Nella prima metà del XII secolo uno dei più grandi Maestri di Spagna, Avrahàm Ibn Ezra – commentatore della Torà, filosofo, grammatico e matematico – dovette lasciare il suo Paese a causa delle violente persecuzioni arabe contro le Comunità ebraiche e nel 1140 si recò a vivere a Roma. Nei suoi diari il Maestro racconta un episodio a lui capitato che riporteremo di seguito in modo artefatto nel libro Ma’asè Ha-Ghedolìm. Ecco la storia:
Un giorno, Avrahàm Ibn ‘Ezra arrivò alla vigilia dello Shabbàt in una città d’Italia, forse Roma, nella quale il Maestro decise di abitare. Egli si sedette su una banchina in una piazza e pensò. “Sicuramente qualcuno mi inviterà per Shabbàt”. Nessuno, però, offrì ospitalità a quello sconosciuto, poco elegante nel vestiario. Passò un ebreo e gli disse: “Se non sai dove andare per lo Shabbàt, vieni da me. La mia è una povera casa, ma un piatto di minestra riusciremo a trovarlo”. “Vedrai” – disse il Rabbino Ibn Ezra – “che mangeremo ben più di un piatto di minestra. Dio aiuta sempre le persone ospitali”. Dopo la preghiera serale dello Shabbàt il rav che non rivelò la sua identità, si recò nella casa veramente misera del cortese ebreo. L’unico cibo posto a tavola era realmente un piatto di minestra. “Veramente squisito” – disse il rav – “E che mangiamo per secondo?”. Il padrone di casa rispose: “Veramente il secondo è per il pranzo di domani. Sa, noi siamo molto poveri”. “Non sia mai!” – rispose il Maestro – “Lo mangeremo subito e domani pranzeremo con ottimi e abbondanti cibi. Dio aiuta sempre le persone ospitali”. Il padrone e la moglie si vergognarono di contraddire l’ospite e portarono a tavola tutto il cibo destinato al giorno successivo. Ibn Ezra mangiò di gusto il secondo e poi la torta preparata per il terzo pasto dello Shabbàt poi disse: “Se permettete tornerò anche al pranzo di domani”.
L’uomo e la moglie si guardarono sconsolati. Domani non avrebbero avuto cibo per loro, figuriamoci per un ospite. Il giorno dopo Rav Ibn Ezra si recò al Tempio e quando arrivò il momento del discorso del rabbino locale, di fronte allo stupore generale, Ibn Ezra salì sul pulpito prima di lui e disse: “Oggi il discorso non lo terrà il vostro Rabbino. Sarò io a tenere una lezione”. Tutti pensarono si trattasse di un dissennato ma il rabbino decise di lasciarlo parlare per qualche minuto. Ibn Ezra parlò e il discorso fu così bello e profondo che nessuno osò interrompere il forestiero. Alla fine il rabbino gli chiese di presentarsi: “Sono Avraham Ibn Ezra”. Il pubblico ammutolì. Avevano tra loro il più grande Maestro di Spagna e non lo sapevano.
Il rabbino, il Presidente della comunità e i ricchi del Tempio volevano tutti invitare il Maestro. “No!” rispose costui. “Io andrò a casa dell’unico ebreo che mi ha ospitato. La gente insisteva, allora Ibn Ezra disse: “Ebbene! So che la città in cui mi trovo è recintata ed è quindi possibile trasportare anche di Shabbàt. Portate dunque a casa dell’uomo che mi ha invitato ieri sera il vostro cibo e mangeremo assieme”. Quel giorno, a casa del povero ebreo c’erano tante pietanze e tanta gioia. Ibn Ezra durante il pranzo ringraziò il padrone di casa e disse: “Hai visto quanto cibo? Te l’avevo detto: Dio aiuta sempre le persone che danno ospitalità”.
Questa storia dovrebbe darci un grande insegnamento. È il sostegno all’altro che porta benedizione alle Comunità e nelle case ebraiche. Non è certo un caso che la prima benedizione della ‘Amidà si concluda con: “Benedetto Tu o Signore, scudo di Avrahàm”, senza citare gli altri due Patriarchi Itzchàk e Yaakòv. I Maestri intendevano insegnare che solo chi, come Avrahàm, teneva aperta la sua casa per aiutare i passanti e i forestieri ha veramente diritto ad una protezione divina. La Torà, il Talmùd e il Midràsh riportano una grande quantità di insegnamenti sul senso dell’ospitalità. Il Profeta Elishà (2Re, IV) pregò affinché un’infeconda donna ormai anziana, nota per la sua ospitalità, potesse generare un figlio e Dio ascoltò la preghiera. È da questa donna Shunamita che nacque il Profeta Yonà che ricordiamo ogni giorno di Kippùr come esempio di amore verso Israele. Accogliere l’altro “con volto felice” è, secondo Shammày, una caratteristica umana che non deve mai mancare (Avòt 1, 15).
Alcuni ebrei di Roma, da qualche settimana hanno messo in pratica la grande Mitzvà dell’ospitalità. All’interno del Tempio Maggiore i turisti possono usufruire di kit di Shabbàt contenenti anche Challòt e cinture per poter portare le chiavi senza trasgredire al divieto del trasporto di oggetti. Anche molti giovani romani e ragazzi delle nostre scuole grazie a tale iniziativa hanno iniziato a rispettare lo Shabbàt. Personalmente vorrei ringraziare Massimiliano Calò, Gabriele Sonnino e tutte le persone che si stanno adoperando per questa Mitzvà che porterà scudo, figli e benedizione alla nostra Kehillà. Come disse il Rabbino Ibn Ezra: “Dio aiuta sempre le persone ospitali”. E anche la Comunità in cui queste vivono. Todà Rabbà.
Accogliere con volto felice è un precetto, diceva Shammày. Rabbì Yechezkèl Sarna (1890 – 1969), capo della Yeshivà di Chevròn; tre settimane prima del suo decesso fu notato da un alunno alla fine dello Shabbàt mentre saliva con fatica le scale che portavano alla grande aula di Studio e di preghiera della scuola. “Maestro, non si stanchi. La preghiera di ‘Arvìt è già terminata”, disse il ragazzo. Rabbì Sarna rispose: “So bene che la funzione è terminata. Ma la preghiera serale è un precetto rabbinico mentre accogliere con un sorriso è un precetto della Torà. Io mi reco a salutare i ragazzi con un sorriso e a fare una grande Mitzvà”. Questo significa essere un vero Maestro.