La parashà di Emòr si apre con le mitzvòt relative ai kohanìm. Sono kohanìm tutti coloro che sanno per tradizione dai loro padri e antenati di essere discendenti di Aharòn, indipendentemente dal fatto che il nome della famiglia sia Cohen, Kahan, Sacerdote, Dwek, Tawil o altro.
Quando vi era il Bet Ha-Mikdàsh, i kohanìm avevano l’incarico di presentare i sacrifici e, in certi casi, fungevano anche da giudici. Dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh per mano di Tito, ai kohanìm sono rimaste alcune mitzvòt che possono essere osservate anche oggi.
Una mitzvà relativa ai kohanìm, per la quale è responsabile tutto il popolo d’Israele anche al giorno d’oggi, è quella di “ve-kidashtò”, un’espressione che deriva dalla parola “kadòsh” e che significa “lo santificherai” (Vaykrà, 21:8). Nel trattato talmudico Ghittìn (59b) viene spiegato che dall’espressione “ve-kidashtò” si impara che in ogni occasione nella quale vi è kedushà, come quando bisogna dire la birkàt ha-mazòn (benedizione dopo il pasto), o dire il kiddùsh, bisogna offrire al kohèn di dire la berakhà.
Nel Sèfer Ha-Chinùch viene spiegato che “questa mitzvà incombe su tutti noi e non dipende dalla preferenza del kohèn”. L’obbligo di dare la priorità ai kohanìm deriva dal fatto che essi sono i servitori dell’Eterno nel Bet Ha-Mikdàsh e pertanto è dovere di tutto Israele onorarli.
La mitzvà “ve-kidashtò” è anche il motivo per cui i kohanìm sono chiamati per primi a Sèfer quando si legge la Torà (di lunedì, di giovedì, di Shabbàt e durante le feste e i giorni di digiuno). Nello Shulchàn ‘Arùkh (Orach Chayìm, 135:3) è scritto che quando si legge la Torà, prima si chiama un kohèn, poi un levita e poi gli israeliti. L’ordine non può essere cambiato, come spiega Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento al trattato talmudico Ghittìn. Quando si legge la Torà se vi sono dei kohanìm nel bet ha-kenèsset, essi devono essere chiamati per primi a leggere la Torà e non possono rinunciare a favore di altri, a meno che non escano dal bet ha-kenèsset.
Il motivo di questa priorità, quando si legge la Torà in pubblico, è “mipnè darkè shalom”, ossia per mantenere la pace nel bet ha-kenèsset. Senza un ordine di priorità si creerebbe una situazione nella quale diverse persone, ritenendosi più importanti degli altri, reclamerebbero il diritto di essere chiamati per primi a leggere la Torà e si finirebbe per creare un’atmosfera favorevole a litigi.
Un’altra mitzvà che non dipende dall’esistenza del Bet Ha-Mikdàsh è la birkàt kohanìm, la benedizione che i kohanìm danno a tutto Israele prima della fine della ripetizione della ‘Amidà che fa il chazàn. Se un kohèn si trova nel bet ha-kenèsset durante la ripetizione della ‘amidà quando il chazàn chiama i kohanìm a dare la berakhà, il kohèn è obbligato a salire sulla pedana di fronte all’aròn per dare la berakhà.
Un altro caso in cui si applica la mitzvà di ve-kidashtò, di santificare il kohèn, è quella di impedirgli di rinunciare al suo ruolo di kohèn nel caso che abbia sposato una donna che gli è proibita. Se per esempio un kohèn ha sposato una donna divorziata, è compito del Bet Din di obbligarlo a darle il ghet, il documento di divorzio.
In questa parashà la prima mitzvà dei kohanìm è quella che proibisce loro di rendersi impuri avvicinandosi ai morti. Questo è il motivo per cui i kohanìm non possono andare a visitare cimiteri. Secondo qualche autorità rabbinica (Birkè Yosef, O.C., 343:4) questa proibizione vale anche per le donne incinte, sposate a dei kohanìm. Da qui si vede che si può essere soggetti alle mitzvòt dei kohanìm anche prima di nascere!