L’infanzia in una famiglia di stretta ortodossia laica, mista e di sinistra. Una conversione a Roma senza credere in Dio. Dice che il governo israeliano è “fascista” e non capisce l’atteggiamento ebraico verso il papa che aveva parlato di genocidio a Gaza.
Titolo originale: Anna Foa: La forza delle idee contro l’ostracismo
Intervista a cura di Bruna Laudi
Sarebbe stato bello incontrarci in un antico caffè di Torino e parlare a lungo di tante cose: perché Anna Foa non è solo la storica che tutti conosciamo e di cui abbiamo avuto modo di apprezzare la serietà e la profondità delle ricerche, non è nemmeno la vittima della moderna intolleranza verso chi ha un suo pensiero critico e non si allinea all’idea dominante ma è soprattutto la testimone di una storia passata con cui dobbiamo fare i conti.
Invece il nostro incontro avviene a distanza, ognuno davanti al suo schermo che ci permette di intravedere qualche scorcio di intimità casalinga, di riconoscerci nel biancore della capigliatura e, per me che pendo dalle sue labbra, di apprezzare il sorriso dei suoi occhi; perché questa donna forte e decisa è capace di uno sguardo ironico e sapiente che immediatamente affascina.
Le polemiche che l’hanno travolta dopo l’uscita del libro “Il suicidio di Israele” e la firma dell’Appello contro la pulizia etnica in Cisgiordania da parte di Israele hanno focalizzato l’attenzione sui drammatici avvenimenti di oggi facendoci dimenticare che ognuno di noi è il prodotto di una storia personale e che quindi non stupisce il suo bisogno di denunciare quella che ritiene la tragedia di un popolo perché la sua denuncia è in coerenza con quanto le è stato insegnato, con quanto ha vissuto la sua famiglia. Forse stupisce molto di più chi, avendo alle spalle una storia di sofferenze e di ingiustizia, non è in grado di riconoscere la sofferenza dell’altro.
Inizialmente pensavo di avviare la conversazione proprio dal linciaggio morale da lei subito in questi ultimi mesi ma ci troviamo immediatamente d’accordo: lei non vuole presentarsi come presunta colpevole di un reato di opinione e vittima di un’aggressione verbale che ha raggiunto toni intollerabili e io voglio sapere di più di una donna che ammiro per la saggezza, la lucidità e il coraggio delle proprie opinioni, disposta a pagarne il prezzo ma, contemporaneamente, con la dignità di chi non vuole essere identificata come vittima.
Decido quindi di chiederle quando, come e perché si è avvicinata all’ebraismo, provenendo da una famiglia laica: il padre, Vittorio Foa, politico, sindacalista, storico, era ebreo e la madre, Lisetta Giua, ex partigiana, no.
Io mi sono sempre considerata ebrea, fin da piccola, nel senso che in casa mia l’ebraismo era come la religione anzi no, scusa il lapsus, era come la Resistenza … In realtà la mia era una famiglia totalmente laica e io non sapevo cosa fosse l’ebraismo: lo identificavo con le cose che avevo cominciato a leggere a 7 anni, anche sui campi di concentramento. La Shoah, per me, è stato l’accesso all’ebraismo in assoluto: prima i racconti della nonna poi, quando è uscito il libro di Anna Frank, l’identificazione forte con Anna Frank. Frequentavo le scuole elementari e leggevo le memorie dei partigiani; ho la sensazione che ci fosse anche la prima edizione del libro di Primo Levi, ma non me lo ricordo con esattezza.
Poi c’era mia nonna Foa, che era un po’ cinica, e mi diceva “Eh, con quel naso, i nazisti ti avrebbero mandata subito ad Auschwitz!” Mia nonna era molto laica, anzi, secondo mio padre assolutamente atea, un po’ meno mio nonno. Ma qualcosa sicuramente era passato sia a me che a mio fratello, che trascorrevamo un mese l’anno dai nonni: io a giugno, mio fratello a settembre, quindi lui passava le feste. Poi raccontavano le vicende del ‘38 (le leggi razziali) e tutto ciò che era successo, in particolare mia nonna amava raccontare.
