Albert Einstein, Sigmund Freud, Leonard Bernstein, Saul Bellow erano predisposti al genio in quanto ebrei, vittime per secoli di pogrom e discriminazioni? È questa la provocatoria conclusione di uno studio di antropologi dello Utah che hanno messo in relazione l’intelligenza altamente sopra la media degli ebrei ashkenazi alle persecuzioni da questo gruppo subite nel corso dei secoli.
I ricercatori guidati da Henry Harpending hanno dato alle stampe uno delle tesi accademiche più politicamente scorrette dell’ultimo millennio sul Journal of Biosocial Science dell’Università di Cambridge.
Gli antropologi hanno fatto un’equazione tra la «tendenza al genio» degli ashkenazi e la predisposizione di questo gruppo a una serie di malattie genetiche del sistema neurologico come Tay Sachs, Gaucher, Niemann Pick suggerendo che i disordini genetici siano l’«effetto collaterale sfortunato» dei geni che facilitano l’intelligenza.
Harpending e i suoi colleghi sono partiti osservando che gli ebrei-americani di discendenza europea hanno vinto il 27% dei Nobel pur rappresentando appena il 3% della popolazione Usa nell’ultimo secolo.
Ebrei sono anche più della metà dei campioni di scacchi del mondo. L’antropologo ha messo in rapporto questa capacità intellettuale inconsueta (12-15 punti in più rispetto alla media europea) con le malattie genetiche più diffuse nel gruppo che, pur essendo nella stragrande maggioranza dei casi fatali, hanno come «effetto collaterale benefico» la crescita e interconnessione delle cellule cerebrali.
Lo studio è stato accolto con perplessità, timori e interesse. Studiosi ebrei negli Usa e in Israele hanno messo in guardia dalla recrudescenza di antisemitismo evocando gli stereotipi con cui i nazisti giustificarono l’Olocausto,
ma altri hanno colto nella ricerca di Harpending un punto di partenza per la cura delle malattie al centro dell’indagine: «Quando studi la genetica per salvare vite umane è sempre importante», ha osservato James Young dell’Università del Massachusetts a Amherst e l’autore di un saggio sull’Olocausto.
Il rapporto tra intelligenza e malattie ha portato Harpending e i suoi collaboratori a una riflessione sullo stato sociale degli ebrei a partire dal Medioevo: mille anni di persecuzioni e restrizioni di mestieri hanno precluso agli ashkenazi l’accesso a attività tradizionali come l’agricoltura spingendoli invece in terreni come la finanza e il commercio, che richiedono agilità mentale ma erano disprezzati o addirittura proibiti alle popolazioni cristiane. Il successo in questi campi portò a ricchezza, cibo, case, famiglie. Ricchezza garantiva sopravvivenza e chi sopravviveva abbastanza a lungo da lasciare più prole (a cui trasmettere anche l’eredità genetica) erano sempre più frequentemente quelli con la tendenza al genio.
Sotto questa formula di selezione naturale, suggeriscono gli antropologi dello Utah, i tratti genetici relativi all’intelligenza divennero prevalenti tra gli ebrei dell’Europa centrale e settentrionale.
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L’errore vaticano
Antonio Socci
Decisamente la Segreteria di Stato vaticana ha sbagliato: oltre a Egitto, Turchia, Irak e Regno Unito doveva citare anche Israele fra i Paesi colpiti in questi giorni dal terrorismo. Non solo perché l’attentato a Netanya del 12 luglio ha ucciso 5 israeliani. Ma anche perché Israele è di gran lunga il Paese più devastato dal terrorismo: 25mila attentati dal settembre del 2000 ad oggi. Una enormità. E – volenti o nolenti – gli ebrei e i cristiani sono accomunati, come bersagli, dall’ideologia dell’odio islamista.
Non so se quella della Segreteria di Stato sia stata una distrazione o se sia scattato un riflesso pavloviano della diplomazia che – per non irritare gli arabi musulmani – tende a separare (sbagliando enormemente) il terrorismo antiisraeliano da quello che colpisce gli altri Paesi. In entrambi i casi è grave, anche perché la motivata protesta del governo di Gerusalemme ha finito per lambire l’incolpevole Benedetto XVI che non ha alcuna responsabilità in quell’elenco incompleto.
Ratzinger è stato l’anima del riavvicinamento tra Chiesa ed ebraismo negli anni di Giovanni Paolo II.
Avendo visto con i suoi occhi il demone del nazismo (fu investito personalmente dall’orrore a 14 anni quando vide portar via un cuginetto, suo coetaneo, dalle autorità del III Reich che lo ammazzarono perché handicappato), ha meditato come nessun altro teologo cattolico sulla natura satanica del nazismo e sul mistero di Israele vittima dello sterminio. È lui che nel 2001 ha fatto pubblicare dalla Pontificia Commissione biblica lo splendido documento Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.
La Chiesa in questi decenni ha spalancato le braccia e il cuore al popolo ebraico. Ha condannato ogni antisemitismo, ha fatto solenni e drammatici «mea culpa» per le intolleranze del passato, ha spazzato via l’eresia dell’imputazione di «deicidio», ha riconfermato teologicamente la perenne elezione di Israele, ha attinto alla ricchissima storia di Israele per comprendere le radici del cristianesimo. Ma forse questo dialogo teologico e umano fra cattolici ed ebrei è andato avanti per suo conto,
ignorando il fatto storico clamoroso che è accaduto in questi decenni: la rinascita di Israele come Stato. Di Israele si è occupata da sempre la Segreteria di Stato vaticana che si occupa dei rapporti con tutti gli Stati e l’ha fatto secondo le normali leggi della politica e della diplomazia. È comprensibile, perché Israele è comunque uno Stato come tutti gli altri. Tuttavia la ricostituzione di Israele 2000 anni dopo la distruzione di Gerusalemme, del Tempio e la diaspora è un evento di enorme importanza teologica sia per i cristiani che per gli ebrei e stupisce che una seria riflessione teologica non sia ancora stata avviata.
