Massimo Introvigne
Bukhara, Uzbekistan. “Gli ebrei di Bukhara? Sono a New York”. Così, prima che partissi per l’Uzbekistan, diversi esperti di storia dell’ebraismo rispondevano alla mia domanda su una delle più antiche e misteriose comunità ebraiche del mondo. E certamente a New York gli ebrei di Bukhara ci sono.
Percorrendo la 108a strada del quartiere di Forest Hills, nel sobborgo newyorchese di Queens, s’incontrano più ebrei di Bukhara – con i loro ristoranti, negozi, musica e devozioni – che a Bukhara, in Uzbekistan. Dei duecentomila ebrei di Bukhara che ancora sopravvivono nel mondo, un quarto – cinquantamila – è a New York. Altri diecimila sono sparsi fra varie città degli Stati Uniti e del Canada. Centomila vivono in Israele, dove molti sono emigrati recentemente: ma il “Quartiere Bukhara” di Gerusalemme si è formato già nel diciannovesimo secolo.
Ne rimangono – nonostante tutto – in Austria e Germania, e centri di qualche importanza si trovano a Mosca e in Australia. Non resta più nulla in Francia, da cui i rappresentanti di questo popolo salvati dalle persecuzioni naziste sono quasi tutti emigrati in Israele e in America. Né in Afghanistan, da cui gli ultimi ebrei di Bukhara sono stati messi in fuga dai talebani (anche se funziona ancora una piccola sinagoga fra gli afghani di Peshawar, in Pakistan).
E tuttavia gli ebrei di Bukhara ci sono anche in Asia Centrale. A Dushambe, la capitale del Tagikistan, ne sopravvivono un migliaio e un’antica sinagoga, che nel febbraio 2006 è stata demolita dal governo che intendeva costruire al suo posto un nuovo palazzo presidenziale, il Palazzo delle Nazioni. Dopo l’intervento del Dipartimento di Stato americano e dell’UNESCO il governo di Dushanbe ha fermato i lavori e autorizzato la ricostruzione della sinagoga com’era e dov’era: ma a spese della piccola comunità ebraica tagika, che sta ora raccogliendo fondi nel mondo per tornare dall’attuale ammasso di rovine alla sinagoga del 1901. E ci sono ebrei di Bukhara perfino a Bukhara. Andando a Bukhara trovo anzitutto la Magoki Attoron, la “moschea del pozzo”, che è proprio di fronte a uno dei nuovi alberghi costruiti per i turisti stranieri, l’Hotel Asia Bukhara.
La tradizione locale vuole che ebrei e musulmani abbiano condiviso lo stesso luogo di culto – il cui scheletro ricorda certamente la struttura di una sinagoga –, anche se non manca chi sostiene che si tratti di un’antica moschea trasformata in luogo di culto per gli ebrei da qualche emiro di Bukhara che li proteggeva, o al contrario di un’antica sinagoga trasformata in moschea. Per non sbagliare, l’attuale governo uzbeko ne ha fatto – come per tantissime altre moschee e madrasse, solo una minoranza delle quali resta destinata all’uso religioso – un “museo”: una nozione che in un paese autoritario che si apre al turismo di massa (e spesso si chiude alla religione, per timore del fondamentalismo islamico) identifica uno spazio dove si entra a pagamento, non si prega ma volendo si compra, negli spazi affittati a venditori di tappeti e di altri oggetti del ricco artigianato locale.
Gli ebrei ortodossi che vengono dagli Stati Uniti tuttavia entrano e pregano. Trattandosi di turisti portatori di valuta pregiata – anche il dollaro svalutato lo è rispetto al povero som uzbeko non convertibile – le autorità chiudono un occhio, o magari tutti e due.Ai margini del quartiere di Lyab-i Khauz, un tempo “quartiere ebraico” ma caratterizzato anche da moschee e madrasse dall’inconfondibile stile sufi (oggi, al solito, “musei”), cercando con attenzione si trova anche la vera sinagoga, una struttura relativamente modesta, che esiste però fin dal 1600 circa. La comunità non è ricca, ma non ha perso la speranza e – si direbbe – la voglia di vivere. Il rabbino racconta di parecchi problemi economici, ma di un rapporto improntato tutto sommato al quieto vivere con lo Stato e con la comunità musulmana locale. In Uzbekistan la legge vieta la pratica della religione al di fuori delle strutture registrate (e la sinagoga di Bukhara lo è), nonché il proselitismo: ma gli ebrei non ne fanno.