Ricordo che mio nonno il venerdì sera ci metteva le mani sulla testa e ci dava la benedizione. Mio padre mi ha detto che glielo aveva chiesto lui e non si è mai spiegato perché un giorno avesse avuto l’impulso di chiedergli di benedirci. Noi all’inizio eravamo molto stupiti. Sia io che mio fratello. Ci siamo poi confrontati perché è successo in tempi diversi. Ricordo lo stupore per questa lingua che non capivamo, ci veniva quasi da ridere, però poi ci è piaciuto molto: ricordo molto bene le mani del nonno sulla mia testa.
La mia mamma non era ebrea. Anche se lei, in un libro di memorie, sosteneva di essere ebrea, perché suo padre era sardo e Giua era un nome facilmente interpretabile come di origine ebraica: ipotizzava un’antica discendenza ebraica che contrapponeva a quella, secondo lei, cazara di mio padre. Era un’ipotesi storicamente non sostenibile ma lei si sentiva l’unica ebrea della famiglia, pur non essendolo. Mia madre comunque non era nemmeno cristiana, nel senso che non era stata battezzata.
I miei nonni materni erano vecchi socialisti, li aveva sposati civilmente a Roma il sindaco Nathan. Forse mio nonno era stato battezzato, mia nonna non credo, perché sua madre era suffragetta e suo padre era un deputato socialista.
Per capire il contesto culturale da cui provengo bisogna andare alla Roma del Sindaco Ernesto Nathan (rivestì la carica dal novembre 1907 al dicembre 1913), al mondo dei primi socialisti che avevano una visione laica e anticlericale.
Quando hai potuto iscriverti alla Comunità ebraica di Roma?
Dopo aver fatto fatto una conversione formale nelle mani del rabbino Elio Toaff: avevo circa 42 anni, e feci tutto il percorso di studi necessario. A quel punto mi sono potuta iscrivere in quanto ebrea alla comunità ebraica di Roma.
Da che cosa è stata motivata la tua scelta?
Io dicevo e sentivo dentro di me che mi ero sempre considerata ebrea per poi scoprire che per i rabbini non lo ero. E questa era una grande ingiustizia. Inoltre, era un modo di confrontarmi col mio passato; sicuramente hanno anche influito amicizie con studiosi israeliani. Poi avevo bisogno di regole che non avevo mai sentito in casa, perché la mia era una casa molto sessantottina: confrontarmi con le norme mi sembrava una cosa importante, indipendentemente dal fatto che non credevo in Dio e non ci ho mai creduto. Ero convinta della mia scelta e, quando facevo la conversione, nessuno mi ha chiesto se credessi in Dio. Qualcuno sostiene che era sottinteso ma non ne sono convinta. Ricordo una domanda: qual era secondo me il senso della Pasqua? Io ho detto la libertà.
Una volta ne ho discusso con Natalia Ginzburg: eravamo sedute sotto l’ombrellone sulla spiaggia di Sperlonga, dove lei e mio padre si vedevano d’estate. Natalia era molto curiosa di questo mio percorso religioso. Studiavo, perché immersa nella mia scelta, e lei mi disse: “Ma allora tu credi in Dio?” Risposi: “No, che c’entra?” E lei, stupita: “Come, che c’entra?”. Risposi che secondo me le due cose non erano necessariamente in relazione.
Immagino il dolore che probabilmente hai provato per gli attacchi recenti da parte della Comunità romana per le tue prese di posizione riguardo alla guerra di Gaza ma mi chiedo se già da prima la tua appartenenza alla Comunità fosse accettata senza riserve.
Mi spiego meglio: la Comunità gradiva la tua appartenenza nel momento in cui eri solo una storica illustre?
