L’aveva chiesto Amy Winehouse. E ora anche Rita Levi Montalcini: farsi cremare. A margine del compianto per la scomparsa del Premio nobel per la medicina, la decisione ha suscitato stupore – e qualche voce polemica -. Alcuni si sono chiesti quali siano le posizioni ebraiche in materia. Ecco i motivi e le fonti del divieto alla cremazione
Daniel Fishman
Scienziata, atea ma orgogliosamente ebrea, legata alle tradizioni di un ebraismo torinese colto e secolarizzato. Rita Levi Montalcini è scomparsa a 103 anni e il cordoglio è stato unanime e commosso. Tutti hanno ricordato il suo contributo alla scienza, alla ricerca, ma anche la sua forza di donna impegnata in battaglie civili. E tutti hanno ricordato la sua appartenenza al popolo ebraico. E così, quando si è saputo che il suo corpo sarebbe stato cremato, molti si sono chiesti: ma l’ebraismo contempla la cremazione?
Anche Amy Winehouse, la celebre cantante inglese di origine ebraica si è fatta incenerire. Era famosa sia per la sua inconfondibile voce, che per avere messo a dura prova il suo corpo tra eccessi di droghe ed alcol. Il suo funerale è avvenuto per cremazione, cosa che ha sollevato l’attenzione su un fenomeno che tende a diffondersi nel mondo ebraico riformato, che lo permette ma non lo incoraggia in nessun modo. Il mondo ebraico ortodosso rimane invece risolutamente contrario.
Nella commedia Ti presento i miei, il povero Ben Stiller si ritrova ad un certo punto ad una cena con il futuro suocero Robert De Niro e con la madre di questi conservata in una urna funeraria che troneggia in salotto. Tra le gag del film c’è anche il gatto che ovviamente fa cascare la nonna, la quale si sparge in casa.
La cremazione, da fatto puramente aneddotico ed accettato soprattutto nei paesi di cultura protestante, si è ora maggiormente diffusa in Italia, essenzialmente al nord. Nel complesso, i motivi della diffusione di questa pratica tra la popolazione, sono essenzialmente due: quella economica (costa meno di un funerale) e quella della mancanza di spazi. Molti cimiteri (non ci riferiamo ovviamente a quelli ebraici), prevedono e impongono infatti che a distanza di qualche anno le sepolture vengano traslate. Di fatto, questo ha condizionato la posizione della Chiesa circa le cremazioni, modificandone la posizione. Ammessa solo a partire dal 1963 e sancita dal Catechismo pubblicato nel 1992 «se non mette in questione la fede nella resurrezione dei corpi», la Chiesa cattolica manifesta invece la propria contrarietà all’usanza di spargere le ceneri o di conservarle a casa o in giardino e, più in genere, «in luoghi diversi dal cimitero».
Solo ragioni di soldi e di spazio? I quotidiani ospitano ormai numerose pubblicità sul tema. La “promessa” parla della cremazione come della “possibilità di tornare alla natura”. La So.Crem, che propone questa soluzione, è attiva già da fine Ottocento, epoca segnata dal Positivismo, corrente di pensiero che rifiutava tutte le tendenze astratte, metafisiche, spiritualistiche proprie del Romanticismo e che riteneva che ogni manifestazione della natura e dell’uomo potesse essere spiegata scientificamente.
Cremazione ed ebraismo
Per valutare questa pratica bisogna dunque rifarsi a quale concezione abbia l’ebraismo della vita e della morte. Le due parole in realtà sono molto vicine se si pensa che il cimitero, in ebraico viene definito Bet haChaym, “la casa dei viventi”, proprio come affermazione del credo nella vita eterna delle anime e dei corpi che in tale luogo riposano.
Su Segulat Israel, una rivista sempre stimolante in fatto di pensiero ebraico e curata da Donato Grosser, si trova un interessante disamina del tema da parte di rav Alberto Someck: la salma è dotata di una sua qedushàh, che si esprime nei tre divieti concepiti per proteggerne la dignità: il divieto del niwwùl ha-meth (“sezionamento del cadavere”). I Maestri spiegano che il divieto include qualsiasi prassi che leda l’integrità del corpo (bizzayòn), con particolare riguardo per eventuali mutilazioni; secondariamente, c’è il divieto della hana’àh min ha-mèth (“uso proficuo del cadavere”). Non si può trarre vantaggio dalla salma né approfittarne in alcun modo. Infine, il divieto della halanàth ha-mèth (“pernottamento del cadavere”), per cui la salma dev’essere sepolta il più presto possibile.
