La rabbina riformata Delphine Horvilleur reinterpreta in un articolo contestatissimo (qui) il comandamento biblico “ama il prossimo tuo”: l’amore vero implicherebbe critica costruttiva, non silenzio complice.
Questa la risposta del linguista Jean Szlamowicz alla rabbina
Jean Szlamowicz – 13 maggio 2025 – Traduzione RM (grazie!)
Riguardo a Israele, alcune personalità, avvolte da una sorta di ebraismo talismanico, si permettono giudizi morali che non hanno alcun rapporto con le realtà esistenziali e militari sul terreno. Peggio ancora, fanno di questa arroganza morale il fondamento di una proposta politica che contribuisce a costruire l’opinione pubblica e, più in particolare, a rafforzare l’antisionismo di principio del campo islamo-sinistroide. Così, dietro una proclamazione umanista che scade nella smanceria lacrimevole, si leggono accuse già riprese a gran voce dagli avversari di Israele. È il caso di un testo perverso pubblicato su Tenoua, “Gaza/Israele: Amare (davvero) il prossimo, non tacere più”, nel quale Delphine Horvilleur si dedica a un’esibizione di moralità che è puro esercizio retorico. La sua argomentazione sacrifica il ragionamento e la dimostrazione (logos) a favore dell’emozione (pathos) e dell’esibizionismo personale (ethos): questa combinazione di pathos, indignazione morale, notorietà e argomento identitario (“in quanto ebreo”) firma un testo mondano, opportunista e egocentrico.
Messa in scena della virtù
La dichiarazione d’amore domina l’inizio del testo: “È dunque proprio per amore di Israele che oggi parlo.” Questa captatio benevolentiae fa da paravento: si possono poi dire le peggiori cose, ci si sarà protetti dietro la mostra di una buona intenzione, la cui sincerità però viene smentita dal resto del testo. Prosegue poi con una vigorosa proclamazione: “Per la forza di ciò che mi lega a questo paese che mi è così vicino, e dove vivono tanti dei miei prossimi. Per il dolore di vederlo smarrirsi in una débâcle politica e un fallimento morale. Per la tragedia sopportata dagli abitanti di Gaza, e il trauma di un’intera regione.”
L’epanàfora (“per amore […] per la forza […] per il dolore […] per la tragedia”…) serve ad accentuare la gravità delle affermazioni, valorizzando il coraggio di chi osa parlare in seguito a un dilemma morale (“Anch’io ho spesso sentito questo invito al silenzio. A volte ho imbavagliato la mia parola»). La ripetizione dell’” io” che attraversa il testo è evidente: questa messa in scena dell’emozione personale è un argomento affettivo privo di qualsiasi valore dimostrativo fattuale. In questo modo si pone una presunta “fallimento morale” per allusione, senza dimostrarne la realtà. Allo stesso modo, la parola “tragedia” appartiene al pathos e non alla descrizione. Per il consenso morale che invoca — poiché ovviamente nessuno sarebbe favorevole a una tragedia — nasconde la realtà politica: avendo scatenato una guerra d’aggressione, Gaza ne subisce le conseguenze, come per ogni attacco fallito.
Se è vero che tutta la regione è coinvolta, non è per un “trauma” che sopporterebbe, ma per via dell’aggressione a cui partecipa: gli Houthi in Yemen, l’Iran, Hezbollah in Libano. Ma forse si può parlare di “trauma” quando non si riesce a uccidere quanti ebrei si sperava. Questa vittimizzazione degli aggressori è un rovesciamento sorprendente da parte di una mente che si vuole sottile come quella di Delphine Horvilleur, la cui morale sembra sorprendentemente fuori dalla realtà. Probabilmente bisognerebbe risparmiare chi viene a ucciderti e lasciargli la possibilità di ricominciare.
