Fiona Diwan – Giornalista
“E fu al termine di due anni che il Faraone fece un sogno…”. Così inizia la parashà, e Rashi traduce Mikketz come “la fine di“, ovvero con l’idea che è avvenuta la fine di un blocco durato due anni, una stagnazione sta volgendo al termine. Di che cosa si tratta? È la hybris di Yossef che è finalmente piegata? È il suo senso di onnipotenza che si smorza finalmente grazie al supplemento di pena, agli ulteriori anni di prigionia nella fossa del faraone? Yossef ha imparato la lezione? Sì, suggerisce Rashi. In questa grandiosa parashà i temi si dipanano numerosissimi, quello della gratitudine e del ridimensionamento dell’ego, il tema del dono, della messa alla prova e del perdono, del rancore che cede all’emozione, dei fratelli ritrovati e accolti ma solo dopo una teshuvà avvenuta.
Siamo nella decima parashà della Genesi, una delle più lunghe e dense, che cade tradizionalmente con Chanukkà, come avviene quest’anno.
Nell’antefatto incontriamo i temi della maldicenza e della vanagloria. Rashi ne sottolinea l’importanza: Joseph viene punito con 12 interminabili anni di prigionia nelle celle di Faraone per aver commesso il peccato di delazione, per aver parlato male dei propri fratelli a Yaakov, il loro padre, per averli messi in cattiva luce presso di lui al fine di sembrare più virtuoso e meritevole del suo affetto. Rashi dice, testualmente: Le brutte dicerie sul loro conto, poichè Yossef vedeva il male nei suoi fratelli, i figli di Lea, e andava a riportarlo al padre. Ne denunciava le trasgressioni ovvero che mangiavano carne presa da animali ancora vivi, che insultavano i figli delle schiave chiamandoli “servi”, che commettevano azioni immorali e atti impuri di varia natura. Viene imprigionato per 12 anni proprio per scontare queste mancanze.
Come suo padre Yaakov, anche Yossef è un “uomo dei sogni”, la sua dimestichezza con gli abissi psichici e la dimensione inconscia, la sua capacità di mettersi in relazione con il nascosto sono determinanti nella sua avventura spirituale. Il giacimento da cui attingere è quello della forza interiore; ciò che è celato va disvelato e interpretato, il linguaggio dei sogni rimanda esattamente a questo, alla dimensione metaforica e allo sforzo da compiere per esplicitarli, renderli intelligibili.
C’è uno sciame onirico, una foschia di visioni alla base di questa vicenda: tutto inizia con dei sogni, sembra dirci il racconto di questa Parashà, nei sogni è celato il disegno divino, l’esilio, la persecuzione, la liberazione, ciò che muore e ciò che rinasce. Nella nebulosa del sogno c’è la risposta, a patto che si sappia coglierla e soprattutto usarla, farla propria, estrarne il senso, mettendosi in collegamento con le energie trascendenti. Yossef sa farsi tramite, canalizza ciò che viene dai Cieli; in merito, Rashi ci fa notare l’uso della parola bileadai, non sono io, la saggezza per interpretare i sogni non è mia, ma è Dio che metterà sulla mia bocca le parole giuste… Intrepretare i sogni è un dono, non sappiamo da dove viene, è un mistero, viene dai Cieli, appunto.
Vale per Yossef, valeva per suo padre Yaakov-Israel, in un parallelismo di destino tra padre e figlio che non può non saltare agli occhi e non a caso Rashi elenca le ragioni che fanno di Yossef il vero continuatore-discendente di Yaakov. Le similitudini abbondano, dalla somiglianza fisica alle vicissitudini affettive e famigliari: entrambi odiati da fratelli che vogliono ucciderli, entrambi sognatori, entrambi nati da madri non feconde e che hanno problemi di gravidanza, entrambi esuli e fuggiaschi senza un soldo in tasca che tuttavia finiscono per avere successo e che si arricchiscono lontano da casa, entrambi morti in Egitto. Infine, entrambi dotati di una prodigiosa capacità di cogliere i segni.
Ma veniamo al racconto: sapevamo che Yossef viene venduto come schiavo dai fratelli, che giunge in Egitto, che il tempo scorre mentre giace nelle fosse d’Egitto… Ed ecco la svolta del destino, l’uscita di prigione, la corte e la sala del trono, gli onori, la carica di vicerè… E poi, ancora un altro colpo di scena, un altro rovesciamento repentino: i fratelli davanti a lui, ignari di chi hanno davanti, e Yossef attonito che li riconosce immediatamente mentre l’emozione lo travolge: loro non sono cambiati, all’epoca erano già degli adulti con la barba mentre lui era poco più di un ragazzo imberbe. Rashi spiega in modo diretto e semplice, come sempre: sono passati molti anni, Yossef ora è un uomo, è vestito alla moda egiziana, indossa il carisma del suo ruolo e ormai nulla lo collega più al giovane vanitoso ed egocentrico di un tempo, a quel mix di timidezza e presunzione che guidava le sue azioni di adolescente in cerca di attenzione. Ma Yossef è rimasto, ieri come adesso, un sognatore che abita un mondo interiore ricco, meno terreno e più trascendente rispetto a quello dei fratelli. È grazie a questa qualità che riesce a intrepretare i sogni delle sette vacche sazie e grasse uscite dal fiume Yeor (il Nilo) e subito inghiottite dalle sette vacche smunte e magre, il sogno delle sette spighe belle e gonfie che vengono inglobate dalle sette spighe sottili e rinsecchite, riarse dal qadim.
