse Frederic Grunfeld, parleremmo dei decenni precedenti il nazismo come di “un’età dell’oro, seconda solo al Rinascimento italiano”.
Paradossalmente è il non parlare della tragedia che consente di comprenderne dimensione e consistenza: non solo le sofferenze senza limiti e i morti, ma la distruzione della storia straordinaria scritta da un popolo. Anzi da due popoli: perché è proprio per questo che la distruzione fu decisa e voluta. Non potendo far sì che quello che era successo in quei 190 anni non fosse avvenuto, la “soluzione” non poteva che essere quella “finale”: sopprimere il futuro per cancellare il passato. Non fosse che per questo, è l’implicito messaggio di Elon, quel passato bisogna riviverlo. C’è un duplice significato nel titolo: “The Pity of It All” come rimpianto e come compassione. E un duplice sentimento, di empatia per ciò che fu prima e di orrore per ciò che successe dopo.
“Ritratto degli ebrei in Germania 1743-1933” è il sottotitolo. La trasformazione in senso moderno dell’ebraismo – riforma e mistica chassidica, conversioni e sionismo – è avvenuta in Germania in quegli anni: per questo, parlare dell’ebraismo tedesco significa parlare degli ebrei in generale. E quindi, poiché il modello degli ebrei tedeschi è stata la Kultur della borghesia, e l’ideale la Bildung goethiana, storia e pensiero dell’ebraismo europeo si intrecciano strettamente con storia e pensiero della società tedesca. Assimilazione e antisemitismo non sono due questioni che procedono indipendenti, come se da una parte ci fosse la storia intellettuale dell’assimilazione ebraica e dall’altra la storia e il pensiero antisemita, o tedesco: è stata una storia unica, da cui entrambi uscirono modificati. Nel 1933, il Centralverein (l’Unione dei cittadini tedeschi di fede ebraica) incaricò Siegmund Kaznelson di compilare l’elenco dei contributi che gli ebrei avevano dato alla Germania negli ultimi due secoli: fu un ultimo, retrospettivamente patetico tentativo di opposizione al nazismo. Perché il contributo dato dagli ebrei alla Germania non si può ridurre alle 1.060 pagine e alle migliaia di voci de “Gli ebrei nel regno della cultura tedesca”1.
Solo dopo le sconfitte, a Jena e alla Somme, la Germania eliminò le discriminazioni; e furono periodi fertili di energie, economiche professionali e culturali. Ma per la maggior parte di quei 190 anni, fu un susseguirsi di ingiustizie subite e di sforzi pazienti, di strade tentate e di meriti guadagnati per poter pienamente essere tedeschi di lingua e di cultura. Senza i suoi ebrei, senza la tensione e la pressione esercitata da quello scarso 1 per cento della popolazione, la Germania non sarebbe quella che è. E’ anche grazie al successo degli ebrei tedeschi che la Germania ha avuto, e ha, un ruolo preminente nell’Europa moderna, per cui senza la Germania l’Europa non sarebbe quella che è. E’ quindi grazie agli ebrei tedeschi che questo è anche un libro sulla nostra storia.
Nessun poeta è stato tanto tedesco e tanto ebreo quanto Heinrich Heine. Il segno che ha lasciato nella cultura tedesca è secondo solo a quello di Goethe2: i nazisti bruciarono i suoi libri, ma neppure loro riuscirono a cancellarlo. Fu lui il primo a dire, nel 1820, quello che molti altri dopo di lui ripeteranno, che la sua vera patria era la lingua tedesca, “una patria anche per colui al quale è negata per cattiveria o per follia”. Ebrei e tedeschi, scrisse, sono “i due popoli etici dell’Europa: potrebbero fare della Germania una cittadella della spiritualità” ma anche il contrario. Gli ebrei avevano portato dall’Egitto quello che sarebbe diventato una religione positiva e una chiesa, dogmi in cui credere, riti da celebrare: ma anche il modello per le religioni di stato. Anticipando Freud, Heine considerava le religioni come una forma di nevrosi, era indifferente a tutte, la sua lealtà verso l’ebraismo era “fondata solo sulla profonda antipatia per il cristianesimo”. Anche per Heine le interdizioni – a esercitare come avvocato, a essere assunto nel settore pubblico – crearono serie difficoltà economiche. Considerava al di là della sua dignità e onore convertirsi per avere un lavoro in Prussia, ma finì per farsi battezzare, da Gottlieb Grimm, in una piccola parrocchia di Heiligenstadt dove nessuno lo conosceva. Per molti anni se lo rimproverò, finendo per notare cinicamente che non si sarebbe mai convertito se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo. E poi, come disse anni dopo a Balzac, “sono battezzato ma non convertito, tutte le religioni sono uguali”. Già nel 1834 aveva visto che cosa si agitava sotto la superficie: “A paragone del dramma che verrà in Germania, la Rivoluzione francese sembrerà un idillio”. Il comunismo, allora un oscuro movimento politico, lo vedeva “destinato a giocare un grande ruolo nella tragedia, la vecchia tradizione assolutista in vesti diverse e con nuovi slogan”. E ammoniva: “I nostri nipoti dovranno avere la pelle spessa”.