Curiosamente neanche gli stessi israeliani l’hanno fatta perché il movimento sionista di Theodor Herzl nacque laico e perché per anni l’ebraismo osservante ha contestato lo Stato di Israele in nome delle sue convinzioni messianiche. Solo di recente è cominciata una «legittimazione teologica». Dunque ebrei e cristiani si trovano insieme di fronte a uno straordinario mistero tuttora da chiarire. C’è da chiedersi se la nostra generazione non ha assistito all’avverarsi di una vera (millenaria) profezia.
Vi sono infatti innumerevoli passi nei libri dei profeti biblici che sembrano descrivere per filo e per segno ciò che è accaduto sotto i nostri occhi dal 1948, anno di nascita dello Stato di Israele.
È noto che per cristiani ed ebrei (perfino per gli islamici) i profeti di Israele sono stati ispirati da Dio e hanno predetto gli eventi futuri. Sono innumerevoli e importanti innanzitutto le profezie messianiche che da sempre la Chiesa vede compiersi in Gesù. Ma ve ne sono molte altre riguardanti Israele.
Ne ha fatto una breve rassegna Marco Quarantini nel pamphlet Israele tra profezia e storia. Isaia annuncia: «Avverrà in quel giorno che il Signore rimetterà mano una seconda volta a riconquistare il rimanente del suo popolo che sarà scampato dagli Assiri e dall’Egitto, da Patros, da Cush, da Elam, da Shinear, da Hamat e dalle isole del mare (i Paesi di Occidente, ndr)… Riunirà i profughi di Israele e raccoglierà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra» (11, 11-12).
Così vari suoi passi e altri profeti (Michea, Ezechiele, Geremia, Amos Zaccaria, Baruch, Osea). Si ha un bel dire che potrebbero riferirsi a un precedente esilio. L’evento descritto – dove Dio riconduce i figli di Israele «da Oriente e da Occidente» – coincide fin nei dettagli con la fine dei duemila anni di diaspora. E con la rinascita di Israele: «Renderò il deserto una laguna e la terra arida una fonte. Donerò al deserto i cedri, le acacie, i mirti e l’ulivo… perché la gente veda e sappia e consideri e comprendano tutti che la mano del Signore ha fatto ciò» (Isaia 41,
18-20). Un altro profeta dice: «Quella terra devastata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà ricoltivata».
C’è perfino la descrizione di tutte le umiliazioni subite negli anni della diaspora («non ti farò più udire gli insulti delle nazioni e non ti farò più soffrire lo scherno dei popoli», Ez. 36, 13-15) e forse della tragedia immane della shoah («Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada, Israele si avvia a una quieta dimora», Ger. 31, 2-5). C’è un passo di Osea che proclama:
«Per lunghi anni staranno i figli di Israele senza Re e senza un capo, senza sacrificio e senza altare, senza efod e senza terafim. Poi torneranno i figli di Israele e cercheranno il Signore loro Dio e David loro Re e trepidi correranno al Signore e ai suoi beni alla fine dei giorni» (3,4). Zaccaria addirittura annuncia ciò che si avvererà nel 1966: «Li ricondurrò ad abitare dentro Gerusalemme» (8,7). Certo alcune di queste profezie vengono interpretate spiritualmente dai cristiani, ma proprio nel documento sopra citato,
voluto da Ratzinger, dove si ammoniscono i cristiani a non impadronirsi della Bibbia ebraica rendendola estranea all’ebraismo, si proclama: «I cristiani possono e devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le Sacre Scritture ebraiche… ed è analoga alla lettura cristiana che si è sviluppata parallelamente ad essa».
Oltretutto c’è una profezia di Gesù stesso che piangerà per la sorte di Gerusalemme e che predicendo la distruzione del Tempio (avvenuta 40 anni dopo,
nel 70 d.C. ad opera dei romani che deportarono ferocemente gli ebrei) disse: «Non rimarrà pietra su pietra… vi sarà una grande calamità nel paese e odio contro questo popolo. Periranno di spada e saranno condotti prigionieri tra tutte le nazioni e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani, finché i tempi dei pagani siano compiuti» (Lc 21, 6-24).
È dunque la nostra generazione che ha visto finire «il tempo dei pagani» come predetto da Gesù? Il 13 ottobre del 1966 sull’Osservatore Romano uscì un articolo,
intitolato «Storia in atto», dove si leggeva: «Si ha un bel dire che il senso (delle profezie, ndr) è trasposto sul piano spirituale. Ora Israele è ritornato nella sua terra… Credo che noi cristiani non ci siamo ancora resi minimamente conto dell’importanza sconvolgente di questo avvenimento».
Poi l’autore citava una profezia di Ezechiele («Io visiterò le mie pecorelle… e le trarrò di mezzo ai popoli e le radunerò dalle varie regioni e le condurrò nella loro terra e le pascerò sui monti di Israele») e commentava pieno di meraviglia:
«Questa pagina si è messa in movimento! Bisogna rendersene conto».
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