Vittimizzazione e realtà politica
Questa volontà di tendere l’altra guancia somiglia più alla martirologia cristiana che al sionismo. Nel Talmud (Trattato Sanhedrin, 72a e b) si dice: “Se qualcuno viene a ucciderti, alzati prima di lui per ucciderlo!” Ma va completato con il dovere di altruismo che lo ispira: “Non restare immobile davanti al sangue di tuo fratello mentre lo guardi morire, mentre puoi salvarlo”, commenta Rashi per spiegare “non essere indifferente al pericolo del tuo prossimo” (Levitico 19,16): è proprio salvare il prossimo impedendo un’aggressione. Piuttosto che un’invocazione “pacifista”» come quella di Delphine Horvilleur, l’interpretazione delle situazioni specifiche che occupa i talmudisti fonda una riflessione etica e politica sulle realtà materiali, lontana da ogni astrazione. La sopravvivenza e la protezione del proprio popolo di fronte a un nemico venuto per annientarlo è sicuramente un caso che richiede la violenza.
Non si potrebbe trovare esempio più evidente dell’aggressione che si abbatte su Israele da sempre, in particolare nel 1948, 1967, 1973 e da tutte le offensive provenienti da Gaza (2008, 2012, 2014, e, naturalmente, il 7 ottobre 2023…). Israele non scatena guerre. E Israele non può perdere guerre. E finora, Israele non è stato autorizzato nemmeno dai suoi “alleati” americani ed europei a vincerle. Delphine Horvilleur non vuole che Israele vinca una guerra in modo definitivo — vuole forse che i suoi nemici possano riprendersi? Dopotutto, questa era la dottrina abituale: gestire le aggressioni e, sotto la pressione di Stati Uniti ed Europa, non eliminare completamente gli aggressori.
Dopo aver modificato i suoi dati, Hamas ha dovuto ammettere che il 72% delle perdite erano uomini in età da combattimento e non donne e bambini. Questo somiglia piuttosto al più basso rapporto di vittime civili nella storia della guerra e non a un “fallimento morale”. Si è più vicini all’esemplarità che alla vergogna. Proprio mentre Israele avverte i civili dei suoi attacchi, mira i suoi colpi ed evacua gli abitanti di Gaza che lo desiderano, Delphine Horvilleur sceglie di adottare la narrazione vittimistica propagata da Hamas.
L’accumulo di accuse nel suo testo dà un’impressione di evidenza indiscutibile, ma questa conglobazione si basa sull’astrazione e non sui fatti: questo cumulo di evitamenti e mezze verità allusive svolge un ruolo argomentativo subdolo, ma privo di valore di verità. L’accusa contro Israele è, in sé, un rovesciamento di colpevolezza: se Gaza vuole che la guerra finisca, basta restituire gli ostaggi e deporre le armi. La ferocia è proprio quella di Hamas. E denigrando Israele senza menzionare i crimini di Hamas, Delphine Horvilleur opera un rovesciamento morale di gravità capitale. Il fatto che il suo testo venga ripreso sui social da numerosi antisionisti e militanti islamo-sinistrorsi è la prova di una posizione che soddisfa i nemici di Israele.
Formulando l’ingiunzione che “questo Stato deve […] tendere la mano” a tutti i paesi vicini e ai loro popoli”, fa come se ciò non fosse avvenuto già prima del 1947 (Accordi Fayçal-Weizmann, 1919). Come se Camp David (1978 e 2000), Oslo (1993), Taba (2001), il piano Olmert (2008) non fossero mai esistiti. Tutte le proposte fatte agli arabi di Palestina sono state respinte (anche offrendo fino al 94% di Giudea e Samaria…). Persino Bill Clinton ha ricordato il rifiuto di Arafat di avere uno Stato, come tutti i leader palestinesi da allora, perché chiedono non uno Stato per loro stessi ma la distruzione di Israele. È un punto di dottrina sempre sostenuto dall’OLP stessa (il piano in 10 punti del 1974 vedeva la soluzione dei due Stati solo come tappa verso la conquista totale). O Delphine Horvilleur ignora questa realtà politica, o fa finta che non esista per salvare la sua bella anima così telegenica.
