Continua la saga dell’autore romano ambientata nella Roma papalina.
Mario Pacifici
Roma 1778. Combinare un matrimonio non è poi difficile, diceva spesso Shoshanna, nel presentarsi a qualche genitore in pena. Se la ragazza è giovane e bella, se la dote è consistente e se il pretendente è un lavoratore, timorato di Dio, possono riuscirci perfino quattro comari. I miei servizi sono preziosi invece quando le cose si fanno complicate. Quando perfino la merce più pregiata diventa difficile da collocare sul mercato.
Volete qualche esempio, chiedeva? Ce n’è una gamma infinita! L’età di uno dei due. La mancanza di una congrua dote. Qualche difetto, da una parte o dall’altra. O magari, has ve shalom, qualche diceria più o meno motivata sulle virtù della sposa. Allora si che serve una vera sensale per combinare uno shidduch. Una che sappia mettere in evidenza i pregi del prodotto e trovare un compratore capace di apprezzarli. Una come me per intenderci. Una che ha portato sotto la kuppah gente come Moshè Testavota. O Giuditta la Shofetessa. O Giacobbe Flatulenza.
Ah…! Ce ne sono in giro di sensali, esclamava sprezzante, ma nessuno è come Shoshanna! Io posso trovare un principe per la vostra bambina. Un uomo che la riverisca come una regina e vi riempia la casa di marmocchi. E mentre le mamme si scioglievano nel sogno, aggiungeva quieta: e voi non mi dovrete nulla per tutto questo. Nulla fino al momento in cui non risuonerà il meccudeshet sotto i lembi della kuppah.
Amen, amen amen, esclamavano invariabilmente le madri, ed il prezzo del suo ingaggio diveniva una formalità.
Le cose non erano andate diversamente con i Sermoneta.
Quei due erano preoccupati per la figlia grande, e ne avevano tutte le ragioni. Se a ventiquattro anni l’avevano ancora in casa, qualche problema doveva pur esserci.
Debora era una bella ragazza, ma questo non voleva dire nulla. Quante ne aveva viste di belle creature ammuffire in casa senza trovar marito? E in questo caso la dote non c’entrava, si diceva Shoshanna, dal momento che i Sermoneta erano disposti a svenarsi pur di sistemare la figlia.
Eppure…
Decise di prendere qualche informazione.
La mattina dopo di buonora si presentò al forno in via della Rua e nell’acquistare il pane buttò li qualche parola, qualche nome, qualche congettura. Poi si limitò ad ascoltare, giusto rinfocolando le chiacchiere, quando l’interesse delle altre donne sembrava venir meno.
Quando uscì dalla bottega sapeva tutto ciò che le occorreva.
Il carattere.
Debora aveva respinto quattro pretendenti, quando ormai lo shidduch sembrava fatto. Inspiegabilmente. Senza una plausibile ragione. Ma lei era così. Bizzarra e intemperante. Come tutti i Sermoneta, a quanto si diceva.
Da ragazzina si era messa in testa di studiare il Talmud. Se lo studiava suo fratello, perché a lei doveva essere negato? I rabbini interpellati avevano sentenziato che studiarlo non è proibito alle ragazze. Non insieme ai maschi, però, che non si metta la paglia accanto al fuoco!
E con chi allora…?
Per protesta aveva smesso di farsi vedere al beit ha keneset perfino nei moadim, perfino di Rosh ha Shana e Kippur.
Con la gente poi era scontrosa e irascibile, tanto che di amiche, a quel che si diceva, non ne aveva quasi.
Voglia di lavorare poca. Preferiva passare il tempo a leggere tutto ciò che le capitava fra le mani, piuttosto che dare una mano in bottega o consumarsi gli occhi su ricami e rammendi. Pretese molte. E quei quattro shidduchim andati per aria stavano lì a dimostrarlo.
Mentre tornava a casa Shoshanna ragionava fra sé e sé. Per sistemare una ragazza come questa, ci vuole qualcuno che trovi graziose le sue intemperanze. Che non badi alle sue scarse virtù domestiche. Che non pretenda di mantenere delle relazioni sociali cordiali con la gente che gli vive intorno. Che le dia tanta libertà quanta lei ne chiede, facendosi beffe delle chiacchiere della gente…
Ma dove lo trovo uno così?
Eppure…
Oh Kadosh Baruchu, non è possibile!
Ma più ci pensava, più si persuadeva che quella era l’unica possibile soluzione. Di certo per lei, ma forse anche per lui. In fondo non era più un ragazzino. E poi anche lui era scorbutico e arrogante. Era stato capace di inimicarsi tutto il ghetto e di litigare con tutti i rabbini. Era incurante delle convenzioni, e guardava alla vita da un’angolatura tutta sua.