Tanti rabbanim italiani, soprattutto verso la fine del secolo scorso, si sono espressi a riguardo. Gli argomenti principali contro questa pratica sono che la cremazione è identificata nella Torà come forma di paganesimo e di idolatria, tale da essere proibita al pari di tutti gli altri casi del genere; dalla Torà impariamo che l’inumazione della salma è una mitzwàh, persino nei confronti dei condannati a morte. In caso di cremazione, dunque, si trascura un precetto affermativo (la sepoltura delle ceneri, naturalmente, non costituisce osservanza del precetto).
La Torà poi proibisce di mutilare o approfittare in qualsiasi modo del cadavere e tanto più di distruggerlo con le nostre mani.
È noto il versetto di Bereshìth (3:19) “poiché polvere sei e alla polvere ritornerai”. Mentre la polvere, cioè la terra, è atta a germogliare, la cenere non lo è, infeconda e sterile. In altri termini la cenere nega quella prospettiva e quella speranza di rifioritura e quindi di continuità oltre la morte, implicita nel ritorno della salma alla terra madre. Solo la mitologica Fenice rinasce dalle proprie ceneri.
Un midràsh narra che Tito, il distruttore di Gerusalemme, si sarebbe fatto cremare al fine di evitare il Giudizio Divino. La cremazione è perciò considerata un deliberato atto di spregio nei confronti della fede nella Giustizia Divina. La cremazione costituisce una procedura contraria agli usi e costumi del popolo ebraico: ciò è documentato fin dall’antichità da fonti ebraiche e non ebraiche. Il profeta Amos, per esempio, condanna i Moabiti perché “avevano bruciato le ossa dei re di Edom con la calce”. Chi la adotta, dunque, commette la trasgressione di “staccarsi dal comportamento usuale della Comunità Ebraica”. Il punto di partenza e di arrivo è netto e ben chiaro: l’uomo è originato dalla polvere ed è nella polvere che deve tornare. Per questa ragione, tra le priorità da considerare quando un gruppo ebraico si stabilisce in una località, vi è l’istituzione di un cimitero dove seppellire i morti della Comunità. Rispetto alle due questioni cui si accennava, spazio e soldi, il famosissimo cimitero di Praga, con i suoi sette strati di tombe sovrapposte, ci rende l’evidenza dell’obbligo di continuare con questa prassi anche se vi sono problemi di spazio. E anche il motivo economico viene confutato dal diktat che è assolutamente giusto fare un dovuto sforzo per garantire una dignitosa sepoltura ai propri cari. Il corpo deve essere seppellito nella sua interezza e integrità, ricordando che non si possono arrecare danni ad esso né modificarlo in maniera definitiva (tatuaggi, piercing o mutilazioni sono vietati dalla Torà). Da qui anche una certa ritrosia per inutili autopsie. Il corpo che conteneva l’anima va restituito al suo Creatore, cui appartiene la Vita. Se un ebreo viene cremato, non può essere sepolto nel cimitero della Comunità. La sepoltura è l’occasione per compiere il commiato finale e sigillare i legami terreni con il defunto ma anche per elogiarne i meriti presso l’Eterno. Successivamente, – ed è una maniera concreta, quasi fisica, per i parenti di mantenere il ricordo del proprio caro-, recandosi in un luogo dedicato alla sua memoria.
Se nell’antichità gli ebrei si distiguevano dai pagani o dai politeisti proprio perché non bruciavano i loro morti sulle pire, dopo la tragedia della Shoah, nella quale milioni di ebrei sono passati per i forni crematori, c’è un motivo simbolico, oltre a quelli religiosi, per essere contrari a questa pratica. Il principio del rispetto per il corpo umano, che gli ebrei mettono in pratica con un preciso stile di vita, stile di alimentazione e di rapporti con gli altri, prosegue e si perpetra anche quando la persona non è più in vita.
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