Pathos e astrazione
Oltre alla compiacenza che caratterizza il suo stile, più vicino ai libri di autoaiuto che all’analisi talmudica, il fatto di elevarsi con un lessico astratto che dà l’impressione di altezza filosofica (“amore”, “coscienza”, “anima”…) e di emozione (“dolore”, “cuore”) permette di evitare le realtà politiche, diplomatiche, strategiche e, semplicemente, belliche. Concretamente, come “salvare la propria anima” di fronte a un miliziano di Gaza armato di kalashnikov? In questa situazione si rende Israele moralmente responsabile delle turpitudini che subisce. Forse non ha visto i video in cui le madri palestinesi urlano di gioia quando muoiono i loro figli cresciuti nel culto del martirio jihadista, né quelli in cui i bravi abitanti di Gaza posano davanti alle macerie rifacendo più volte la scena per essere sicuri che l’emozione passi bene. Avrà visto solo il montaggio finale, destinato all’Occidente e agli spiriti fragili.
Pensare “al popolo palestinese” sembra un obbligo dichiarativo, ma forse si tratta di un vero obiettivo politico. In tal caso, va ricordato il sostegno dei civili a Hamas che hanno eletto, la loro partecipazione al 7 ottobre, la loro gioia, il loro ruolo nella detenzione degli ostaggi. Questi civili che a volte indossano uniformi militari, a volte un giubbotto con la scritta “stampa” o un camice bianco da medico per andare a nascondere armi negli ospedali. La loro apparente rivolta contro Hamas interviene solo in caso di sconfitta, mentre la maggioranza della popolazione ha celebrato il 7 ottobre.
Da quando Stéphane Hessel e il pathos della sua evocazione anti-israeliana [1], “i bambini di Gaza” sono diventati un topos antisemita le cui radici risalgono all’accusa di omicidio rituale. La ripetizione ossessiva della parola “bambino” nel testo di Delphine Horvilleur è un espediente patetico che nega la realtà sociale e politica di Gaza. Forse dovrebbe accusare Hamas, denunciare il condizionamento mortifero che impone alla sua popolazione, invece di rivolgersi a Israele? O sorprendersi di quelle madri che non cessano di proclamare il loro desiderio che i loro figli diventino shaheed, martiri capaci di uccidere ebrei. Mosab Hassan Youssef, figlio di un fondatore di Hamas, descrive senza sosta questo culto della morte, questo odio verso l’ebraismo, teologico e culturale, inculcato a tutti i bambini di Gaza che imparano sin da piccoli a sgozzare ebrei e a maneggiare armi. Perfino l’Unione Europea, che chiudeva gli occhi con tale intensità sull’uso dei finanziamenti concessi all’UNRWA, ha appena votato per congelare i fondi alle scuole dell’UNRWA per porre fine all’educazione all’odio che vige a Gaza [2]…
Ma Delphine Horvilleur preferisce accusare Israele in nome dell’amore che le porta: “[il mio amore per questo paese] è un sogno di sopravvivenza per un popolo che nessuno ha saputo o voluto proteggere ed è il rifiuto assoluto dell’annientamento di un altro popolo per realizzarlo.” Abilmente riprende l’accusa di genocidio senza pronunciare la parola, un’accusa indiretta, non formulata e quindi ancor più perfida. La formulazione nominale (“l’annientamento”) e l’articolo indefinito (“un” popolo) permettono anche un’astrazione comoda che evita di affermare fatti.
La nuova epanàfora conclude la sua arringa:
“Questo amore per Israele oggi consiste nel chiamarlo a un risveglio di coscienza…
Consiste nel sostenere chi sa che la democrazia è l’unica vera fedeltà al progetto sionista.
Nel sostenere chi rifiuta qualsiasi politica suprematista e razzista, che tradisce profondamente la nostra Storia.
Nel sostenere chi apre occhi e cuore alla terribile sofferenza dei bambini di Gaza.
Nel sostenere chi sa che solo il ritorno degli ostaggi e la fine dei combattimenti possono salvare l’anima di questa nazione.
Nel sostenere chi sa che senza futuro per il popolo palestinese, non ce ne sarà per il popolo israeliano.
Nel sostenere chi sa che non si lenisce alcun dolore, né si vendica alcun morto, affamando innocenti o condannando bambini.”