Si, si disse, è il sofer l’uomo giusto per lei! E dal momento che non era tipo da starci a pensare sopra, si avviò col suo passo battagliero verso via della Fiumara.
Daniel il Matto era al suo solito posto, seduto al suo scranno di fronte alla bottega, intento a vergare le sue pergamene.
“Che ci fai qui Shoshanna?” le chiese, alzando appena gli occhi dal suo banco.
“Cosa vuoi che ci faccia? Lavoro. Come sempre. Tu prepari le chetubot, io faccio in modo che qualcuno te le venga a chiedere. Dovresti essermi riconoscente.”
Daniel si mise a ridere, mentre lei cercava uno sgabello su cui sedere.
Le gambe le facevano male. Troppo grassa, troppo vecchia si disse, come sempre quando si sentiva stanca. Se non rallento un po’ ci penserà Kadosh Baruchu a fermarmi, una volta per tutte. Che aspetti però. Abbia pazienza almeno fino a quando avrò sistemato la giovane Debora, che se non la sistemo io… Si portò le dita alle labbra e agli occhi, suggellando con quel rituale il suo piccolo negoziato di proroga col Padreterno.
“Non ti sedere Shoshanna. Qui non hai niente da fare. Io non ci penso nemmeno a prendere moglie.”
“Nessuno ci pensa, ma tutti si sposano, prima o poi. Tu non sei diverso. Deve solo capitarti l’occasione giusta…”
Daniel posò lo stilo sul banco.
“E tu sei qui per offrirmela quell’occasione. Beh, sappilo subito, la risposta è no. Non sono arrivato a quarant’anni per…”
“Non sei arrivato a quarant’anni per comportarti come uno stupido testardo. Ti costa qualcosa starmi ad ascoltare…? Non sai nemmeno chi sia la creatura di cui ti voglio parlare e già dici no, io non la sposo! Aspetta! Nessuno ti obbligherà a fare nulla se non lo vorrai fare. Però credimi: quando l’avrai vista, quando l’avrai conosciuta, sarai tu ad implorarmi di combinare lo shidduch.”
Daniel il Matto scosse la testa divertito.
“Sei un’artista Shoshanna. Se tu fossi più giovane, sposerei te, non qualcuna delle tue stupide ragazzine.”
“Ah, non mettere il dito nella piaga. Quello è stato il mio unico fallimento. Ho trovato marito a non so più quante ragazze, ma non l’ho trovato per me. E’ stata la mia dannazione. Non voglio che capiti anche a te di ritrovarti vecchio senza nessuno al fianco.”
Daniel si asciugò le mani in uno straccio e abbandonata la pergamena si volse verso di lei.
“Avanti, parlami di lei.”
Shoshanna socchiuse gli occhi ed agitò una mano, come persa in una visione.
“Ah, la dovresti vedere… Un angelo del paradiso. Bella da perdere la testa.”
“Però…?”
“Niente però! E’ una vera bellezza. Un incanto di ragazza.”
“Se la proponi a me piuttosto che a uno di quei buoni partiti che fanno sognare tutte le mamme del ghetto, qualche però ci sarà pure…! Avanti: quanti anni ha?”
“Ventiquattro e allora? Tu ne hai quaranta. Cosa dovrei fare…? Metterti nel letto una ragazzina?”
“E cosa ha fatto fino ad oggi questa meravigliosa creatura?”
“Che ti importa cosa ha fatto? Tu devi pensare solo a quello che farà da oggi in avanti, e questo dipenderà dal marito che sarai. Come dice il Talmud, trattala come una regina e sarai un re dentro la tua casa.”
Daniel il matto sospirò poco convinto.
“Immagino che sappia cucinare… e ricamare… Come tutte le ragazze del ghetto.”
“Ah! E’ questo che tu cerchi in una moglie…? Che sappia cucinare, come tutte le donnette del ghetto? Lei legge. Lei parla. Lei discute. Ha studiato il Talmud, sai? Lei sa fare tutto ciò che deve fare una moglie, ma ha qualcosa che le altre non hanno: lei ha la testa e la sa usare. Credimi Daniel, lei è la scarpa per il tuo piede.”
Daniel si alzò e fece qualche passo, avanti e indietro, grattandosi la testa.
L’idea di prender moglie se l’era sempre buttata alle spalle, per non dover rendere conto a nessuno della sua vita trasandata. Ma gli anni passano e le prospettive cambiano. Sempre più spesso si sorprendeva a desiderare un figlio e per averlo doveva pur rassegnarsi a un matrimonio.