Entro certi limiti. Perché, nonostante io avessi fatto una serie di cose, avessi lavorato con l’Unione, ai tempi di Guido Fubini ero con lui nella redazione della Rassegna mensile di Israel, avessi tenuto dei corsi di storia, tante collaborazioni con l’Unione, con Pagine ebraiche, col CDEC, ho sempre avuto la sensazione di essere intesa come qualcuno fondamentalmente estraneo.
Credo che sia soprattutto un fatto sociale, culturale: cioè, in comunità sei figlio di qualcuno. “A chi sei figlia?” mi è stato chiesto una delle prime volte che sono andata a ascoltare un dibattito a Roma: a me è sembrato molto strano che chiedessero “a chi sei figlia?” Era un mondo completamente diverso dal mio.
Quando sono arrivata per la prima volta in Israele, per poi starci una volta per due mesi e successivamente per periodi più lunghi, mi sono resa conto che tutti gli amici che mi ero fatta non erano religiosi e che erano più affini al mio modo di pensare politico e culturale.
Questa constatazione ha determinato il mio allontanamento da quel minimo di osservanza che ho avuto per un certo periodo: perché non puoi fare un percorso di conversione senza diventare in parte almeno osservante. Non sono mai riuscita a osservare completamente uno shabbat rispettando tutte le regole: non potevo, forse una sola volta l’ho fatto in modo rigoroso e poi… mi volevo suicidare. A parte questo, in qualche modo mi sentivo più vicina alla Comunità, ma contemporaneamente sentivo che per loro non era così. A Roma le persone che frequentavano la sinagoga mi erano per lo più estranee, tranne naturalmente alcune persone per me eccezionali.
Ero un elemento alieno. Alla fine degli anni ‘80 per un periodo sono andata a lezione di Talmud da Giacoma Limentani. E Giacoma raccontava che quando sua madre era venuta a Roma, non mi ricordo da dove proveniva, si era sentita straniera e che nel ghetto le pareva che le pietre stesse le fossero estranee. Si può parlare ancora di ghetto? Secondo me sì, è proprio chiuso, ci sono delle barriere invisibili.
Per capire meglio, quindi, allora da un lato il senso di estraneità rispetto alla comunità ebraica di Roma e mi è chiarissimo, in Israele ti sentivi una diversa come?
Sentivo che i religiosi non condividevano con me nessuna delle mie visioni, tranne pochi: c’era, per esempio, una straordinaria bibliotecaria di Monte Scopus, Daniela, che frequentavo ed era religiosa. Purtroppo, è morta molto giovane. Lei era molto aperta, ma la maggior parte dei religiosi erano di un altro universo rispetto a me. Avevano delle idee sul mondo, sulla vita, sulla cultura completamente diverse dalle mie. Invece quelli che avevano le mie stesse idee erano laici. Questo mi ha fatto capire moltissimo del mio rapporto con la religione: erano laici, però la radice ebraica era forte, si sentivano profondamente ebrei ma erano convinti nel rifiutare qualunque tipo di ortodossia. Fu in Israele che capii che c’era una separazione netta, che la religione non era un fattore di apertura, ma un fattore di chiusura. Cioè imparai a essere totalmente laica in Israele, laica senza sensi di colpa.
Non sopportavo la chiusura, perché la maggioranza dei religiosi tranne poche eccezioni, era terribile, aveva una visione del mondo di chiusura totale, parlava dei goim come se fossero dei mostri, tutti antisemiti. Non conoscevano nulla della cultura “laica”. Fa impressione pensare che ora costituiscono praticamente la metà della popolazione israeliana.
Una trasformazione analoga, in parallelo, avviene nella società ebraica italiana.
Sì, la tendenza è di appiattirsi su Israele, questo è il punto: sembra l’unica sicurezza. Gran parte degli ebrei è convinta che il mondo le sia ostile: io questo non lo credo. Anzi, diciamo che gli ebrei hanno avuto un momento di sovraesposizione: negli ultimi 20 o trent’anni si è parlato praticamente solo di ebrei, in modo molto superiore al loro numero effettivo. Eppure, si sentono perseguitati.