Paradossalmente, la sorveglianza statale è talora più occhiuta nei confronti della maggioranza musulmana (che ha peraltro una tradizione sufi piuttosto aperta e tollerante) che delle minoranze cattolica, ortodossa ed ebraica. Qualche difficoltà amministrativa c’è stata (anche per i cattolici) ma sembra dovuta, più che al desiderio di tenere buoni i pochi attivisti islamici, a una generale difficoltà di rapporti fra ogni struttura indipendente dallo Stato e la burocrazia del presidente Karimov, che mantiene ancora molti tratti tipicamente sovietici. Se la passano peggio – tanto più dopo la rottura di Karimov con gli Stati Uniti e il riavvicinamento alla Russia di Putin – pentecostali e protestanti fondamentalisti, che cercano d’impiantarsi nel Paese dove però non ottengono la registrazione e spesso sono espulsi o messi in prigione.L’attività di ebrei e cristiani è del resto in qualche modo protetta dall’interesse della comunità internazionale.
Il rabbino mi mostra con orgoglio le fotografie di una visita alla sua modesta e povera sinagoga da parte della senatrice Hillary Clinton, che senz’altro è venuta fin quaggiù con un occhio ai cinquantamila ebrei di Bukhara che vivono nel suo collegio elettorale. Ma la vita degli ebrei a Bukhara sembra ragionevolmente tranquilla. La grande fuga verso Israele e gli Stati Uniti dopo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha aperto le porte all’emigrazione c’è stata, ma il rabbino – contrariamente a molti esperti occidentali che prevedono a breve l’estinzione degli ebrei di Bukhara nel loro focolare originario in Uzbekistan – pensa che ormai sia finita. In un Paese dove lo Stato incita al controllo delle nascite, il segno principale di speranza è che le coppie ebraiche rimaste fanno molti bambini. Tra i poco meno di mille ebrei che restano a Bukhara la metà sono bambini, che sciamano apparentemente felici dalla scuola ebraica che funziona a pieno ritmo. Ce ne sono altri nella capitale Tashkent e a Samarcanda, dove pure le sinagoghe sono aperte. In totale, gli ebrei in Uzbekistan sono poco più di duemila.Ma gli ebrei che sono in Uzbekistan – e gli ebrei che trovo a Bukhara – sono tecnicamente “ebrei di Bukhara”? Non tutti, ma la domanda presuppone una definizione di che cosa sia un “ebreo di Bukhara”. La questione è avvolta in qualche incertezza storica. Tradizionalmente si riteneva che Bukhara (Hador) fosse parte dell’impero babilonese e che quelli di Bukhara fossero ebrei deportati a Babilonia e mai tornati nella terra d’Israele.
Oggi molti storici dubitano che i babilonesi abbiano mai controllato Bukhara e pensano che gli ebrei vi siano giunti nel sesto secolo avanti Cristo, quando la città era parte del fiorente Impero Persiano. È certo che molti ebrei arrivarono a Bukhara nel secondo e nel primo secolo avanti Cristo, agli albori della formazione di quella “via della seta” che sarebbe durata per mille e seicento anni. Comunque sia, gli ebrei di Bukhara persero ampiamente il contatto con il resto del mondo ebraico per riprenderlo solo alla fine del Medioevo. Svilupparono così una cultura religiosa, una lingua e una musica uniche al mondo. Mentre l’antica lingua ebraica si perdeva come lingua parlata fra gli ebrei del mondo intero – sarebbe stata restaurata soltanto dal moderno Stato d’Israele – a Bukhara l’ebraico si mescolava con il tagiko (una variante del persiano) per creare la lingua bukhori, che alcuni ebrei in Uzbekistan parlano ancora oggi. Ma la maggioranza parla solo o soprattutto il russo, compreso il rabbino che ha nella sua sinagoga un ritratto del defunto leader del movimento hassidico dei Lubavitcher, Menachem Mendel Schneerson (1902-1994). Il rabbino, però, nega che la sua sia una sinagoga Lubavitcher.
