Il padre di un eroico soldato di Golani, i grandi legami tra noi, e i miei nonni assassinati a Birkenau – quando non c’era disputa sul “criterio di ragionevolezza” ma non c’era neanche uno Stato – e voglio gridare loro “guardate che miracolo”
Kalman Liebskind – Maariv – Yom Ha’atzmaut – 2 maggio 2025
Due mesi fa mi ha telefonato un giovane parente che era immigrato dagli Stati Uniti con sua moglie. Sei mesi prima era nato Matan, il loro dolce bambino con un difetto cardiaco, e ora, con grande ritardo, dopo un intervento chirurgico e dopo essersi un po’ ripreso, gli è stato permesso di celebrare la circoncisione. “Ho bisogno del tuo aiuto“, mi ha chiesto, “Vorrei onorare come padrino un padre in lutto dalla guerra il cui figlio, caduto in battaglia, si chiamava Matan, come mio figlio”.
Due minuti dopo ero già nel bel mezzo di una conversazione con Arik Avergil, il padre di Matan, un eroico soldato di Golani caduto il 7 ottobre difendendo il kibbutz Nir Am. Matan e la sua squadra hanno combattuto contro decine di terroristi. Quando il loro veicolo blindato è stato colpito da un missile anticarro, è uscito dal veicolo e ha continuato a combattere dall’esterno. Quando ha esaurito il caricatore, è tornato al veicolo per sostituirlo.
“I terroristi hanno approfittato del fatto che le aperture del veicolo erano esposte e hanno lanciato una granata all’interno“, si legge nel sito commemorativo “Yizkor” per i caduti delle guerre d’Israele. “Matan, che ha identificato la granata, ha cercato di estrarla per lanciarla fuori, ma è rimasta impigliata in uno dei componenti del veicolo. In una frazione di secondo, con un gesto eroico e impensabile, ha deciso di salvare i suoi compagni. Si è chinato verso la granata, ha premuto il petto contro di essa girando la schiena verso i suoi compagni, e ha assorbito l’esplosione con il suo corpo. La sua ferita era mortale, e i tentativi del medico di salvarlo sono falliti. Con le sue ultime forze sussurrò ‘Ho cercato di fare tutto il possibile per proteggere il paese e i miei amici’, e pochi istanti dopo è morto per le ferite. Con il suo gesto ha salvato la vita ai suoi sei compagni“.
Arik, il padre di Matan, ha letto il mio messaggio – con la storia del piccolo Matan, e del gesto sionista dei suoi genitori che hanno lasciato le loro famiglie negli Stati Uniti per emigrare in Israele – ha risposto immediatamente con “Wow, che storia commovente e toccante“, e ha chiesto quando e dove presentarsi. Due giorni dopo lo abbiamo incontrato alla cerimonia della circoncisione. Un uomo dal volto radioso, con un sorriso che irradia bontà in ogni direzione. Un attimo prima della circoncisione del piccolo Matan, ha raccontato agli invitati la storia del suo Matan. Secondo la tradizione, alla fine della cerimonia, è rimasto seduto sulla “sedia di Elia”, e ha benedetto uno dopo l’altro i presenti.
Quando è arrivato il mio turno, ha notato l’emozione che mi aveva colto, ha tenuto le mie mani nelle sue mani calde, e ha benedetto “Che tu possa sempre conoscere la gioia, che tu possa sempre saper ridere“. Ho guardato quest’uomo grande, che un attimo prima aveva visto il suo mondo crollare quando aveva perso il suo amato figlio, e ora mi stava insegnando a gioire, e non potevo trattenere le lacrime. Che forza, che grandezza d’animo.
Il grano cresce di nuovo
C’è molto da correggere nello Stato di Israele. Non tutto è perfetto qui. C’è lavoro da fare. Ci vuole impegno. Ma un giorno all’anno, almeno un giorno all’anno, ci è permesso di mettere da parte l’occuparci del male e delle critiche e delle lamentele, anche se spesso sono giustificate, guardare intorno, e saper ringraziare per il bene. E c’è così tanto bene qui e così tante meraviglie e così tanti momenti commoventi.
Mi commuove Arik Avergil, e mi commuovono le famiglie in lutto come la sua, che nonostante la grande disgrazia che le ha colpite trovano la forza di continuare a diffondere il bene nel mondo. Mi commuove Assaf Weiss, fratello di Elon z.l., che ha creato un progetto incredibile attraverso il quale i riservisti che sono stati esonerati dal servizio tornano volontariamente e aiutano l’IDF nella sua carenza di personale, anche se non sono più obbligati a farlo.
Mi commuove Sarit Zussman, madre di Ben z.l., che insieme al rabbino Shmuel Slutzki, padre di Yishai e Noam z.l., e con Eitan Tzur, fratello di Amit z.l., hanno fondato il progetto “HaDibur” (La Parola), che cerca di insegnarci tutti a condurre il nostro dialogo in modo rispettoso. E mi commuove Mia Gazit, madre di Yahel z.l. che ha avviato un progetto in sua memoria che offre assistenza psicologica ai soldati. Non ho idea da dove queste persone traggano la forza e l’energia per dare ancora e contribuire ancora, al di là di ciò che hanno già dato e già contribuito, ma se continuano a correre avanti e a tirarci su, chi siamo noi per abbassare la testa?
