Stefano Salis
«Chi possiede Kafka?» si chiede in uno splendido saggio, apparso in uno degli ultimi numeri della «London Review of Books» la scrittrice Judith Butler (lo trovate a questo indirizzo, correte a leggerlo: http://www.lrb.co.uk/v33/n05/judith-butler/who-owns-kafka). Oltre a essere un esaustivo riassunto della questione che riguarda lo scrittore praghese, ha il pregio, raro, di porre delle questioni di natura filosofica che travalicano ampiamente la singola vicenda per aprire squarci notevoli sugli scopi, l’utilità, i destini della letteratura.
Ma è anche una questione di soldi, non siamo troppo poetici. Dunque, che è successo? Come è universalmente noto, Kafka lasciò i suoi scritti inediti (lettere, prime bozze dei romanzi, romanzi e così via) al fraterno amico Max Brod, sotto la raccomandazione che egli doveva subito distruggerli. L’amico non se la sentì di eseguire la volontà di Kafka (per fortuna!) e procedette alla pubblicazione di alcune opere. Nel 1939 (Kafka era morto nel 1924), Brod, per sfuggire ai nazisti, ripara a Tel Aviv. A sua volta Brod, nel suo testamento, lascia tutte le «carte Kafka» alla Biblioteca Nazionale Israeliana di Tel Aviv. Brod muore nel 1968 (intanto alcune carte kafkiane, prima della sua scomparsa, sono però passate alla Bodleian di Oxford, tra queste il manoscritto della Metamorfosi, il celeberrimo racconto che sarà allegato al Domenicale del 19 giugno) con questa volontà. Eppure il suo patrimonio e il suo archivio (comprendente anche le carte dell’amico Kafka) ora è gestito dalla sua segretaria, e amante, Esther Hoffe che muore all’età di 101 anni nel 2007, e, da lei, passa alle sue due figlie, le oggi settantenni Ruth ed Eva, che hanno intrapreso un’aspra battaglia legale contro lo Stato di Israele sulla proprietà delle carte.
Va rilevato che già qualche anno fa, nel 1998, la Hoffe vendette all’asta a New York, spuntando la favolosa somma di 2 milioni di dollari, il manoscritto del Processo di Kafka, espunto con ogni evidenza dall’archivio di Brod per trarne lucro. Dunque con Kafka c’era da fare i soldi. Il manoscritto finì in buone mani, tutto sommato, al Museo della letteratura tedesca di Marbach. Eppure, già qualche giorno dopo la notizia della vendita del manoscritto, uno stizzito Philip Roth scrisse una tremenda lettera al «New York Times» rivendicando che, sebbene avesse scritto in tedesco, tutto poteva essere Kafka tranne che un autore tedesco. Era un autore della letteratura ebraica. Ed eccoci al nodo che ancora oggi tiene in scacco fior di avvocati in un processo che, davvero, si può a buon diritto ritenere kafkiano a tutti gli effetti. Infatti la Biblioteca Nazionale di Tel Aviv dichiara che le opere di Kafka sono un «asset» del popolo ebraico (già: di chi è la letteratura? Dell’autore? Della lingua in cui è scritta? Del popolo che rappresenta? E Israele – scrive la Butler – rappresenta il popolo ebraico?) e ne rivendica la proprietà, con questa motivazione e con quella, più concreta, che ne sarebbe stata defraudata dal comportamento delle Hoffe. Negli anni passati Tel Aviv aveva anche richiesto il ritorno da Marbach del Processo.
Ma quello ancora in corso riguarda ancora decine di bauli (dislocati tra Tel Aviv e una banca di Zurigo) nei quali si trovano altri manoscritti, lettere, scartafacci e forse un inedito romanzo. Il processo è tutt’altro che vicino alla soluzione. Non possiamo che dolercene e tifare per una composizione, in qualche modo, “pubblica” della vicenda, anche perché Kafka ci appartiene. Proprio a noi. Non in quanto tedeschi o ebrei o cechi. No. È un nostro patrimonio comune, di amanti della letteratura, di lettori. Di esseri umani, direi.
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-06-12/processo-kafkiano-carte-franz-082229.shtml?uuid=AafhCCfD