Ripensare il Giorno della Memoria e l’arma finale di tutte le mogli – Il Foglio 15.11.23
Yasha Reibman
La ripresa dell’antisemitismo deve porci, tra le tante, una domanda. Quella che suscitano le parole di Liliana Segre, che – entrando all’iniziativa della Comunità ebraica di Milano per la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas – ha detto: “Non voglio parlare, perché altrimenti mi sembrerebbe di aver vissuto invano”. La Segre a mio avviso invita a chiederci, oltre a quali siano i pregiudizi antisemiti presenti in ciascuno di noi, se quanto abbiamo fatto finora per affrontarli sia stato adeguato o meno. Per dirla in una frase, che suona terribile anche solo pronunciarla, la giornata della Memoria ha ancora senso? O meglio, è stata finora gestita in modo adeguato? Quanto sta succedendo in queste settimane ci pone davanti alla necessità di rivedere come celebrarla? La Giornata della Memoria, focalizzata sul ricordo delle persecuzioni naziste verso gli ebrei, nasce dalla convinzione che una maggior consapevolezza delle terribili conseguenze dell’antisemitismo in Europa avrebbe portato a una immedesimazione con gli ebrei e alla conseguente riduzione dell’antisemitismo stesso. Dobbiamo chiederci se paradossalmente, al di là della nostra volontà e in modo inaspettato, non abbia portato a rafforzare un nuovo pregiudizio antiebraico. La Giornata della Memoria, raccontando lo sterminio e la deportazione, ha forse contribuito a far sparire gli ebrei come persone concrete e reali, con le proprie tradizioni, religione e usi?
La scrittrice Dara Horn in ‘People love dead jews’ racconta che ad Amsterdam, nella casa in cui si nascose Anna Frank, uno dei luoghi della memoria per definizione, la scelta di un dipendente di lavorare con in testa la kippah, il tipico copricapo ebraico, ha sollevato clamore e un lungo contenzioso all’interno dell’istituzione. Con la giornata della Memoria gli ebrei sono diventati le Vittime con la V maiuscola. Vittime inermi, la quintessenza della vittima, l’idea platonica di vittima. Non a caso, all’espressione ebraica Shoa, in Europa si preferisce utilizzare il termine Olocausto, che richiama un sacrificio religioso nel quale la vittima veniva bruciata completamente. C’è un evidente richiamo mistico nella scelta di utilizzare questa parola. In questo modo, l’immagine dell’ebreo/vittima è diventata una identità rigida rispetto alla quale ogni movimento estraneo può istintivamente essere percepito come inaccettabile e suscitare rabbia. Gli ebrei sono amati come vittime, ma tornano a essere odiati se percepiti in modo differente.
La presenza a Milano nel corteo del 25 aprile dello striscione della Brigata ebraica – in ricordo dei giovani soldati ebrei sionisti che dalla Palestina mandataria vennero a combattere nell’ambito dell’esercito inglese con una propria insegna con la stella di Davide contro il nemico nazista contribuendo alla liberazione dell’Italia – viene puntualmente osteggiata da accaniti contestatori. Chi invece ha organizzato la presenza della Brigata nel corteo aveva proprio l’intenzione di mostrare l’altro volto. Gli ebrei non sono stati vittime rassegnate, non avevano e non hanno nessuna intenzione di continuare ad esserlo. Con la nascita di Israele infatti il paradigma dell’ebreo/vittima è cambiato; se per quasi duemila anni uccidere gli ebrei era gratuito, dal 1948 vi è un prezzo da pagare.
Eppure, per i primi 20 anni questa nuova immagine, l’ebreo che lotta, è stata tollerata in Europa con simpatia, Israele esisteva pur sempre in una condizione precaria che aveva tutte le ingenue sembianze di un miracolo provvisorio. Lo Stato ebraico poteva scomparire da un momento all’altro inghiottito dai numerosi paesi arabi nemici che lo circondavano. Israele sembrava una specie di maxi ghetto di Varsavia, fiero e combattente, ma destinato a perire. Israele inoltre godeva dell’iniziale appoggio sovietico in chiave anti inglese; fu l’URSS a votare per prima a favore della nascita dello Stato ebraico alle Nazioni Unite e l’esercito israeliano nella guerra di indipendenza utilizzava armi provenienti dalla Cecoslovacchia col beneplacito di Mosca. La leadership israeliana, sebbene fosse imbevuta di ideali socialisti, decise negli anni di tenere Israele ancorata alle democrazie liberali europee e progressivamente agli Stati Uniti. Mosca in parallelo appoggiò Egitto e Siria. I partiti comunisti europei gradualmente iniziarono a sostenere le rivendicazioni del mondo arabo e palestinese.