Le conversioni non furono solo dovute a motivi economici o di carriera. L’Illuminismo, postulando una religione universale razionalista, forniva il presupposto ideologico, convertirsi pareva la strada per “essere tedeschi”. Nel 1799 Friedländer, preoccupato per il dilagare del fenomeno, aveva avanzato una proposta, un Sendschreiben, come l’aveva chiamata alla maniera di Lutero: si sarebbe unito alla chiesa luterana se agli ebrei fosse stato permesso di farlo sulla base di valori morali condivisi, senza riconoscere la divinità di Cristo e senza battesimo formale, in cambio abbandonando alcune forme di devozione. La proposta non fu accettata dai protestanti e fu respinta come disonorevole dagli ebrei, ridicolizzata come “battesimo a secco” (“impermeabili” invece era il nome dato a quanti rifiutavano di farsi battezzare). In quegli anni, l’ondata delle conversioni assunse proporzioni tra le più alte in Europa, paragonabili a quella della Spagna del 1400, quando il 60 per cento si convertì. Tra i nomi più famosi, oltre a Heine, il suo amico Börne , la famiglia Marx, compreso Karl che aveva sei anni, quattro dei sei figli di Moses Mendelssohn, compreso Felix, il più famoso compositore di musica cristiana. Si convertì Eduard Gans, uno dei fondatori della Società per la cultura e la scienza (Wissenschaft) degli ebrei. Ai più noti “ebrei di corte” soleva far da padrino il re di Prussia; quando non poteva partecipare, mandava 10 ducati.
Tre generazioni dopo Moses Mendelssohn gli ebrei erano tedeschi nella lingua che parlavano, negli abiti che vestivano, nei sentimenti nazionali che professavano. Gli ebrei osservanti temevano l’imminente sparizione della fede, il dissolversi delle differenze tra giudaismo e cristianesimo. Erano talmente tanti i Siegfried e Sigismund che i non ebrei incominciarono a non dare più questi nomi ai propri figli. Nel cimitero di Berlino su una tomba del 1879 i genitori piangevano il loro amato figlio Alfred Deutschland. La riforma religiosa venne vista come strumento per l’integrazione attraverso l’assimilazione: non si pregava più in ebraico ma in tedesco, gli ebrei “affermavano il loro ebraismo pregando nei libri riformati, e la loro germanicità eliminando la preghiera tradizionale per la venuta del Messia nei nostri giorni; non desideravano più di essere guidati nella terra promessa, la Germania era la loro amata patria”. Anche Eduard Bernstein, come tanti ebrei di Berlino, celebrava Natale come festa popolare: “Non ho mai dubitato che Gesù avesse sofferto e provavo pietà per lui”. Suo fratello maggiore seppe di essere ebreo la volta che si sentì apostrofare come tale per la strada: lo dirà anche Sartre, ebreo è colui che gli altri considerano ebreo. L’integrazione sembrava a portata di mano, calarono bruscamente le conversioni. Ma l’antisemitismo era sempre dietro l’angolo: proprio negli anni “felici” di Bismarck, nel 1879 Wilhelm Marr conia la parola, dandole un significato non religioso, quindi razziale, nel filone iniziato in Francia 20 anni prima da Joseph-Arthur de Gobineau e da Ernest Renan. E nel 1873, quando nel crac di Borsa decine di migliaia di borghesi e di aristocratici persero tutto, divamparono sentimenti che non si erano più sentiti dall’epoca delle crociate.