Lo scorso shabbat ho incontrato al tempio un amico di 52 anni che era stato recentemente congedato dal servizio di riserva, e si è ora arruolato di nuovo con la consapevolezza che il paese ha bisogno di lui. All’inizio della settimana ho intervistato alla radio un padre di cinque figli, di 44 anni, anche lui già congedato dall’IDF. Si è recentemente iscritto a vari gruppi Telegram per cercarsi un’unità e dare ancora un po’ di contributo, e questa settimana è partito per 74 giorni di servizio di riserva al confine settentrionale. E sento di persone come queste, e sono convinto che il meglio deve ancora venire.
È esattamente questa la sensazione che ho provato quando ho visto il video che ci è stato inviato questa settimana nel gruppo dei genitori del battaglione di mio figlio, un video che documentava un altro turno di moltitudini di israeliani meravigliosi che hanno lasciato a casa mogli e figli e lavoro e si sono presentati alla chiamata perché lo Stato ha telefonato e ha detto che aveva bisogno di loro. “Siamo al quarto turno“, dice loro il comandante del battaglione dopo che hanno finito di abbracciarsi come membri della famiglia che si sono mancati a vicenda, “e vedo il vostro arruolamento, e il vostro arrivo, e sono orgoglioso delle vostre famiglie, siete le persone migliori che abbiamo nel paese“.
E penso ai miei nonni che furono gettati nelle fiamme a Birkenau, in giorni in cui non c’era certo una disputa sulla riforma giudiziaria ma non c’era neanche uno Stato, e mi viene voglia di gridare a loro lassù “guarda, nonno, guarda, nonna, avreste mai creduto lì, su quella rampa, nell’ottobre del 1944, che sarebbe arrivato un giorno in cui il vostro pronipote avrebbe impugnato un’arma e sarebbe stato un soldato ebreo, in un esercito israeliano, che difende uno Stato ebraico?“.
E mi commuove sapere che Sderot sta crescendo, e nuovi residenti vi stanno arrivando, e oggi ci vivono 1.500 persone in più rispetto a quante ne vivevano il 7 ottobre 2023. E mi ha commosso vedere Avida Bachar di Be’eri, la cui moglie e figlio sono stati assassinati, tornare su una gamba sola ai campi del suo kibbutz per seminare patate. E mi commuove seguire in rete Haim Yalin, quando riferisce di 21 nuovi bambini nati nel kibbutz nel 2024, e del primo bar mitzvà che è salito alla Torà nella sua sinagoga, e del grano che cresce di nuovo, e dei campi che si ostinano a non smettere di verdeggiare.
E mi commuovono i residenti della zona di confine che giurano ogni mattina di andare avanti con il progetto sionista che hanno intrapreso, e di non fermarsi. E mi commuove Ohad Ben Ami, che è stato liberato dalla prigionia ed è tornato per la prima volta al kibbutz da cui era stato rapito e ha dichiarato: “Voglio semplicemente tornare qui, è più forte di me ed è una vittoria“. E mi ha commosso vedere il matrimonio che si è tenuto nel kibbutz Be’eri, vicino alla sala da pranzo, quando un figlio del kibbutz ha sposato una figlia di Har Bracha, in un matrimonio che ha unito religiosi e laici, coloni e membri del kibbutz.
E in generale, mi commuovono i nuovi legami che la guerra ha creato, una guerra che nessuno di noi ha invitato e nessuno di noi ha voluto. Mi commuovono i membri del kibbutz che sono andati a Otniel nei monti di Hebron per piantare alberi dai loro fratelli dall’altro lato della Linea Verde. E mi commuove il legame tra Yizhar Lifshitz di Nir Oz, il cui padre Oded è stato assassinato, ed Eliyahu Libman di Kiryat Arba, il cui figlio Elyakim è stato assassinato. E mi commuovono gli incontri di cui ho sentito parlare recentemente tra la gente di Kfar HaOranim e la gente di Talmon. E mi ha commosso l’incontro con i rappresentanti del Consiglio dei Movimenti Giovanili – rappresentanti di centinaia di migliaia di giovani, da Benè Akiva, attraverso il Movimento Giovanile dei Lavoratori e degli Studenti, fino a HaShomer HaTzair – e vederli collaborare in modo così naturale.
E mi ha commosso un amico d’infanzia di Tzofar, il cui figlio è caduto in guerra, e mi ha raccontato come il suo moshav dal deserto dell’Arava e l’insediamento di Eli dalla Samaria hanno scelto di rafforzarsi a vicenda, quando questi inviano dolci a quelli, e quelli mandano coccole a questi. Si sono trovati d’accordo sulla questione del criterio di ragionevolezza o sulla necessità di cambiare la composizione del comitato per la selezione dei giudici? Non ne sono sicuro. Ma nel momento della verità si sono ricordati che dopo tutte le discussioni, e forse molto prima di esse, c’è tra loro una fratellanza di fratelli.
