Surgelati: Quando l’agghiacciante realtà supera la fantasia
Sandro Servi
Il sottotitolo non si riferisce ai prodotti alimentari surgelati di cui gli ebrei della santa comunità di *** sono costretti a cibarsi, dopo la chiusura dell’unico spaccio kashèr cittadino (vedi una cronaca precedente su questo giornale), ma agli ebrei stessi di quella santa comunità, che si ostinano nella frequentazione del loro magnifico bet ha-kenesseth dove in questa stagione si raggiungono temperature polari. Per esempio, durante l’ultimo Shabbàth, le conseguenze della bassa temperatura si fecero via via avvertire con il procedere della tefillà: i primi a risentirne furono i turisti israeliani, che, convinti di essere entrati in un bet ha-kenesseth “normale”, si erano tolti cappotto e giacca, rimanendo in maniche di sabbatica camicia bianca. Ma il clima produsse soprattutto un qualche rallentamento nella capacità fisiologiche degli oranti.
I coraggiosi parnassìm, approfittando di un momento il cui il rav rashì era impegnato nel preparare la sua derashà sul commento della Leibowitch, avevano temerariamente deciso di far salire a sefer rav Korenstìn: all’inizio sembrò al pubblico che la pronuncia delle berakhòth della Torà fosse ancor più askenazita-stretta del solito, ma poi qualcuno si rese conto che l’invitato non era affatto rav Korenstìn, ma un pinguino dei Mari del Sud (peraltro vestito come Korenstìn) inviato in missione presso di noi dalla sua comunità, in forte pericolo di estinzione a causa del buco dell’ozono che riduce il pack antartico. I loro esperti meteorologi avevano individuato la sinagoga della santa comunità di *** come l’area geografica terrestre dal clima più simile ai ghiacci del Polo Sud, e quindi la più adatta per un insediamento di pinguini profughi. L’ospite fu fatto scendere dalla tevà, in modo cortese, ma risoluto, senza “mi-sheberakh” (aveva appena fatto in tempo a fare un’offerta per il “soccorso alpino”)
Nel frattempo, nonostante i noti accorgimenti che gli ebrei della santa comunità hanno imparato a mettere in atto (mutandoni di lana del nonno, dopo-sci acquistati alla svendita di S. Moritz, papalina all’uncinetto extra-large, giaccone eskimo in goretex degli astronauti lunari, e, soprattutto, grandissimo talled in lana merinos, internamente foderato di pelliccia di cane moscovita). Il taverniere Allegria, precauzionalmente prima di venire al Tempio, aveva fatto, a colazione, il pieno di antigelo: un litro di vodka polacca a 86° che lo tenne caldo e di buon umore tutta la mattina! Nonostante questi accorgimenti – dicevo – i primi sintomi di assideramento si fecero sentire. Colpi di tosse rantolante riecheggiavano nell’aula, il chazan Chazzaqìm rimase pietrificato a metà di un gorgheggio cosicché la potente nota baritonale si trasformò in un fischio lancinante. Le donne non riuscivano più a connettere, solo la consigliera Costoso riuscì a tenersi sveglia, non interrompendo per un attimo la conversazione. Anche il gruppetto del coro accusò il colpo: lo si poté infatti udire distintamente mentre intonava una romanza – la scena della Bohème in cui Mimì muore di freddo – al posto del “En-kelokenu”.
Tutto questo, bisogna dirlo, accadeva nonostante il moderno ed efficiente sistema di riscaldamento recentemente installato, che qui vale la pena descrivere e indicare ad esempio. Sulla parte centrale del pavimento è stata stesa una pedana di legno, sotto la quale si trovano, a quanto si dice, delle resistenze elettriche. Un piacevole tepore raggiunge quindi i cinque centimetri di altezza dal suolo, e non si dica che ciò è cosa dappoco: secondo un recente studio condotto dall’Università di Uppsalla (poi pubblicato sulla rivista Zeitschrift fuer Arktische und Antarktische Studien), sarebbe dimostrato un grande beneficio per la suola delle scarpe, ma, sfortunatamente, pare che, per una nota legge fisica, l’irradiazione del calore diminuisca in proporzione al quadrato della distanza dalla fonte del calore stesso. Pertanto, all’altezza del sedere già non si avverte differenza, quando poi si sta in piedi – ma molto dipende dall’altezza della persona – il naso e le orecchie si congelano e rischiano di cadere. Un effetto collaterale è che, dopo l’uscita dal tempio, gli ex-oranti continuano, per un paio di ore, a fare pipì in cubetti, è un po’ fastidioso, ma ci si abitua.
