Redenzione Condizionale – Rav Yehuda Herzl Henkin ha elaborato un approccio sionista-religioso sobrio, che non ignora il miracolo del ritorno del popolo d’Israele nella sua terra, ma lo vede come un processo reversibile, il cui successo e futuro sono nelle nostre mani. A cinque anni dalla sua scomparsa
Hana Henkin e Oz Blumen – Makor Rishon – 26 dicembre 2025
Lunedì prossimo, il 9 di Tevet 5786, si compiranno cinque anni dalla scomparsa del rabbino posek Yehuda-Herzl Henkin. Sebbene generalmente associato alla comunità nazional-religiosa, rav Henkin non è stato allievo di una particolare yeshivà o corrente. Era uno studioso straordinariamente diligente che per la maggior parte della sua vita ha studiato Torà da solo. “Ringrazio Dio per avermi concesso un nipote studioso della Torà, di cui nessuno meglio di me conosce l’acutezza, la profondità di comprensione e le conoscenze“, scrisse di lui suo nonno, rav Yosef Eliyahu Henkin, conosciuto come il “marà deatrà (l’autorità rabbinica) deamerica”, quando lo ordinò rav.
Rav Henkin è cresciuto tra due poli: da un lato suo nonno, un rabbino lituano geniale e modesto fino all’ascetismo, del quale rav Moshe Feinstein disse: “Questo ebreo non ha goduto di nulla in questo mondo“. Rav Yosef Eliyahu Henkin era una figura indipendente e unica, riconosciuta in tutto il mondo ebraico come tzadik e chassid. La memoria della Shoah e la povertà acuta in cui crebbe e che non dimenticò mai, lo spinsero a dirigere per cinquant’anni l’opera di carità “Ezrat Torà” – che contribuì alla ricostruzione del mondo della Torà distrutto. Si oppose alla fondazione dello Stato per timore che molti membri dello Yishuv sarebbero stati uccisi nella guerra che sarebbe scoppiata, ma dopo la sua fondazione cambiò posizione.
Dall’altro lato, Yehuda-Herzl crebbe con genitori illuminati, persone di cultura, intelligenti e sionisti convinti, che nel 1945 diedero al figlio il nome del visionario dello Stato. Il suo sionismo nacque chiaramente dalla casa; se non fosse stato per vincoli familiari, i suoi genitori sarebbero emigrati in Israele. Era una casa ortodossa moderna e aperta, dove accanto alle candele dello Shabbàt c’era il salvadanaio del KKL. Durante la scuola elementare studiò a casa; per la prima volta studiò in un contesto religioso quando arrivò alla yeshiva superiore – in pratica un liceo religioso per ragazzi e ragazze.
Durante gli anni di studio alla Columbia University, rav Henkin mantenne una routine regolare di studio della Torà. Studiava molte ore nel bet midrash della Yeshiva University, per lo più senza partecipare alle lezioni; solo per un certo periodo fu tra gli ascoltatori delle lezioni del rabbino Aharon Soloveichik. Completò una laurea in religioni e un master in sociologia della religione. Leggeva incessantemente e ricordava quasi tutto; si poteva conversare con lui su qualsiasi argomento. A un certo punto si disse: “Il nonno (zeidi) non vivrà per sempre – cosa sto facendo qui?“. Il giorno dopo lasciò l’università, si trasferì nell’appartamento adiacente a quello del nonno che apparteneva alla famiglia, e per cinque anni servì il nonno e studiò con lui in chavruta (coppia di studio) giorno dopo giorno, mattina e sera.
Una finestra di opportunità
Come le famose qualità di suo nonno, le posizioni di rav Henkin erano caratterizzate da una visione penetrante, integrità assoluta, indipendenza di pensiero e raro coraggio. In questo breve articolo vorrei concentrarmi su un chiarimento di principio che fece riguardo all’atteggiamento verso lo Stato d’Israele. Questo chiarimento iniziò durante il periodo degli accordi di Oslo, e rav Henkin vi tornò sopra negli ultimi anni. Questo chiarimento porta un significato profondo anche per la realtà attuale.
Il saggio del rabbino Henkin, “Perché si è rinnovata la sovranità d’Israele“, apparso nel suo libro di responsa “Bnei Banim” e recentemente anche in “Mahalakhim BaMikra“, presenta la tensione acuta in cui il mondo sionista-religioso si muove dalla fondazione dello Stato: da un lato una profonda aspettativa di redenzione, una visione messianica e il sentimento della “mano di Dio nella storia”; dall’altro una realtà complessa e fragile, piena di fallimenti, peccati e divisioni. Lo Stato d’Israele è l’inizio della redenzione? Una fase aggiuntiva nella storia d’Israele? Un fenomeno puramente politico? O forse qualcos’altro?