E mi commuovo quando ricordo quel video che ho visto in uno di quei pomeriggi, dove un padre in lutto dall’inizio della guerra si è filmato mentre andava a consolare nuovi genitori in lutto, e ha trovato una tenda di consolazione vuota. Ho chiuso il computer, mi sono affrettato a Holon, all’ingresso della strada mi sono sentito parte di un grande flusso, e un momento dopo, quando siamo arrivati tutti alla tenda, ho visto lì centinaia di israeliani meravigliosi che erano venuti a mettere una mano sulla spalla di una madre che non conoscevano, che piangeva suo figlio di cui fino a poco prima non conoscevano il nome. E vedi questo enorme gruppo e sai che andrà tutto bene. Che con forze del genere, non c’è altra possibilità.
Il prezzo della sovranità
E questo non cancella la divisione interna che esiste tra noi, ma la mette nella giusta prospettiva. Ci sono divisioni in noi, ma ci sono molti più legami tra noi. E contrariamente a quanto si evince dalle trasmissioni televisive e radiofoniche, questi legami non fanno che rafforzarsi. E sì, ci sono risse nella Knesset, e vi partecipano persone che tutti noi abbiamo scelto per rappresentarci, ma chiunque pensi che esse riflettano la realtà per quello che è, si chieda se ha esperienza della forza di queste risse e questa gioia di contesa anche nell’angolo caffè del suo posto di lavoro.
E sì, ci sono discussioni, ed è importante che continuiamo con esse, perché non c’è altro modo per chiarire la strada giusta da percorrere, ma una discussione non è necessariamente una lite, e una discussione non deve venire con l’odio. Una discussione può venire con rispetto reciproco, e con la comprensione che tutti vogliamo il bene per questo paese, e che siamo divisi sul modo giusto per raggiungere questo bene.
E ci sono difficoltà che non si possono cancellare, e ci sono prezzi che non si possono ignorare, e si scopre che la sovranità ebraica di cui abbiamo sognato per duemila anni ha un prezzo molto alto. A volte lo pagano i residenti del sud e a volte i residenti del nord, a volte la gente di Giudea e Samaria e a volte la gente di Tel Aviv, ma l’alternativa a questa sovranità l’abbiamo provata e non abbiamo voglia di provarla di nuovo.
E come ho già scritto qui più di una volta, ogni volta che mi sento un po’ in difficoltà, e ogni volta che devo ricordare quanto è grande il miracolo dello Stato di Israele, penso a mio padre, che fino al 1945 fuggiva dalle grinfie dei nazisti sul suolo europeo, e tre anni dopo fu tra i primi a unirsi alla brigata Golani. E a mia madre, che alla fine della guerra fu liberata da Mauthausen quando era affamata di pane, e tre anni e mezzo dopo fondò qui uno Stato.
E penso a quella gita che abbiamo fatto con i bambini – il Giorno della Memoria per i caduti dell’IDF, quando erano piccoli – su quella collina che fu conquistata durante la Guerra d’Indipendenza da un’unità militare guidata dal comandante Biton, che era immigrato dal Nord Africa, e sotto il quale combattevano i suoi soldati che erano appena arrivati dall’Europa, e per farsi capire da loro – imparò come gridare loro ordini in yiddish. Cosa pensate, ho chiesto lì ai bambini, in una realtà normale si può vincere così? In una realtà normale si può fondare uno Stato così?
Innumerevoli sfumature e colori
È naturale che il bene a volte sia evidente e visibile a tutti, e a volte bisogna mettersi sotto per riconoscerlo. E noi, dopo 77 anni di indipendenza – con i problemi e le difficoltà, con i feriti e i morti, con le discussioni e i disaccordi, con i caduti e i rapiti per il cui ritorno preghiamo – non possiamo non riconoscerlo. Non possiamo non notare lo spirito israeliano, non possiamo non notare lo “stare insieme come fratelli“, non possiamo non notare il meraviglioso raduno degli esili che ha portato qui i membri della nostra famiglia in una casa che non ha eguali nel mondo.
Queste parole, parola per parola, Dio mi è testimone, le avrei scritte sotto qualsiasi governo. La stessa preghiera, “Manda la Tua luce e la Tua verità ai suoi capi, ai suoi ministri e ai suoi consiglieri“, l’ho rivolta a Colui che siede nell’alto, chiunque fossero i suoi “capi”, chiunque fossero i suoi “ministri”, chiunque fossero i suoi “consiglieri”. Non abbiamo fondato lo Stato per un partito o per un altro, e non smetteremo di celebrare il suo grande miracolo a causa delle azioni o delle omissioni di questo o quel deputato. A volte abbiamo un desiderio infantile che tutti siano come noi, che tutti pensino come noi, che tutti si comportino come noi.
Ma la debolezza dell’insalata israeliana, che ha innumerevoli colori e sfumature, è anche la fonte della sua forza. Abbiamo il dovere di trovare il modo di assemblare questo grande puzzle in un’unica opera in cui non c’è nemmeno una parte che non sia al suo posto. È difficile, è complesso, ma non c’è altro modo. Ora va bene. E andrà ancora meglio. ’Od yoter tov.