Gli ebrei di Bukhara dipendono amministrativamente dalla comunità ebraica russa, che ha affidato a rabbini Lubavitcher molte sinagoghe frequentate però in maggioranza da fedeli che non fanno parte del movimento. E la storia è più complessa, perché ci sono state presenze Lubavitcher fra gli ebrei di Bukhara fin dal diciannovesimo secolo. Mentre gli ebrei mondiali si dividono per rito e costumi (a seconda dell’origine remota dall’Europa Centrale o dalla Penisola Iberica) in ashkenaziti e sefarditi, gli ebrei di Bukhara non sono né l’uno né l’altro, ma hanno riti e costumi altrettanto particolari della lingua. Sono ancora famosi soprattutto per i vestiti, la musica e la cucina: anche se gli amici del rabbino che sono lieti di avere un ospite straniero ammettono che la grande cucina “ebrea di Bukhara” oggi si trova soprattutto a New York. “Ebreo di Bukhara” è un’espressione che identifica dunque non gli ebrei di una città ma un gruppo etnico che ha creato nei secoli una declinazione religiosa e culturale dell’ebraismo assolutamente peculiare. Alcuni ebrei che sono nella città di Bukhara non sono “ebrei di Bukhara” ma ashkenaziti venuti dalla Russia in diversi periodi storici.
Duramente perseguitati dagli ultimi re zoroastriani della Persia, gli ebrei di Bukhara accolgono come liberatori i musulmani, che almeno promettono loro, come seguaci di una “religione del Libro”, la condizione di dimmi (cittadini di seconda classe, ma liberi di professare la propria religione). E sotto i musulmani gli ebrei di Bukhara sopravvivono per oltre un millennio, anche se non mancano massacri e conversioni forzate, e l’immagine idilliaca dell’armonia fra ebrei e musulmani vale solo per pochi anni di regno di alcuni emiri dello Stato indipendente di Bukhara, che impiegano volentieri gli ebrei come medici, consiglieri economici e musicisti (ma altri li perseguitano sospettandoli di essere spie russe). Un musicista di corte degli emiri come Levi “Levicha” Babahanov (1873-1926) diventa famoso anche in Russia. Ma Babahanov è un esempio di ebreo che ha dovuto attraversare il periodo più buio della storia della comunità di Bukhara. Durante la Prima guerra mondiale l’Asia Centrale – fra cui l’emirato di Bukhara, dal 1873 sotto protettorato russo – si solleva contro la coscrizione obbligatoria nell’esercito zarista, e lo fa in nome dell’islam, con massacri delle minoranze cristiane ed ebraiche. All’arrivo dei bolscevichi, contro gli ebrei sospettati di sentimenti contro-rivoluzionari o comunque “borghesi” si scatena il Terrore Rosso. Eppure da tutto questo gli ebrei di Bukhara si riprendono e sopravvivono.
Negli anni di Stalin diversi ebrei acquistano posizioni importanti nel governo locale dell’Uzbekistan: ma questo avviene solo per coloro che nascondono la loro religione e le loro tradizioni. Dopo la Seconda guerra mondiale – in cui muoiono almeno diecimila ebrei di Bukhara arruolati nell’Armata Rossa – la religione conosce un momento di respiro e nel 1945 Stalin permette che la sinagoga di Bukhara sia riaperta. Ma il presunto “complotto dei medici” (1948-1953) per uccidere lo stesso Stalin coinvolge alcuni dottori che sono ebrei di Bukhara: ne segue una repressione durissima, che non è interrotta neppure dalla morte del tiranno nel 1953. Solo con Mikhail S. Gorbaciov la manifestazione palese dell’identità ebraica a Bukhara diventa di nuovo possibile: ma molti approfittano delle aperture di quegli anni per emigrare. Lo Stato indipendente uzbeko – autoritario e diffidente verso la religione in genere – non ha, di per sé, particolarmente incoraggiato gli ebrei a rimanere nel Paese. Dai trentamila ebrei di Bukhara che vicevano in Uzbekistan nel 1970 si è così scesi agli attuali duemila. Ma, come si è visto, qualcuno resta. Anche a Bukhara – e non solo a Gerusalemme e a New York – l’ultima pagina di questa più che bimillenaria storia non è ancora stata scritta.
Il Domenicale – Settimanale di cultura, anno 6, numero 47, 24 novembre 2007
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