“Va bene” disse alla fine “portamela qui.”
Shoshanna balzò in piedi, sgranando gli occhi.
“Sei pazzo?”
“Se non vedo, io non compro” disse lui deciso “portala qui, le farò un ritratto e alla fine ti dirò se la cosa si può fare.”
Shoshanna tornò dai Sermoneta e finalmente conobbe davvero la giovane Debora.
“Io non vado a farmi esaminare da questo bifolco maleducato. Mi ha preso forse per una puledra? Ha quarant’anni e fa ancora lo schizzinoso, questo stupido vecchio! E poi guarda, se si comincia così, figuriamoci dopo… No! Assolutamente no! Digli che sono io che non ne voglio sapere di lui.”
Ci vollero la pazienza della madre e l’arte di Shoshanna per raddrizzare una situazione che sembrava già compromessa.
Un paio di giorni più tardi, comunque, le tre donne si presentarono alla bottega di Daniel il Matto.
Il sofer non disse una parola. Dette un occhiata alla posizione del sole e sistemò uno sgabello in piena luce.
“Siediti,” disse a Debora, “e guarda in quella direzione.”
Quando la ragazza si fu accomodata, lui le girò intorno, scrutandola da ogni angolatura. Poi tornò al suo banco, stese un foglio di carta e cominciò a disegnare, dapprima lentamente, poi con sempre maggiore trasporto, fino a perdersi nel suo impeto creativo.
Dopo mezzora all’improvviso si quietò, posò il carboncino e si allontanò dal disegno.
“Bello,” disse, sollevandolo verso la luce del sole.
Debora sorrise. Non si erano scambiati una parola e questo le era piaciuto. Quanto meno non era un tipo invadente. E poi era un bell’uomo, non lo si poteva negare.
“Posso vederlo?”
“La prossima volta.” disse lui, coprendo il disegno. “Questo è solo uno schizzo, voglio prima farne un dipinto.”
Shoshanna tornò alla bottega più tardi.
“Allora?”
“E’ molto bella. Avevi ragione.”
“Che ti avevo detto? E’ una creatura speciale… E tu ancora non la conosci!”
“Ti sbagli. La conosco. Quando ritraggo qualcuno, io penetro nella sua essenza più intima… Beh, quello che ho visto… Non lo so, non credo che sia lei la donna che mi è destinata.”
“Non dire sciocchezze! Non hai visto come ti guardava? Lei è già innamorata, Daniel! Shemagn Israel, cosa potresti desiderare di più? Bella, intelligente, innamorata… E la dote poi! Non ti ho ancora parlato della dote…”
Shoshanna tornò a casa fiduciosa.
Daniel aveva preso tempo ma era evidentemente intrigato da Debora. Solo quella malaugurata sensazione… Una sensazione che non era nemmeno capace di spiegare.
A motzè shabat aveva detto. Vieni a motzé shabat e ti darò una risposta.
Che rifletta, aveva pensato Shoshanna. Ha quarant’anni. Non gli capiterà ancora un’occasione come questa.
All’uscita delle tre stelle comunque non si dette tempo e si presentò puntuale alla porta del sofer.
“Voglio vederla ancora” disse lui.
“Sei pazzo? Ho già fatto un miracolo a portartela qui! E poi non puoi offenderla con i tuoi dubbi. Lei ti si è offerta con l’entusiasmo della giovinezza: ora ha diritto ad una risposta ponderata.”
Discussero a lungo e alla fine Shoshanna trovò la soluzione.
“Verrai a casa loro. Diranno di volerti commissionare la stesura di una beracha o qualcosa del genere. Tutta la famiglia ti accoglierà in casa e tu avrai modo di osservare ancora una volta Debora. A quel punto però, dovrai prendere una decisione. Subito. E dovrai comportarti con discrezione. Non voglio che la ragazza si senta umiliata, qualunque sia la conclusione.”
La cosa fu organizzata in fretta e due giorni più tardi Daniel il Matto si presentò con Shoshanna in casa dei Sermoneta.
“Non dimenticare” gli ripeté lei prima di entrare, “Debora a un certo punto lascerà cadere un fazzoletto. Tu lo raccoglierai e glie lo restituirai. Questo vorrà dire che la vuoi, e lo shidduch sarà compiuto. Se invece sarai così pazzo da rifiutarla, beh allora il fazzoletto lo lascerai in terra e te ne andrai alla svelta.”
Tutta la famiglia li accolse sulla porta, colmandoli di attenzioni.
Daniel srotolò sul tavolo le sue pergamene decorate e prese a mostrarle ad una ad una.
