Perché non ricordare che molte delle vittime della strage del 1911 a New York erano ebree?
Sandro Servi
Il 25 marzo di cento anni fa (1911) ebbe luogo in un edificio all’angolo di Washington Square a New York, dove all’ottavo nono e decimo piano aveva sede la Triangle Waist Company (una fabbrica di confezioni che impiegava circa 500 operai) uno spaventoso incendio. Si trattò del disastro industriale con il maggior numero di morti nella storia della città. Centoquarantasei furono le vittime, alcune decedute perché precipitate dalle finestre nel tentativo di sottrarsi alle fiamme, altre bruciate vive o soffocate dai fumi.
Lo shock nella città fu enorme, fu intentato un processo penale contro i proprietari della fabbrica per le condizioni di lavoro esistenti (le porte di uscita erano chiuse a chiave) ma i datori di lavoro furono mandati assolti, anche se in un successivo processo civile furono condannati a risarcire ogni vittima con 75 dollari. Il tragico evento provocò una revisione delle norme anti-incendio e stimolò una presa di coscienza che ebbe un forte impatto sul piano delle conquiste sindacali.
Di questo luttuoso episodio si è scritto sui giornali anche in Italia in occasione della giornata della donna dell’otto marzo, perché la maggioranza delle vittime erano giovani donne e la ricorrenza è da lungo tempo associata appunto alle rivendicazioni femminili. Come lettore di “la Repubblica” ho avuto occasione di leggerne due articoli, uno sul Venerdì del 4 marzo e uno sul quotidiano di domenica 6 marzo. In seguito alla lettura dei due articoli ho scritto al giornale la lettera che qui riproduco.
Spett. La Repubblica
rubrica.lettere@repubblica.it
Sandro Servi, Firenze
Ho letto con interesse l’articolo di Anna Lombardi sull’ultimo “Venerdì” e quello a doppia pagina di Vittorio Zucconi su “La Repubblica” di ieri, domenica 6 marzo, dedicati al tragico rogo della Triangle Waist Co. del 25 marzo 1911 a New York. Ho condiviso e trovato meritevole l’iniziativa di commemorare quell’evento che sconvolse l’opinione pubblica americana e impose interventi salutari nella normativa anti-incendio e condizionò per il futuro le relazioni sindacali. Ciò detto, vi è un punto nelle due cronache, che lascia perplessi. Il lettore dei due articoli, non altrimenti edotto, viene informato che un ricercatore ha recentemente identificato le ultime sei vittime, rimaste finora anonime: di queste, tre sono giovani immigrate italiane. Quello che al lettore non è dato di conoscere è che delle 146 vittime del rogo, ben 42 erano giovani immigrate italiane (di cui 38 ancora nate in Italia), una percentuale altissima dunque. Ma, ancora più significativo, mi sembra che non venga detto che tutte le altre vittime, ad eccezione di due (una protestante, nata in Jamaica, e una luterana, nata negli USA), erano operai e operaie ebrei (con un totale di 102 morti, di cui 16 giovani uomini, e 84 giovani donne – di esse solo 4 nate negli USA). Non che ci sia un merito particolare per le comunità italiana ed ebraica ad aver contribuito con un così alto numero di vittime in quella strage, ma poiché sui giornali ci si dà cura di sottolineare che il tale giudice costituzionale, o il tale portavoce governativo o il celebre professore, o il noto esperto di finanza è italo-americano o ebreo-americano, pare a me un’informazione doverosa ricordare il contributo di sudore, lacrime e sangue che gli immigrati italiani, spinti dalla miseria del nostro Meridione (vi furono anche molti emigranti da Veneto e Friuli, ma non mi sembra tra i morti della Triangle), e gli immigrati ebrei, spinti da simile miseria, ma anche dalle violente persecuzioni antisemite nella Russia zarista e nell’Austria del borgomastro di Vienna Lueger, versarono in nome della modernizzazione e del progresso negli Stati Uniti dell’inizio del secolo scorso; non a caso nel Garment District, il distretto dell’abbigliamento di Manhattan, sulla Settima Avenue c’è un monumento all’operaio delle confezioni. La statua raffigura un anziano sarto, curvo sulla macchina per cucire, ha la barba e la kippà in testa.
Credo si sia trattato di una dimenticanza inconsapevole e involontaria da parte degli autori dei due articoli, ma non posso non domandarmi: quando Zucconi (che stimo e ritengo giornalista molto preparato) scriveva “Erano soprattutto donne, italiane e ucraine, russe e palestinesi, rumene e irlandesi…” non si rendeva conto che tutti quei giovani e tutte quelle ragazze e giovani spose, fuggiti dalla Russia, dall’Ucraina, dall’Austria, dalla Romania, erano semplicemente giovani ebrei, che parlavano yiddish, che erano fuggiti ed erano immigrati a New York solo perché appartenevano alla cultura e alla nazione ebraica? Zucconi, nel suo lungo articolo non ha mai usato la parola “ebreo”, invece ha scritto “palestinesi”??? Che cosa intendeva dire? Qualcuno – magari Zucconi stesso – me lo sa spiegare?
Ho indirizzato questa lettera prima a Corrado Augias, che gentilmente mi ha risposto: “Gentile Servi non so perché sia successo ma ho inoltrato la sua lettera a Zucconi sicuro che le risponderà – mi tenga informato – Cordialmente Corrado Augias”, poi, per sicurezza, l’ho inviata anche alla redazione romana di “la Repubblica”. Zucconi non mi ha risposto, Augias e la redazione non hanno pubblicato la mia lettera.
Come lettore del giornale condivido molte delle battaglie intraprese per acclarare, o per pretendere, la verità, inclusa – sia detto qui a titolo d’esempio – l’insistenza con cui da settimane si ristampano quotidianamente “le dieci bugie”. Trovo dunque intollerabile che su questo episodio, di fronte ad una inspiegabile reticenza di un giornalista, che nega un aspetto certamente significativo e non secondario del fatto, si sia da parte de “la Repubblica” deciso di coprire l’errore. Ritengo che una nota correttiva di Zucconi, o la pubblicazione della mia lettera, avrebbero meritato al giornale la stima e il riconoscimento dei suoi lettori, e reso un servizio alla pubblica opinione alla quale, evidentemente, non si ritiene invece siano dovuti rispetto, correttezza e integrità professionale.