Mi riferisco soprattutto a quelli che appartengono alla destra politica: l’unica sicurezza che hanno è Israele, che poi non mi sembra un paese così sicuro! Mio padre una volta venne a trovarmi quando io ero in Israele. Mi disse: “Io non capisco quelli che dicono che l’esistenza di Israele dà sicurezza agli ebrei. Mi sembra molto più pericoloso stare qui che stare in Italia”.
È un fenomeno che andrebbe analizzato in profondità: noi che abbiamo vissuto abbastanza abbiamo assistito a delle trasformazioni incredibili che mi lasciano attonita. Mi chiedo quale sarà lo sbocco, spero che non sia uno sbocco tragico, però.
È impressionante sia dal punto di vista ideologico che comportamentale. Io sono molto colpita, per esempio, da quel che è successo in relazione alla morte del Papa.
Anch’io sono molto colpita, ne ho scritto per La stampa.
Cancellare le condoglianze è una cosa che non si è mai vista al mondo (Le condoglianze espresse dagli ambasciatori di Israele sono state in un primo momento ritirate, per essere poi inviate il giorno del funerale).
Non si è mai vista una cosa del genere, è orripilante. Tant’è vero che il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, addirittura andrà al funerale di sabato e questo mi fa piacere.
Dimmi due parole su Papa Francesco.
Ho detto, forse in un’intervista sull’Unità, che era un uomo sorridente: per me la definizione significava che aveva un atteggiamento sorridente verso il mondo. È stato un Papa che ha portato molto alla Chiesa e non solo.
Papa Francesco era un uomo che veniva dal Terzo Mondo e aveva un’origine popolare che si faceva sentire nel suo approccio. Molto diverso da Ratzinger, il papa precedente, uno studioso raffinato. Sicuramente ha fatto cose importanti e altre non le ha fatte. Ha avuto anche degli aspetti contraddittori, non è necessario essere d’accordo su tutto con lui, su molte cose puoi non esserlo.
Trovo invece indecorose le accuse al Papa di antisemitismo, quando lui ha detto che bisognava approfondire la questione del genocidio: queste accuse provenivano non tanto dal mondo ebraico, ma da ambienti filoebraici e, soprattutto, filoisraeliani. Perché non approfondire? Se c’è una questione la discuti, la affronti, no? Però se un Papa dice che una questione va approfondita non vuol dire che sia antisemita.
Ragionare su Israele nell’era dei social, non importa se con critiche o a suo sostegno, crea sempre molti strascichi e polemiche internamente ed esternamente all’ambiente ebraico. Qual è il criterio che tu adotti per decidere come intervenire?
Per me il discrimine non è il timore di peggiorare le cose o esprimersi per liberare la nostra coscienza, ma pensare all’utilità di quello che scriviamo. Il rapporto con la nostra coscienza diventa secondario di fronte alla sofferenza e alla morte di tante persone. Se pensiamo però che la nostra denuncia possa essere utile nel dibattito, possa modificare qualcosa, allora vale la pena di parlare. Io non credo che nascondere le cose per non aggravare le situazioni sia di per sé buono.
Bisogna fare attenzione a come le cose che diciamo possono essere capite. Devo pensare se con le mie parole spingo verso la disperazione oppure verso un tentativo di reazione attiva.
La discussione sull’uso del linguaggio è molto difficile da comunicare: Liliana Segre ne è un esempio. Ha subito attacchi indegni perché non si è voluto capire il suo ragionamento: quello che le hanno detto, è indecoroso. Vergognoso che una persona della sua età, dopo quello che ha vissuto e che ha fatto debba sentirsi fare certe accuse, oltretutto anche false: le attribuiscono cose che non le appartengono. Tra l’altro lei ha detto una cosa importantissima che nessun esponente delle Comunità ha detto: ha parlato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma i titoli dei giornali non riportavano “Liliana Segre dice che sono crimini contro l’umanità” bensì “Dice che non si può definire genocidio” scatenando così gli odiatori seriali.