In Germania ha origine il moderno chassidismo, per Martin Buber la risposta alternativa alla “questione ebraica”. Né conversione né separazione tradizionale, ma cosciente assunzione della storia ebraica come parte della propria cultura tedesca; non freddo razionalismo, ma la forza generatrice della cultura chassidica, ancora viva negli ebrei dell’est.
Invece Theodor Herzl era convinto che la sola soluzione alla “questione ebraica” fosse la fondazione di uno stato ebraico: la Germania, nella sua saggezza e generosità, l’avrebbe facilitato. Nel 1898, dopo due anni di preparazione diplomatica, Guglielmo II che stava partendo per un pellegrinaggio in Terrasanta doveva fare della Palestina la patria degli ebrei sotto il protettorato della Germania. Essi avrebbero portato con sé il tedesco, che sarebbe fiorito nella nuova patria. “Con il sionismo sarà di nuovo possibile agli ebrei di amare la Germania a cui i nostri cuori rimangono attaccati nonostante tutto”.
“L’unico posto in cui aristocratici tedeschi e borghesi potevano incontrarsi liberamente – annotò Madame de Staël – erano i salons delle signore ebree”. Si apriva agli ebrei uno spazio nel dibattito pubblico e nella politica: saranno presenti in tutti gli snodi storici decisivi della storia tedesca.
Nel 1819 vennero abrogati gli editti di emancipazione. Inaspettatamente scoppiarono e rapidamente dilagarono sommosse al grido di Hep3! Jude verreck!. A Friedrich Schlegel sembrò un ritorno alla parte più buia del Medioevo, al giovane Ludwig Börne sembrò la conferma dello Judenschmerz, il dolore trasmesso come una condanna da una generazione all’altra. Vent’anni dopo, a lui e all’amico Heine l’essere ebreo sembrò il punto d’appoggio da cui guardare al mondo con maggiore libertà e acume, e per civilizzare il patriottismo tedesco. Proprio mentre dilagava l’adorazione hegeliana dello stato, Börne sosteneva le ragioni di uno stato minimo. “Gli ebrei sono maestri di cosmopolitismo, e quindi maestri di libertà”.
I moti del 1848-’49 furono un punto di svolta per gli ebrei tedeschi, la loro situazione sembrò cambiare radicalmente. Uno dopo l’altro, tutti gli stati tedeschi garantirono la piena eguaglianza. A Berlino, giovani che una o due generazioni prima erano ancora nei ghetti, guardavano con entusiasmo a un futuro di uguaglianza e di libertà. Per la prima volta, abbandonata la tradizionale passività, gli ebrei tedeschi si impegnarono direttamente in politica. Ferdinand Lassalle organizzò una delle insurrezioni meglio riuscite, mentre, tra un carcere e l’altro, corrispondeva con il padre nella Slesia sulle azioni da vendere e comperare. Quando si costituì l’Assemblea nazionale, 10 dei 300 delegati erano ebrei; la presiedeva un ebreo, Eduard Simson, un altro ebreo, Gabriel Riesser, presentò il progetto di costituzione che offriva al re di Prussia Federico Guglielmo IV la corona del nuovo Reich tedesco. Il quale la rifiutò: non essendo circonciso, mormorò, non poteva accettarla.
“In Germania solo i re fanno le rivoluzioni” aveva osservato Bismarck. Nel 1870 nel quartier generale di Bismarck a Versailles c’era anche Leo Bamberger, “il rosso ebreo” eroe dei moti del 1848, come veniva chiamato. Quando fu chiaro che la Francia stava per capitolare, Bismarck fece venire Gerson Bleichröder, il suo Privatjude che già gli aveva finanziato la guerra con l’Austria del 1866, e poi aveva comprato i re del Württemberg e della Baviera. Bamberger voleva evitare di imporre un peso troppo grave ai francesi, Bleichröder era più ossequiente: c’era un pesante tono antisemita, a Versailles.
