Mirella Serri | 09-10-2023
Pubblichiamo di seguito il discorso tenuto dal Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni in apertura del convegno internazionale “New documents from the pontificate of Pius XII”.
Prima di entrare nel merito del tema dell’iniziativa, Rav Di Segni ha sottolineato come questa, pur programmata da tempo, cada in un giorno molto triste, a causa dell’attacco ad Israele: per questo i nostri pensieri sono lontani e non manca una grande preoccupazione per ciò che sta avvenendo.
Desidero portare il mio saluto a questo importante convegno, ringraziando gli organizzatori e i relatori per questa realizzazione, la cui importanza non deve essere sottovalutata. Questo è, e dovrebbe essere, un convegno storico e scientifico. Ma non possiamo ignorare che l’oggetto di studio non è quello di un periodo storico lontano nel tempo, nel luogo, nelle persone. È vero, sono passati decenni, ma la memoria resta viva, non è ancora sublimata in storia, è carica di emozioni, una ferita aperta nei sopravvissuti e trasmessa ai loro discendenti, in particolare a coloro che vivono in questa città. Proprio oggi, in data ebraica, 24 di Tishri, è esattamente il giorno in cui 80 anni fa il treno dei deportati del 16 ottobre arrivò ad Auschwitz e 800 persone selezionate andarono nelle camere a gas; e il martirio degli ebrei romani è solo un piccolo campione tra i milioni di persone toccate da questi fatti.
Gli illustri relatori di questo convegno non hanno certamente bisogno di lezioni di metodo. Piuttosto, molto più che loro, sono le persone come me che seguono i lavori che dovranno fare in questi giorni delle distinzioni essenziali. La prima è tra emozione e storia, analizzare i dati per quelli che sono, riuscire a trovare quel giusto distacco che serve in ogni ricerca obiettiva.
Un’altra distinzione riguarda i diversi piani coinvolti. C’è la dimensione religiosa, con le responsabilità del vertice di una grande religione, che è diversa, per quanto sia storicamente ad essa legata, dalla dimensione politica, la conduzione di uno stato tra i grandi eventi della storia e le innumerevoli microstorie di sofferenze individuali; c’è il piano diplomatico, con le sue regole e procedure, che ha giocato un ruolo non indifferente negli avvenimenti; e c’è il piano morale, il giudizio che coinvolge una suprema autorità religiosa e l’istituzione stessa che guidava. I risultati delle ricerche che verranno presentati ci faranno capire meglio quello che è stato fatto o fatto in modo inadeguato, e quello che non è stato fatto e quali erano i criteri che orientavano le scelte. Saranno molti tentati a concludere che quindi ha fatto bene, o quindi ha fatto male, che non poteva fare altrimenti, oppure poteva fare molto di più, che era mal consigliato, o che era ben consigliato. Lo storico ci aiuterà a capire l’inquadramento e lo svolgimento delle vicende, ma il piano della morale è diverso.
In particolare, c’è un’altra distinzione da fare, che nasce dal problema della contestualizzazione. È chiaro che il mondo è molto cambiato da allora e tra le tante cose sono cambiati radicalmente i rapporti tra cristianesimo e ebraismo. Allora non c’era il dialogo e la chiesa non amava gli ebrei; è vero che l’istituzione Chiesa rigettava il razzismo biologico anche se molti fedeli l’avevano abbracciato; tuttavia la Chiesa era carica di antigiudaismo radicato nei secoli; le sofferenze ebraiche erano teologicamente giustificate, almeno un po’, evitando gli eccessi, dal fatto che gli ebrei dovevano scontare il loro delitto primordiale. Se si tiene presente questo contesto, molte cose che oggi sarebbero inspiegabili trovano un loro inquadramento. Ma un conto è la spiegazione delle dinamiche, altro conto è la giustificazione morale. Il divieto di uccidere è scolpito sulle tavole della legge da 34 secoli. Per un tragico paradosso molti degli uccisori degli ebrei professavano religioni che facevano riferimento a quelle stesse tavole.
Quando nel gennaio del 2010 papa Benedetto XVI venne in visita nella Sinagoga di Roma, ripetendo il gesto storico del suo predecessore, nel discorso di saluto dissi queste parole: “Il silenzio di D. o la nostra incapacità di sentire la Sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile. Ma il silenzio dell’uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida e non sfugge al giudizio.”
Di quale giudizio parlavo. È il giudizio di ognuno di noi, di persone comuni che sono state coinvolte dai fatti e di tanti altri che studiano la storia che si interrogano sulle responsabilità morali, che sono tanto più grandi quando si è investiti del ruolo di guide spirituali. Sono le persone di buon senso che vogliono capire, senza per questo costituirsi in una corte giudicante che emette sentenze inappellabili. Quello che tutti noi ci aspettiamo però, in questo momento particolare di grande verifica storica, è che i nostri sentimenti e ricordi dolorosi, siano rispettati e non siano offesi dalle sentenze di altri tribunali, assolutori e apologetici a ogni costo.
Il dialogo ebraico cristiano di cui si occuperà questo convegno nasce da una revisione totale di posizioni che hanno seminato sofferenze e drammi nella storia. Questa revisione è stata una crescita spirituale reciproca che dobbiamo mantenere e promuovere. Le grandi festività ebraiche che abbiamo celebrato nei giorni scorsi hanno insistito sul tema della teshuvà, che è il ritorno da una strada sbagliata. Se siamo in grado di fare teshuvà il volto divino ci illuminerà. Lo studio del passato, che non può essere cancellato, ci aiuterà meglio in questa svolta. È l’auspicio di tutti che il nostro convegno sia una tappa fondamentale di questo percorso. In questi termini auguro buon lavoro a tutti i convegnisti.