Rashi aderisce alle parole del racconto, la sua testualità assoluta scolpisce il senso: così, ad esempio, Rashi ci fa notare che il capo coppiere, mentre si ricorda di Giuseppe e lo segnala al Faraone, ne parla in termini dispregiativi e pieni d’ingratitudine (“Ora era con noi un ragazzo, un ebreo, uno schiavo del capo delle guardie; noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò…”). Rashi sottolinea i termini ingiuriosi usati dal capo coppiere: un ragazzo, ovvero uno sciocco inadatto a occupare un alto incarico; un ebreo, ovvero uno che non conosce la nostra lingua; uno schiavo: secondo le usanze egizie uno schiavo non poteva comandare né indossare abiti principeschi. Il capo coppiere è abitato dall’ingratitudine, teme il carisma di Yossef e che questi possa acquisire potere o fargli le scarpe, per questo lo sminuisce e lo denigra; ma nel contempo vuole compiacere il Faraone, farsi bello ai suoi occhi e risolvergli il problema dei sogni.
Il modo di procedere di Rashi tende a far “esplodere” il testo a partire dall’uso delle parole stesse, con un’interpretazione mai arbitraria o gratuitamente affabulatoria. Le vacche di bell’aspetto e le spighe grasse vengono inghiottite da vacche magre e da spighe rachitiche che tuttavia non ingrassano e restano brutte e magre: “Poi a questi succederanno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quella abbondanza nel paese d’Egitto e la carestia consumerà il Paese ”. E’ la memoria stessa dell’opulenza e della pienezza che viene spazzata via dalla fame, inghiottita dal bisogno e dalla carestia: questo è il senso dell’inghiottimento, spiega Rashi. Anche nella vita non accade forse che gli anni buoni, gli anni di sazietà e letizia vengano inghiottiti da un presente gramo fino quasi a cancellarne la memoria? Il ricordo della felicità passata non sempre aiuta a vivere un presente difficile, anzi, a volte ne amplifica la pena; ecco perché un sano esercizio della gratitudine dovrebbe far sì che si metta “legna in cascina”, ovvero che dell’abbondanza passata si faccia tesoro e nutrimento spirituale, al fine di affrontare gli inevitabili momenti grami.
Leggere Rashi è una grande avventura del significato: un altro esempio? “Intanto la carestia era su tutta la faccia della terra. Allora Yossef aprì tutto in cui vi era grano e ne vendette agli egiziani…”. Rashi spiega: la carestia era su tutta la faccia della terra… Che significa? Che la carestia era giunta anche nelle case dei benestanti e dei possidenti, che iniziava a infierire sui ricchi notabili che sono la faccia della terra, poichè chi mostra la faccia è in genere chi è allegro e satollo, mentre chi è deprivato di tutto e non possiede nulla nasconde la faccia perché si vergogna davanti agli altri.
Alla fine della parashà, la narrazione vuole evidenziare che la lunga serie di sfortunati eventi, la fine (Mikketz) delle disavventure e avversità patite da Yossef e la sua strabiliante ascesa alla leadership d’Egitto, l’impero più potente del suo tempo, altro non hanno come obiettivo che quello di far convergere “tutta la Terra verso Yossef” e di preparare così la riunificazione della famiglia d’Israel (Rashi sottolinea pertanto l’uso rivelatore della preposizione el in questo versetto al posto della preposizione min (vekol haaretz bahu mizraima lishbor el Yossef…, da tutte le nazioni vennero in Egitto per comprare a Giuseppe, perché la carestia era grave in ogni paese. 41.57). Tutte le nazioni vanno a Yossef, verso Yossef, lo scopo è appunto far convergere tutti gli eventi verso di lui: Rashi fa così notare l’irrompere di un disegno superiore sulla scena della storia, l’azione di una forza più grande e misteriosa nel divenire dei fatti della vicenda umana ed ebraica.
La seconda parte della parashà è dedicata all’incontro tra Giuseppe e i suoi fratelli, al turbamento e alla messa alla prova, allo choc del ritrovarsi e alla verifica di una reale teshuvà da parte dei fratelli prima di accordare loro il perdono. Curiosamente, tutta la prima parte del racconto di Miketz sembra voler convergere verso l’esito finale, quello del ritrovamento di una unità infranta. Una riconciliazione possibile a patto, tuttavia, che un cambiamento profondo sia avvenuto nell’anima dei fratelli e che il rancore dei figli di Lea nei confronti dei due figli di Rachel sia estinto. Per questo Yossef farà imprigionare il fratello Beniamino: vuole vedere fino a che punto i fratelli sono disposti a battersi per difendere, anima e corpo, l’altro figlio di Rachel, il più piccolo, e di non fargli patire il destino che ha patito lui stesso.