Emmanuel Levinas
Un discorso del filosofo Emmanuel Lévinas sul compito pacificatore dei monoteismi: la ricerca del legame fra gli uomini. «Penso alla vicinanza nel Mediterraneo di ebrei, cristiani e musulmani e al loro compenetrarsi storico: li accomuna il precetto di dare la parola all’altro»
Noi ebrei, musulmani e cristiani – noi altri monoteisti – siamo qui per rompere l’incantesimo, per pronunciare parole che si sottraggono al contesto che le deforma, per dire parole che cominciano con chi le dice, per ritrovare la parola che spezza, la parola profetica. La lunga collaborazione storica tra ebrei, cristiani e musulmani, la loro vicinanza geografica attorno al Mediterraneo, il loro interpenetrarsi ovunque – nel nostro mondo delle strutture omogenee, nel mondo reale che si fa gioco degli anacronismi – crea, lo si voglia o no, una comunità di fatto tra ebrei, musulmani e cristiani, anche se gravi malintesi li separano e talvolta li oppongono. Lo si voglia o no! Perché si dovrebbe non volerlo? Perché tale comunità dovrebbe costruirsi contro il consenso dei suoi membri? Ognuna delle famiglie spirituali ha insegnato al mondo l’universalismo, anche se non sempre c’è stata comune intesa sulla pedagogia. I nostri destini di fondo sono amici.
Il monoteismo non è un’aritmetica del divino. È piuttosto il dono, forse soprannaturale, di vedere l’uomo simile all’uomo sotto la diversità delle tradizioni storiche che ognuno porta avanti: è una scuola di xenofilia e di antirazzismo.
Ma prima di tutto obbliga l’altro a entrare nel discorso che lo unisce a me. C’è, qui, un punto di grandissima importanza. La logica dei greci stabilisce, come noto, un accordo tra gli uomini. Ma a una condizione: è necessario che il nostro interlocutore acconsenta a parlare, è necessario condurlo al discorso. Platone, all’inizio della Repubblica, dice che nessuno potrebbe obbligare un altro a entrare in un discorso. Aristotele dice che l’uomo che tace potrà rifiutarsi indefinitamente alla logica della non contraddizione. Il monoteismo, la parola del Dio Uno, è precisamente la parola che non può non essere ascoltata. La parola a cui non si può non rispondere.
È perché i monoteisti hanno fatto intendere al mondo la parola del Dio Uno che l’universalismo greco può operare nell’umanità e condurla lentamente all’unione. Questa umanità omogenea che si costruisce a poco a poco sotto i nostri occhi, nel timore e nell’angoscia, ma che con la collaborazione economica è già solidale, siamo noi monoteisti che l’abbiamo suscitata! Non è il gioco delle forze economiche che, unendo in tutto il pianeta razze e stati, ha creato la solidarietà di fatto, ma è l’inverso: il potere monoteista di rendere l’altro uomo sopportabile all’uomo e di condurre l’altro a rispondere ha reso possibile tutta questa economia di solidarietà.
L’Islam è prima di ogni altra cosa uno dei fattori principali della costituzione dell’umanità. Il suo compito è arduo e magnifico. Da molto tempo ha superato le tribù in cui è nato.(1) Si è diffuso in tre continenti. Ha unito numerose razze e popoli. Ha capito meglio di chiunque altro che una verità universale vale più dei particolarismi locali. Non è un caso se un apologo talmudico cita Ismael – simbolo dell’Islam – tra i rari figli della Storia Santa il cui nome venne formulato e annunciato prima della loro nascita. Come se la loro funzione nel mondo fosse stata prevista da sempre nell’economia della creazione.
Davanti alla grandezza di tale realizzazione, davanti alla sovrana collaborazione all’opera di unificazione – finalità e giustificazione di qualunque unificazione particolare -, il giudaismo non ha smesso di inchinarsi. Yehudadh Halevi, uno dei più grandi poeti e teologi che in qualità di ebreo non poteva certo rifiutare al giudaismo il diritto di primogenitura, scriveva in arabo ed esaltava la missione dell’Islam.
Questa riconoscenza è viva in ogni ebreo degno di tale nome. L’ebreo – ed è questa, forse, una delle sue definizioni – è l’uomo che le preoccupazioni e le lotte del momento lasciano comunque, in ogni istante, disponibile a un dialogo elevato, vale a dire disponibile a una parola dell’uomo all’uomo. Ma, soprattutto, l’ebreo è colui per il quale il dialogo elevato possiede per lo meno la stessa importanza determinante della lotta e delle preoccupazioni del momento. Non è pensabile che simile disposizione non possa trovare eco proprio in coloro che hanno compiuto mirabilmente il compito di cui il giudaismo è stato il primo messaggero.
Questo è quanto, in una riunione convocata da studenti ebrei – sapienti di un popolo di sapienti -, si vorrebbe dire esprimendosi sull’atteggiamento del giudaismo nei confronti dell’Islam. Il ricordo di un contributo comune alla civiltà europea durante il Medioevo, quando i testi greci penetrarono in Europa attraverso i traduttori ebrei che avevano tradotto le traduzioni arabe, può essere esaltante solo se crediamo ancora oggi alla potenza della parola senza retorica e senza diplomazia. Senza rinnegare nulla dei suoi impegni, l’ebreo è aperto alla parola e crede all’efficacia della verità.
Qualcuno dirà che si tratta di pie intenzioni e di parole generose! So che non si può più credere alle parole perché non si può più parlare in questo mondo tormentato. Non si può più parlare, perché nessuno può cominciare il suo discorso senza testimoniare immediatamente tutt’altra cosa rispetto a quanto dice. Psicoanalisi e sociologia minacciano gli interlocutori. Mentre si denuncia la mistificazione, si ha subito l’impressione di mistificare di nuovo.
Noi ebrei, musulmani e cristiani – noi altri monoteisti – siamo qui per rompere l’incantesimo, per pronunciare parole che si sottraggono al contesto che le deforma, per dire parole che cominciano con chi le dice, per ritrovare la parola che spezza, la parola che scioglie: la parola profetica.
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(1) Levinas poteva affermare questo, in un momento in cui non erano ancora apparsi così evidenti i segni di una seria involuzione operatasi nell’Islam: non possiamo ignorare gli attuali fondamentalismi che hanno generato il terrorismo. Tuttavia, non abbandoniamo la speranza che prevalgano le voci profetiche di cui egli parla (NdR)