E qui entriamo nella situazione che si è creata dopo la pubblicazione del tuo libro “Il suicidio di Israele” e della firma sull’appello dei 200 ebrei italiani, di cui si è parlato anche nel numero di HaKeillah di marzo. Ampie parti della comunità ebraica romana e italiana ti hanno attaccato violentemente dopo l’uscita del tuo libro, ti aspettavi questa reazione così violenta? Come ti spieghi questi attacchi?
Come si sono comportate le istituzioni ebraiche? Ti sei sentita difesa?
Non mi piace il ruolo di vittima, per cui ho un certo pudore a raccontare alcuni episodi molto spiacevoli. Però trovo anche giusto denunciare un clima che mina profondamente l’idea di democrazia. Sicuramente sono considerata una traditrice e ho ricevuto molti attacchi dopo la pubblicazione del libro e l’adesione all’appello dei 200.
Io ero certamente preparata a una reazione durissima, ma non mi aspettavo che fosse sulla parola suicidio: evidentemente la gente non sa più leggere, sempre che, visto il titolo, abbiano anche letto il libro. La cosa stupefacente è che la parola suicidio io l’ho presa proprio da Israele, dove tanti articoli alludono a questo. Tante persone parlano di suicidio. Una volta, parlando con degli amici israeliani che mi dicevano, “è un suicidio”, ho esclamato:” ecco il titolo per il mio libro!”.
Sono rimasta sorpresa dalle reazioni, anche perché nessuno che abbia un minimo di cultura può pensare che scrivere Il suicidio di Israele significhi auspicarlo: per me il problema era invece come fermarlo!
Comunque, ero preparata alle critiche ma non a una campagna di insulti.
Su molti social è girato un video veramente feroce e virulento contro di me: se posso provare a capire la sofferenza emotiva di chi l’ha prodotto e fatto girare non posso accettare che R.P., ex presidente della Comunità ebraica di Roma mi abbia mandato un messaggio su Whatsapp in cui diceva: “Tu devi chiedere scusa con umiltà all’autrice del video”. E due giorni dopo mi è arrivato un messaggio uguale. Io non ho risposto e ho chiuso l’accesso al mio Whatsapp perché mi è sembrata una richiesta indecente.
Un altro episodio che spiega bene il clima che si sta vivendo è il seguente: il libro di Gad Lerner, Gaza – odio e amore per Israele, il libro di suo figlio Davide, Il sentiero dei dieci – una storia fra Israele e Gaza e il mio erano stati all’inizio banditi dalla libreria ebraica di Roma. Un mio amico ebreo era andato a chiedere i libri e la libraia gli ha risposto che, per motivi ideologici, avevano deciso di non prendere questi tre testi. Capisci? Allora Gad Lerner si è rivolto direttamente al rabbino e al presidente della Comunità: dicono che poi il libro sia apparso… Non ho avuto modo di verificare personalmente.
Ritieni che ci sia un problema di democrazia all’interno del mondo ebraico?
Sì, decisamente: c’è un assoluto problema di democrazia ormai da due o tre anni, e un esempio evidente è il cambiamento avvenuto nel giornale Pagine ebraiche.
I miei contrasti con la comunità e con l’Unione coincidono con questo periodo: da tempo sono nel comitato scientifico di Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide) e, tra le altre attività, si era deciso di creare un Giardino dei giusti dell’umanità.A Roma, dove avevamo iniziato a fare il progetto, nel comitato c’era anche il rabbino Di Segni, c’erano varie persone, c’era Flick, già Presidente della Corte Costituzionale con cui io continuo a confrontarmi ogni tanto: a un certo punto la Comunità ha deciso che gli unici giusti erano quelli che salvarono gli ebrei, che non si poteva usare il titolo “giusti” e quindi ha sabotato in tutti i modi il giardino.