Il momento della decisione si avvicinava ma lui non si era fatto ancora una convinzione.
Osservava Debora, ma per quanto intrigato dalla sua bellezza non riusciva a vincere quella sensazione di estraneità che lo aveva colto nel ritrarla.
Lei dal canto suo stringeva in mano il fazzoletto e rimaneva discosta senza unirsi alle esclamazioni di stupefatta ammirazione che accompagnavano ognuno dei suoi lavori.
Il tempo stringeva, doveva decidere.
Ed ecco il fazzoletto che cade.
Lui rimase a lungo immobile, incapace di prendere partito.
Perché no si disse alla fine, chinandosi a raccoglierlo. Cos’altro potrei desiderare? Non posso lasciarmi guidare da una sensazione. Perché dovrei rinunciare a lei?
Non aveva finito di chiederselo e già gli giungeva la risposta.
“Ce l’hai fatta alla fine! Mi hai rivoltata come un guanto e ancora non ti sapevi decidere! Cosa volevi fare? Scappare? Umiliarmi? Lasciarmi qui con quel maledetto fazzoletto in terra? Buon per te che non l’hai fatto, perché ti avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani.”
Nella stanza cadde il silenzio.
Daniel il Matto, con il fazzoletto in mano, la fissava incredulo.
Ora sapeva cosa lo aveva turbato. Ora sapeva cosa aveva colto nel ritrarla.
Finalmente deciso, si volse verso la madre per prendere congedo con un minimo di buone maniere.
La donna era impietrita, paralizzata sulla sedia. Con lo sguardo implorava Shoshanna, sperando con tutto il cuore che un qualche miracolo intervenisse ad evitare la catastrofe.
Non poteva immaginare che ciò che l’attendeva sarebbe stato peggiore dei suoi peggiori timori.
Daniel si stava voltando per andarsene, quando il suo sguardo incrociò quello della sorella minore.
Un attimo e i loro destini furono segnati. Un sorriso e il fazzoletto fu nelle mani della figlia sbagliata.
Lo sguardo che ne seguì suggellò fra i due un patto che nessuno avrebbe più potuto infrangere.
Ora Debora gli inveiva contro. Tutti gridavano e Daniel si affrettò ad uscire, avviandosi rapidamente giù per le scale.
Dietro di lui sentì passi leggeri e svelti.
“Io mi chiamo Rachele!”
Lui si arrestò girandosi a guardarla.
Lei si teneva al mancorrente della scala e gli sorrideva.
“Rachele” ripeté lui.
Era felice come non ricordava di essere mai stato.
Sollevò la mano in un gesto di saluto e riprese a scendere le scale.
Non era stato capace di dirle nulla ma gli parve che fra loro si fosse detto tutto quello che c’era da dire.
Shoshanna si presentò da lui il giorno dopo.
Era furiosa.
“Sono vecchia, Daniel, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista! Hai superato te stesso. Hai offeso Debora e questo te lo potrei forse perdonare. Quello che non potrò mai perdonarti è di esserti fatto beffe di me. Della mia buonafede. Io ti offro una straordinaria opportunità e tu cosa fai? Infanghi la casa di cui io ti ho aperto le porte.”
“Avevi detto che era la scarpa per il mio piede! Beh, non lo era. Lo hai visto anche tu.”
“E allora? Potevi uscire di scena con discrezione! Ma tu no! Tu non hai ancora finito di rifiutare quella povera figlia e già ti metti ad insidiare sua sorella!”
“Io non la insidio! Io la voglio. E la voglio sotto la kuppah.”
“La vuoi sposare! E tu pensi che i Sermoneta prenderebbero di nuovo in considerazione uno come te? Tu sei pazzo e io sono più pazza di te! Illudermi di poterti mettere la testa a posto! Pazza, pazza, pazza!”
“Io la voglio!”
“Beh, dimenticatela! Sarebbe una specie di incesto. Rifiutare una donna e prenderne la sorella. Non troveresti un rabbino disposto a sposarti!”
“A quelli ci penso io. E comunque Iaakov avinu, ha preso anche Rachele sebbene gli fosse stata destinata Leha. Perché non io? Voglio anch’io la mia Rachele.”
Shoshanna lo avrebbe volentieri strozzato ma quarant’anni di shidduchim le avevano insegnato ad usare la testa.
Invece di lasciarsi prendere dalla furia ragionò e lo fece in fretta.