Nel 1914 furono di ebrei come Karl Kraus, Rosa Luxemburg, Walther Rathenau4 le poche voci che si opposero all’isteria bellicista. Contrario era Albert Einstein, che aveva lasciato la Svizzera per andare all’Istituto Kaiser Wilhelm, (“scoprendo per la prima volta che era un ebreo”), temeva il militarismo germanico. Ma gli ebrei in generale, dissoltosi in una notte il loro tradizionale cosmopolitismo, furono a favore della guerra. Il Centralverein esortava ad arruolarsi volontari, la Allgemeine Zeitung des Judentums rivendicava con orgoglio che il più giovane volontario fosse un ebreo quattordicenne. Difendevano, come Thomas Mann, la Kultur? Speravano che con la guerra sarebbero finiti gli impedimenti formali che ancora li affliggevano? Per questo sentirono come una pugnalata il censimento ordinato dal ministero della Guerra per accertare quanti fossero gli ebrei davvero al fronte: quelli rimasti dopo che ne erano morti 12.000.
Il Partito democratico tedesco era stato fondato da Theodor Wolff; col 18 per cento dei voti era il terzo partito nel Reichstag repubblicano. Ebrei gli editori dei giornali più autorevoli, Berliner Tageblatt, Frankfurter Zeitung, Vossische Zeitung, tutti sostenitori del governo. Ebreo Hugo Preuss che scrisse la Costituzione. Quando fu adottata, nella Weimar di Goethe, nessuno spese una parola sul fatale art. 48, quello che consentiva al presidente di governare per decreto.
Gli ebrei erano finalmente uguali di diritto e di fatto: furono molti di loro a creare quella che oggi viene ricordata come l’età dell’oro di Weimar: Einstein, Schönberg, Freud, Adler, Hirschfeld, Cassirer, Husserl, Weill, Reinhardt; e, all’istituto di sociologia di Francoforte, finanziato da Hermann Weyl, quella che Scholem chiamava “la setta ebrea”: Adorno, Horkheimer, Fromm, Marcuse, Benjamin.
Con l’iperinflazione crescono le tensioni sociali e politiche. Il 14 giugno 1922, alle 11 del mattino, il ministro degli Esteri Walther Rathenau, che aveva sempre rifiutato la scorta, è colpito da diversi colpi di pistola. E’ il 354esimo assassinio politico. L’impressione è immensa: non è solo un attacco alla Repubblica, è il simbolo della crisi dell’assimilazione. Al funerale il cancelliere Joseph Wirth accompagna la madre di Rathenau a quello che era stato lo scranno del Kaiser. Quando un’orchestra nascosta attacca la marcia funebre di Siegfried, molti piangono. E’ il più grande funerale che Berlino ricordi, vi prendono parte due milioni di persone.
Il dopo, la resistibile ascesa, è noto. Nel 1933, undici anni dopo la morte di Rathenau, Goebbels proclama la fine dell’intellettualismo ebraico. A Berlino e a Monaco, a Francoforte e a Dresda, in ogni città universitaria studenti in stivali e camicia bruna declamano negli altoparlanti: “Contro l’insolenza e l’impudenza, e in nome dell’onore e del rispetto per l’immortale spirito tedesco, io consegno alle fiamme…”. Bruciano i libri di Thomas Mann, Lion Feuchtwanger, Bertolt Brecht, Erich Maria Remarque, Albert Einstein, Vicki Baum, Robert Musil, Ernst Toller, Heinrich Heine, Emil Ludwig, Stefan Zweig.
“The pity of it all”.
1 Tutte le copie del libro furono distrutte dalle SS, ma il manoscritto venne ritrovato e ristampato.
2 Passando per Weimar, Heine fu invitato a render visita a Goethe nella Frauenplatz. Dopo qualche convenevole, Goethe gli chiese: “A che cosa state lavorando, signor Heine?”. “A un Faust”. “Avete qualcos’altro da fare a Weimar, signor Heine?”. “Avendo varcato la soglia di sua Eccellenza, non ho altro da fare”.
3 Acronimo di Hierosolyma est perdita, il grido dei legionari romani
4 Rathenau, convertito, dichiarava ossessivamente di essere ebreo: “Prima di essere ammesso all’udienza – disse la prima volta che incontrò Von Bülow – devo fare una dichiarazione e una confessione: Vostra Altezza, sono un ebreo”.
Il Foglio – 25.11.2013