Le autorità comunali hanno avuto paura di eventuali polemiche con la Comunità e si sono schierate con lei. Abbiamo parlato con Gotor, che allora era l’assessore alla cultura. Abbiamo cercato di parlare con il sindaco, non c’è stato niente da fare. Loro appoggiavano la Comunità che sosteneva che parlare di altri genocidi sarebbe stato un appiattimento della Shoah.
Quando si è innestata la questione del libro io già ero insultata e trattata male a causa di questo episodio.
Ma all’interno della Comunità di Roma non c’è una minoranza, qualcuno che si opponga?
C’è Sinistra per Israele, con alcuni elementi che sono della Comunità e che conosco, con cui ho fatto anche delle battaglie in passato e con cui ho buoni rapporti. Sinistra per Israele non viene attaccata come siamo attaccati Lerner, io e altri: siamo considerati proprio i reprobi.
Ieri, al Barberini, c’era la presentazione di un film, L’invenzione del colpevole sul caso del piccolo Simonino di Trento. Il regista, Luca Criscenti, aveva invitato alcune persone della Comunità e me, perché nel film aveva inserito alcune parti di una mia intervista. Ci sarebbe stato un breve dibattito con il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury, e Fabrizio Barca che non è un pericoloso sovversivo.
Una signora che era stata invitata, legata alla Comunità, ha detto che Anna Foa non è persona grata. Ero disposta a fare un passo indietro e ho chiesto al regista se ritenesse che la mia assenza avrebbe invogliato più persone a venire. Ha risposto che non ci pensava nemmeno, infatti il cinema si è ugualmente riempito. La signora non è venuta, io c’ero.
È stato detto esplicitamente che dove ci sono io non c’è la Comunità.
A febbraio o marzo, non ricordo, ho avuto uno scontro telefonico con l’attuale Presidente della Comunità di Roma. Sosteneva che in un collegamento con la Rai avessi detto che Il governo israeliano è nazista e che questo è antisemitismo: ho risposto che non ho detto che il governo israeliano è nazista, ho detto che è fascista. Lui continuava a insistere. A un certo punto ho replicato che se devo difendermi dall’accusa di una cosa che non ho detto… e ho chiuso il telefono.
Poi mi chiedi se c’è democrazia? No, non c’è democrazia.
È vero che ti sei iscritta alla comunità di Torino? Potresti entrare nel Gruppo di Studi Ebraici…Sarebbe bellissimo. Soprattutto perché, come dice sempre mio marito, il Gruppo di Studi ha un nome abusivo perché non si studia e l’ingresso di una studiosa come te potrebbe essere di grande stimolo.
Io sono iscritta alla Comunità di Torino e probabilmente mi iscriverò al GSE. Per ora devo prendere un periodo di riposo: dopo l’uscita del mio libro ho avuto impegni continui e sono afflitta da qualche acciacco…
Però ho anche grandi soddisfazioni: passo da una presentazione alla scrittura di articoli.
La grande sorpresa è che sono stata inserita nella cinquina del Premio Strega dedicato alla saggistica e istituito solo da quest’anno.
Naturalmente, ça va sans dire, diranno che il Premio Strega è antisemita e ci sta: uno che si chiama Strega …
Oramai sono tutti antisemiti, come Todos caballeros.
Mi dici qualcosa su HaKeillah, visto che il giornale compie 50 anni?
HaKeillah è un faro, è un faro nella notte, un faro nella nebbia. E l’ho sempre letta come un faro. E sono ben contenta che questa intervista esca per il cinquantesimo compleanno!
È rimasta un faro anche durante il periodo in cui Pagine ebraiche, Moked, erano, secondo me, interessanti, importanti e aperte a molteplici voci. HaKeillah è qualche cosa di speciale e spero che continui almeno per altri cinquant’anni.
https://www.hakeillah.com/anna-foa-la-forza-delle-idee-contro-lostracismo/