Questa litania anaforica è una figura enfatica che tende alla grandiosità. L’epanàfora è una figura così evidente che crea un effetto ipnotico, facendo passare in secondo piano i contenuti proposizionali, qui dubbi, a vantaggio della forza di convinzione che permette di esprimere. Indica, proprio per la sua ampiezza, la gravità delle affermazioni che si vogliono assumere. È una figura da tribuno, da procuratore, da accusatore pubblico. Ma il suo discorso esalta allo stesso tempo “coloro che sanno”, tra i quali lei stessa si conta, naturalmente. Ora, questa enfasi non è solo un ornamento stilistico: qui le procedure di amplificazione sono di natura intimidatoria morale. Sistematizzando questa iperbole, questo testo rende impossibile la contraddizione argomentativa: chiunque osi contraddire questa figura d’innocenza la cui virtù è così enfaticamente proclamata sarà necessariamente una persona spregevole… Un tale specchio narcisistico — “pensate come me se siete brave persone” — è demagogia di reclutamento.
Il grande rovesciamento
Usa lo stesso pathos manipolatorio di Stéphane Hessel (“i bambini”), riprende il vocabolario antisionista (“suprematista e razzista“), il lessico pacifista (dice “fine dei combattimenti“ e non “vittoria”) e vuoto (“futuro”, “salvare la propria anima“), persino fallace (“affamare innocenti”) in un discorso che mira a disarmare Israele e a confiscare la democrazia a favore del suo campo politico, presentato come incarnazione della virtù. È una retorica ampollosa, piena di arroganza persino nella pretesa umiltà.
Riprendendo i luoghi comuni antisionisti più caricaturali e radicali, sembra aver scelto il discorso dell’“ebreo anti-israeliano per amore di Israele”. Perché sarebbe lei a sapere cos’è il vero Israele. Questo ricorda purtroppo un topos anti-giudaico, quello del supersessionismo come dottrina del cristianesimo che si pensa come Verus Israel e condanna il giudaismo come errore destinato. Gli ebrei che non la pensano come lei sarebbero quindi impostori, malvagi, cattivi ebrei.
Per comodità si parla spesso di “odio di sé”, ma è esattamente il contrario che anima certe persone, desiderose piuttosto di valorizzarsi a spese degli altri, esibendo la loro virtù, la loro superiorità morale e facendone l’argomento della loro gloria. Dalle descrizioni che ne ha fatte Vladimir Jankélévitch in L’aventure, l’ennui, le sérieux (L’Avventura, la noia, la serietà), conosciamo bene questi professionisti della virtù, ma resta da capire le motivazioni dei piccoli bottegai del giudaismo ufficiale, quelle élite carrieriste che si compiacciono nel disprezzo e decidono che la democrazia debba assomigliare a loro, in esclusiva totale, anche se ciò significa vendere il buon nome dei loro fratelli e fornire argomenti ai loro nemici. Questo orgoglio smisurato, hybris narcisistico della virtù che vuole essere legge, finisce così per trovare posto in una tipologia di traditori.
[1] “Quanto a Gaza, è una prigione a cielo aperto per un milione e mezzo di palestinesi. Una prigione in cui si organizzano per sopravvivere. […] È il comportamento dei gazawi, il loro patriottismo, il loro amore per il mare e per le spiagge, la loro costante preoccupazione per il benessere dei loro figli, numerosi e sorridenti, ciò che perseguita la nostra memoria. Siamo rimasti colpiti dalla loro ingegnosa maniera di affrontare tutte le penurie che sono loro imposte. Li abbiamo visti fabbricare mattoni in mancanza di cemento, per ricostruire le migliaia di case distrutte dai carri armati.” (Indignatevi!, p.17)
[2] “I contribuenti europei non vogliono che il loro denaro finanzi un’istruzione che celebra il terrorismo e promuove l’odio verso Israele” ha concluso il Parlamento europeo approvando a larga maggioranza la sua risoluzione il 7 maggio 2025.
https://www.causeur.fr/le-narcissisme-vertueux-et-l-antisionisme-tribune-horvilleur-309489