Con la guerra dei sei giorni del 1967 questo quadro si amplificò a dismisura. Gli ebrei in carne ed ossa non erano più le Vittime, il loro posto era preso dai palestinesi. Questa diventava la propaganda in seno alla sinistra europea. Gli ebrei tornavano a essere potabili solo come vittime della Shoa, mentre da vivi si poteva tollerarli solo se accettavano di attaccare Israele, poiché ora gli israeliani erano diventati i carnefici. “Davide discolpati”. Nella sinistra scorreva l’antisionismo che si spacciava fosse cosa diversa dall’antisemitismo. Naturalmente vi fu anche una componente di sinistra per Israele e in primis è doveroso ricordare il contributo del presidente Giorgio Napolitano che riconobbe come l’antisionismo fosse un antisemitismo mascherato. Questo cortocircuito tuttavia non è stato pienamente superato e, se lo vogliamo affrontare, tanto più ora che gli studenti di seconda generazione sono sempre di più e che sentono le persecuzioni nazifasciste come qualcosa di estraneo alla propria storia, deve esser ben presente nella celebrazione della giornata della Memoria.
Dobbiamo allora richiamare le istituzioni e le scuole ad aiutare i giovani – quelli più permeabili al falso mito dei terroristi di Hamas come nuovi partigiani – a conoscere la Storia del sionismo e di Israele, la sua democrazia, la convivenza tra arabi ed ebrei? Smascherare la vergognosa falsità dell’“apartheid” israeliana? Raccontare la cacciata degli ebrei dai paesi arabi? Le persecuzioni subite nel mondo musulmano e al contempo la convivenza? Riannodare i fili del racconto dell’antisemitismo e delle sue radici (che purtroppo non iniziano né finiscono con l’odio razziale)? Quanti pregiudizi dobbiamo smantellare. Ci aspetta un lento lavoro per bonificare le parole e le immagini malate, che nel tempo si sono sedimentate nel nostro immaginario.
Potevate pensare che per poter uscire da migliaia di anni di antisemitismo bastasse qualche conferenza in cui si spalancasse uno sguardo sull’indicibile? Potevamo pensare che bastasse il racconto in presa diretta dei sopravvissuti allo sterminio nazista? Poteva bastare elencare le complicità della gente comune, dei volenterosi carnefici? Svelare il complice silenzio di chi sapeva e non ha agito? Di chi ha salvato a guerra finita i nazisti in fuga? Evidentemente tutto questo non è bastato. Se lo abbiamo pensato ci sbagliavamo, però attenzione, anche se non è stato sufficiente, è stato ed è tuttora molto prezioso. Abbiamo detto che non dimentichiamo e non lo faremo. La memoria ci serve per vivere il futuro. Liliana Segre parla spesso del futuro, ha sempre invitato a coltivare la speranza e al contempo ha sempre messo in guardia su cosa succederà quando la sua voce non si potrà più ascoltare. Dobbiamo avere il coraggio di affrontare il tema.
In questi giorni nelle sinagoghe in tutto il mondo si è letto un capitolo che si chiama ‘la vita di Sara’. Sara è la moglie di Abramo, la madre di Isacco, una delle pietre angolari del l’ebraismo e l’arma finale di tutte le mogli. Quando in casa si litiga, la moglie può tirar fuori il versetto della Torah in cui D-o intima ad Abramo di ascoltare la moglie. In questo capitolo si parla paradossalmente di cosa avviene dopo che Sara è morta. Isacco si sposa e anche l’anziano Abramo si risposa. La vita deve continuare, ci insegna la Torah. Accanto al ricordo dello sterminio, insieme alle voci preziose di Liliana Segre e dei pochi altri sopravvissuti ancora in vita, se vogliamo affrontare l’antisemitismo dobbiamo iniziare a ricordarci di raccontare gli ebrei vivi.