Il mio amico Da Pesaro ha ipotizzato che la decisione di optare per quel tipo di riscaldamento è probabilmente collegata con la grande amicizia che lega il rabbino con l’imam locale: in previsione di una rapida estinzione della comunità ebraica (opportunamente accelerata dalla carestia di cibo kasher e dal freddo) ci sarebbe già un accordo per cedere l’immobile (peraltro, e molto opportunamente, in stile moresco, alla comunità islamica (notoriamente alla ricerca di una nuove sede per la moschea, più volte caldeggiata dal rabbino): dato che gli oranti mussulmani effettuano prostrazioni rituali, trarrebbero enorme beneficio dal calore circoscritto alla zona più vicina al pavimento.
Tornando a sabato scorso, la spiacevole impasse che si era creata, fu interrotta dal fulmineo arrivo, coordinato dal sempre efficiente Mossad, di una squadra di commandos israeliani, della brigata Golani, nella tuta mimetica bianca utilizzate nelle esercitazione sul Monte Hermon. I coraggiosi soldati, trasportati via elicottero, penetrarono nel Tempio attraverso le crepe della cupola e i buchi nelle finestre, e prima che chiunque si rendesse conto di quello che stava succedendo, portarono in salvo, scaricandoli direttamente sulla spiaggia assolata di Eilat, almeno i turisti israeliani ormai catalettici nello loro camicie bianche.
Alla fine tutta la sala era surgelata come in quel vecchio carosello della pizza della regina Margherita – avete presente? – Tutti rimasero fermi al loro posto, ghiacciati nella posizione in cui si trovavano. E così sarebbero rimasti a lungo se, all’ora del termine della tefillà, non fosse giunta, ignara e giuliva, la professoressa Segni Mantova Orvieto, avvolta in una magnifica e caldissima stola di visone che dette l’allarme: arrivò il soccorso alpino (era già in cammino per riscuotere l’offerta a sefer del pinguino polare) con grossi cani Bernardo muniti di fiaschetta di acquavite kashèr (prodotta sotto la hashgachà di uno staff di 14 benemeriti rabbini italiani): un allegro qiddùsh superalcolico rincuorò tutti i presenti. Tutto è bene quel che finisce bene!
Va bene, qualche dettaglio della cronaca è stato un po’ romanzato, ma la sostanza è stata descritta abbastanza fedelmente. E poiché non mi piace fare la parte del critico senza speranza, vorrei ricordare agli amministratori e al pubblico della santa comunità di *** che una alternativa esiste. In comunità c’è una grande sala perennemente riscaldata, che potrebbe fungere per i pochi mesi necessari da beth ha-kenesseth invernale. Qualche anno fa l’esperimento fu provato, ma l’autorità rabbinica avanzò tante e tali (fantasiosissime) obiezioni halakhiche, da far desistere. Ora, se qualcuno è interessato, dopo aver ovviamente consultato il marà de-atrà (l’Autorità rabbinica del posto), può anche andarsi a leggere un responso sull’argomento, pubblicato in un volume di Sheelòth e Teshuvòth (domande e risposte) di un prestigioso Istituto Rabbinico in Israele. Può trovarne il testo su internet, all’indirizzo seguente (e andando poi alle pagine 78-79).
http://www.eretzhemdah.org/data/uploadedfiles/ebooks/36-sfile.pdf
Non posso evitare che il lettore, andando alla pagina, veda svelato anche il nome della santa comunità di ***.