Rav Henkin enumera quattro risposte date a questa domanda, che sono di fatto quattro gruppi sociali: nel primo gruppo ci sono coloro che vedono nello Stato d’Israele la redenzione, come i rabbini del Merkaz HaRav; i membri del secondo gruppo ritengono che lo Stato d’Israele sia una prova o opera di Satana, come i rabbini di Neturei Karta; nel terzo gruppo sono inclusi coloro che vedono nello Stato solo opera dell’uomo, come – nelle sue parole – “chi se non fosse professore non lo ascolterebbero, e se non fosse per questa sua opinione non si parlerebbe di lui”; e nel quarto coloro che non hanno sviluppato un’opinione teologica sulla questione dello Stato, come i rabbini della Yeshiva University.
Rav Henkin non rinuncia nemmeno per un momento all’aspettativa della redenzione, alla preghiera e alla salvezza. Da questi propone una visione del mondo di chi crede nella redenzione e vede la salvezza, ma si rifiuta di chiudere gli occhi di fronte alla realtà e di instillare nel pubblico una fiducia falsa che tutto sia “sistemato dall’alto”. Muove una doppia critica, basata su due domande fondamentali che mettono al centro il riconoscimento delle azioni di Dio. La prima: come si può negare il legame tra la fondazione dello Stato e il Santo Benedetto? La seconda: come si può ignorare le dimensioni dell’abbandono della religione, dell’assimilazione e del distacco dalle radici nel mondo ebraico?
Le due domande sono intrecciate. Come è possibile che il ritorno della sovranità – il più grande beneficio che Dio ha concesso a Israele – sia avvenuto proprio nel momento in cui parti considerevoli del popolo si sono allontanate dall’osservanza della Torà e dei precetti?
Da ciò rav Henkin propone un’ulteriore posizione, la sua. Secondo lui, quando si tratta di questioni riguardanti il “popolo d’Israele nel suo insieme” bisogna sempre temere l’errore. “Beato l’uomo che teme sempre“, e in un momento di decisioni fatali e di realtà ad alto rischio, non bisogna appoggiarsi a ideologia, sistema o “lettura storica”. Il timore di sbagliare non è debolezza; è una condizione per la vera Torà. Con vasta erudizione e abbondanza di esempi, cerca di sostenere che la sovranità d’Israele è una realtà fragile, rinnovatasi proprio in un periodo di abbandono della religione per concedere una sorta di proroga – una finestra di opportunità per il pentimento. Non è la redenzione completa, per la quale il popolo d’Israele non è ancora degno, ma è una grazia che viene da Dio.
L’esempio storico al centro del saggio è la figura di Geroboamo figlio di Ioash. Un re peccatore che fa peccare, eppure è detto di lui: “Egli ristabilì i confini d’Israele dall’ingresso di Camat fino al mare dell’Araba… perché il Signore vide l’afflizione d’Israele che era molto amara, e non c’era né schiavo né libero, né chi potesse aiutare Israele” (2 Re 14:25-26). La salvezza può venire anche attraverso i malvagi; il suo scopo, alla fine, è il pentimento. Tuttavia non passarono molti anni prima che il regno di Geroboamo figlio di Ioash fosse cancellato. La salvezza non è una promessa e non è permanenza – è un’opportunità; un’opportunità da sfruttare senza lasciarsi trascinare dai peccati e dai malfattori da un lato, e senza negare le grazie di Dio dall’altro.
Timore dell’uniformità
Rav Henkin vedeva nello Stato d’Israele l’opera di Dio. Il ritorno della sovranità, il raduno degli esuli, le vittorie nelle guerre esistenziali e la prosperità economica e demografica – tutto ciò, secondo lui, non sono coincidenze ma salvezza storica di dimensioni bibliche. D’altra parte, non bisogna vedere nello Stato “l’inizio della redenzione” nel senso di un processo irreversibile. Questa tregua storica è fragile e dipende dalle nostre azioni; il futuro non è garantito. Di fronte ai pericoli nazionali, avvertiva rav Henkin, non bisogna appoggiarsi all’ideologia – anche se rivestita di abiti religiosi. Una persona credente deve mantenere il timore dell’errore, specialmente in tutto ciò che riguarda la guida del pubblico. Al contempo insisteva sulla profondità delle divisioni nel popolo, e le vedeva come una minaccia esistenziale reale.