Una cosa era certa. Dopo una scena come quella occorsa in casa dei Sermoneta nessuna famiglia del ghetto avrebbe più messo nelle sue mani il destino di una figlia. Le sembrava di sentirle le maldicenze. Poveretta è invecchiata anche lei. Cosa si può pretendere da una che regge l’anima con i denti? Sputò in terra, facendo gli scongiuri. C’era un solo modo di uscire da quella situazione. Combinare uno shidduch da far parlare tutto il ghetto. E quale migliore occasione di questa? Se alla fine avesse portato Daniel il Matto sotto la kuppah, chi si sarebbe curato di quale fosse la sorella prescelta?
“Dunque la vuoi! Beh, sai cosa ti dico? E’ affare tuo! Grazie a te, io non ho più un ingaggio.”
“Certo che lo hai un ingaggio. Da oggi lavori per me.”
Non ci furono discussioni sul prezzo e Shoshanna strappò il doppio di quanto avrebbero pagato i Sermoneta.
C’era un solo problema adesso. Rimettere insieme i cocci della situazione.
Ci volle tutta la sua abilità ma una settimana dopo poté finalmente tornare da Daniel il Matto con una proposta.
“L’hai avuta vinta, amico mio. I Sermoneta sono disposti a parlarti di nuovo ma…”
“Ma…?”
“Ma non ho potuto negoziare. Dopo quello che è successo avevano loro il coltello dalla parte del manico.”
“E allora…?”
“E allora vogliono che sia chiaro che si piegano alla tua proposta solo per amore della piccola Rachele. Lei ha fatto la pazza per convincerli.”
Daniel sorrise.
“Me ne farò una ragione.”
“Inoltre sulla dote non transigono. Metteranno sul tavolo solo una cifra simbolica.”
“Voglio Rachele, non i loro soldi. C’è altro?”
“Oh si. Ancora una sciocchezza. Debora vuole indietro il suo ritratto.”
Daniel si irrigidì.
“Questo no! Non lo accetto. E’ del tutto escluso.”
Shoshanna cercò uno sgabello e ci si lasciò cadere sopra massaggiandosi le caviglie.
“Non ti rispondo nemmeno. Fino a ieri mi imploravi di aiutarti e oggi fai il presuntuoso per uno stupido quadro. Che te ne devi fare di quella tela? Ne farai altri cento di ritratti, ogni volta che vorrai. E dipingerai Rachele non Debora.”
“Tu non capisci. Quando io ritraggo una persona, non mi limito a disegnare. Io entro nella sua anima. Beh, quel quadro ha in sé un’intimità che io non voglio svelare.”
“Sai che ti dico Daniel? Tieniti il quadro e dimentica Rachele. Ho fatto il diavolo a quattro per convincere la famiglia e alla fine Debora ha giurato che se non le avessi restituito il suo ritratto avrebbe mandato a monte le nozze. A costo di buttarsi dal ponte, ha detto. Ti garantisco che è capace di farlo!”
Daniel si passò le mani fra i capelli.
“Va bene” disse alla fine “ma solo dopo le nozze.”
Shoshanna si fece garante dell’accordo e le nozze ebbero luogo fra le chiacchiere pettegole di tutto il ghetto.
Rachele non era meno bisbetica della sorella ma il suo carattere si compenetrava inspiegabilmente con quello non facile di Daniel il Matto, dando vita ad un affiatamento che nessuno avrebbe creduto possibile.
Alla prima delle sheva berahot, organizzata in casa della sposa, furono invitati tutti i parenti. Dopo l’esposizione del corredo i Sermoneta si accingevano ora ad esibire come un trofeo la pittura di Daniel il Matto.
Shoshanna arrivò con studiato ritardo trascinando su per le scale il dipinto, ancora avvolta nell’involucro con cui era uscito dalla bottega del sofer. E ad aprirlo fu chiamata Debora che, pur non nascondendo la sua accidia nei confronti del cognato e della sorella, considerava quel dono preteso ed estorto, alla stregua di un personale trionfo.
Fra i gridolini di attesa di tutti i presenti, lei tagliò i legacci ed estrasse il dipinto dai teli che l’avvolgevano.
In un attimo ci fu solo silenzio.
Lei fissava il ritratto con una espressione stupefatta, incapace di profferire parola. Daniel l’aveva ritratta con il volto stravolto dall’ira, nell’atto di lanciare un grido rabbioso. Le ciocche dei capelli erano vipere e si agitavano in un parossismo di minacciosa violenza. Debora era nel dipinto la mitica Medusa e nel suo sguardo aleggiava la maledizione di Minerva: chi l’avesse fissato si sarebbe trasformato in una statua di pietra.
Mai prima di allora quel tragico sortilegio aveva sortito un simile effetto.
Davanti al quadro di Daniel il Matto erano rimasti davvero tutti impietriti.
Già pubblicato su Pagine Ebraiche
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