È scritto nella Parashà “Una terra… le cui rocce sono ferro” (Devarim 8,9). Che cosa significa questo? Che tipo di lode è questa descrizione? Forse una semplice descrizione geologica? Ovviamente sappiamo che la Torah va sempre molto oltre il significato letterale, e dietro le rocce e il ferro, nasconde un segreto dell’anima e della nostra storia.
La Roccia — even — è natura intatta, opera di Hashem senza intervento umano. È il monte che sorge dove il Creatore l’ha posto, è il cuore puro che batte ancora come nel giorno in cui è stato formato, non quel cuore di pietra che certuni, nella loro ignoranza e malafede, ci attribuiscono, citando a sproposito le parole dei profeti, incapaci di comprenderne il significato metaforico e spirituale.
È il passato che ci ha generato: Avraham, Yitzchak, Yaakov. Non a caso la parola even è composta dalle iniziali di av–ben–neched — padre, figlio, nipote — la catena di sangue e di fede che attraversa le generazioni. È per questo che, quando visitiamo una tomba, posiamo una pietra: non un fiore che appassisce, ma un segno eterno che dice che quella persona non finirà mai di esistere, che resterà l’anello che unisce il passato al futuro, e che ciò che ha fatto continuerà a vivere per sempre; non a caso even ha valore numerico 53 come la parola “Gan” riferito al Gan Eden, ma questo è già un altro argomento.
Il Ferro — barzel — è tutt’altra storia: è la pietra che l’uomo ha estratto, fuso, plasmato nel fuoco. È la tecnologia, la trasformazione, la modernità. È il futuro che costruiamo con le mani, come fecero i nostri padri nel deserto e come facciamo oggi, in una Terra che unisce l’antico e il nuovo. E “B-A-R-Ze-L”, dicono i Maestri, è acronimo di Bilhah, Rachel, Zilpah, Leah — le madri di tutte le tribù, le madri che proteggono i figli; forse, non a caso, oggi il nostro strumento di difesa si chiama la Kippat Barzel, la Kippà di Ferro, non fatta di freddo metallo, ma dal calore della protezione delle Matriarche che vegliano sui loro Figli.
Eppure, la Torah impone un limite che ci può stupire in questo contesto: l’altare dev’essere di pietra, non toccato da ferro. Perché il ferro è fatto per accorciare la vita, l’altare per allungarla (Middot 3,4). È un paradosso: la pietra costruisce, il ferro distrugge. Ma non sempre. C’è un midrash, antico e sorprendente, che racconta di David e Goliat. Il gigante era protetto da un elmo di metallo. La pietra della fionda non poteva penetrarlo. Allora David “parlò” al ferro: se ti aprirai per lasciar passare la pietra, avrai parte nella santità, e non sarai più solo strumento di morte. E così, fu promesso al ferro di avere merito nella milà (Prisha a Tur YD 264) e nella shechità: nel coltello che incide il patto eterno e nella lama che prepara la tavola santa (paragonata, non a caso, all’altare). Da allora, l’halachà insegna che la milà si può fare con qualsiasi cosa che recida, anche pietra o vetro, come la selce che troviamo nei testi sacri, ma la mitzvà min ha-muvchar è farla proprio con il ferro (Shulchan Arukh YD 264,2). Perché? Perché il ferro, sottomesso alla Torah, si è redento: da arma di guerra a strumento di alleanza. Forse è questo il segreto della frase: “le cui rocce sono ferro”. La Terra d’Israele è un luogo in cui la pietra e il ferro si incontrano e si benedicono a vicenda, la storia dei Padri e l’Hi-tech. Il passato e il futuro, l’innato e il costruito, la fede ricevuta e quella conquistata. È la scienza dell’anima: ciò che è nato in noi (even), e ciò che abbiamo forgiato con disciplina e fatica (barzel). E non è un caso che le iniziali di “A-vaneha B-arzel U-meharareha T-achtzov” (verso iniziale) formino la parola AVOT — padri. Perché noi viviamo sempre tra pietra e ferro, tra tradizione e innovazione, tra ciò che riceviamo e ciò che costruiamo. Il nostro compito non è scegliere l’uno o l’altro, ma tenerli uniti sotto un’unica corona: “E-lokenu veE-loke Avotenu” — D-o nostro e dei nostri padri. Pietra e ferro: l’una non si muove, l’altro si plasma. L’una è eterna, l’altro si modella. Nella pietra c’è la forza della nascita, nel ferro la forza della scelta. La pietra è la voce del nonno che racconta al nipote, il passato che parla al presente; il ferro è la mano del nipote che, ascoltando, prende gli strumenti e costruisce il futuro. Diventando lui stesso pietra. Forse, proprio qui si nasconde la soluzione al grande dilemma scientifico tra innatismo e ambientalismo. Ecco il cuore del messaggio di Ekev: modernizzarsi senza recidere la radice, crescere senza dimenticare. Essere pietra e ferro insieme. Così, anche noi, come la Terra promessa, saremo “terra le cui rocce sono ferro”: radici antiche e solide, pronte a forgiare un domani che resti fedele all’eternità.
Shabbat Shalom