Prima del periodo di Oslo sembrava che il pubblico nazional-religioso fosse abbastanza uniforme; le kippòt sembravano tutte simili, e anche il mondo dei concetti e della coscienza spirituale erano vissuti quasi come un’unica corrente. Lo spirito del tempo portava un senso di certezza: Dio è dietro di noi, e noi facciamo la Sua volontà. A parte pochi pensatori indipendenti, molti rabbini di Gush Emunim portavano in sé un senso di certezza che Dio sostenesse il loro cammino e che sapessero qual è la volontà di Dio. L’enorme sacrificio con cui agirono derivava da quel senso di missione – che questa realtà storica “doveva essere”. Rav Henkin temeva questa uniformità: mise in guardia contro le promesse alla giovane generazione di una redenzione imminente. Per più di un decennio avvertì contro questo approccio: se tutto crollasse, chiedeva, cosa accadrebbe alla fede?
A posteriori si può dire che il timore non si è realizzato, e tutti siamo contenti. I fondamenti della fede si sono rivelati abbastanza solidi da resistere alla crisi e persino svilupparsi da essa. Trasformazioni profonde sono avvenute all’interno del pubblico religioso-nazionale, e la fede ha acquisito nuove sfumature e orientamenti. Forse dietro il cambiamento non c’è stata una Mishnà (sistema) ordinata, ma gli studenti cresciuti con gli insegnamenti di rav Kook hanno iniziato a tessere un mondo interiore più ricco – un mondo di sentimento, di spiritualità, di un’anima che cerca la santità. Questo era il nuovo denominatore comune: il tentativo di trovare un posto personale nell’incontro con la Torà. La Torà ha cessato di essere solo un appello a una missione nazionale; è diventata anche uno spazio intimo, “la mia Torà”, “la mia verità”. E accanto a tutto ciò – il sacrificio di sé, che è stato un elemento centrale nell’identità religioso-nazionale, non è mai stato dimenticato.
Chitarra e dubbio
Il pubblico nazional-religioso è unito dalla consapevolezza che dopo duemila anni di esilio è avvenuto un miracolo, e il popolo d’Israele ha di nuovo meritato uno Stato. Ma dalla fase dell’evento storico si passa alla domanda successiva: cosa fare ora? Una risposta diffusa nel pubblico era, ed è tuttora, gli insediamento – e ancora insediamenti. Proprio per l’enorme affetto per gli insediamenti, rav Henkin propose uno sguardo più sobrio: la capacità di osservare anche ciò che accade fuori da Israele e capire che queste dinamiche ci influenzeranno; vedere tutta la complessità.
L’approccio di rav Henkin introduce nell’immagine lo spazio del dubbio. Non era meno sionista né amava meno la Terra, ma nel suo mondo la Torà è il centro, e la santità della Terra deriva da essa. Per lui era chiaro che la fondazione dello Stato è un miracolo delle dimensioni dell’uscita dall’Egitto, ma il futuro non è garantito; è nelle nostre mani.
Rav Henkin era solito dire – a volte suonando la chitarra e cantando nel Giorno dell’Indipendenza – che dobbiamo stare attenti e prendere decisioni politiche sagge. Ci sono quelli che si affidano al fatto che Dio “sistemerà le cose”, e lui rispondeva: chi l’ha detto? Avete guardato alla storia del popolo d’Israele? Dio non agisce sempre secondo le nostre aspettative, e il tentativo di indovinare i Suoi prossimi passi equivale a creare Dio a nostra immagine. La scelta è nelle nostre mani. Dobbiamo prendere decisioni intelligenti a tutti i livelli, poiché gran parte dei danni deriva da cattive decisioni umane, non da decreti celesti.
E diceva ancora: è opinione diffusa che Giudea e Samaria siano la linea di difesa di Tel Aviv, ed è vero. Ma la linea di difesa di Giudea e Samaria passa per Tel Aviv; in essa e nelle sue propaggini dobbiamo rafforzare la Torà. E come ci ha insegnato il profeta Osea: “Unito agli idoli è Efraim“, se Israele è unito, anche se purtroppo attorno all’idolatria, Dio dice: “Lascialo stare“; ma quando “il loro cuore è diviso“, quando la società è lacerata, dice il profeta: “Ora saranno colpevoli!“
Conclusione
Il sistema di pensiero di rav Henkin è un appello sobrio a una generazione di sovranità: lo Stato non è la fine della storia ma l’inizio della responsabilità. La nostra generazione ha meritato un privilegio storico raro, di vedere uno Stato ebraico indipendente dopo duemila anni di esilio, ma porta anche un pesante obbligo storico: trasformare questo dono in una leva di teshuvà-pentimento, di costruzione della Torà, di riparazione sociale e di riduzione della divisione nel popolo. Se affronteremo la sfida, forse scopriremo a posteriori che questo è stato davvero l’inizio della crescita della nostra redenzione. Ma secondo rav Henkin, la risposta a questa domanda dipende solo da noi.
