“Nasò et rosh/Fai il conto anche dei figli di Ghereshon, secondo le case dei loro padri, secondo le loro famiglie” (Numeri 4:22).
Dopo aver letto sabato scorso del censimento della famiglia levita di Kehat – la seconda delle tre famiglie della tribù di Levi – il brano di questa settimana inizia con il censimento della prima famiglia levita di Ghereshon.
Rav Meir Yechiel Halstock, meglio noto come “Ostrovtzer Rebbe” (Ostrowiec 1852-1928), collega questo verso con un midrash sconcertante nel quale si racconta che quando Yitrò invitò Mosè a casa sua e gli diede sua figlia in moglie, gli fece promettere di crescere il suo primo figlio come un pagano. È noto che Yitrò, sommo sacerdote pagano e perfetto conoscitore di tutti i culti idolatri esistenti, già prima dell’arrivo di Mosè riconobbe l’errore del paganesimo e abbracciò la fede in un unico D-o. Perché, allora, avrebbe dovuto pretendere che Mosè allevasse il suo primo figlio come un pagano?
L’Ostrovtzer Rebbe risponde a questa domanda:
Yitrò voleva che il suo primo nipote arrivasse a credere dell’esistenza di un unico D-o nel modo in cui lo fece lui, attraverso lo studio e l’indagine. Ovviamente non voleva che suo nipote fosse un pagano, Yitrò voleva che il bambino abbracciasse il monoteismo attraverso un percorso personale, con le proprie forze e volontà e non perché questo fosse ciò che gli era stato insegnato e indicato dalla famiglia. Per questo motivo, Mosè chiamò suo figlio Ghereshom, che deriva della parola gher/convertito. Un convertito è colui che arriva alla fede ebraica autonomamente, senza essere cresciuto ed educato lungo questo percorso.
Successivamente, però. Mosè chiamò il suo secondo figlio Eliezer, perché “Elo-hè avì beezrì/il D-o di mio padre mi ha aiutato” (Esodo 18:4). Gli impose un nome ebraico per sottolineare che a questo bambino gli sarebbe stata fatta vivere fin da principio la fede in un unico D-o; Eliezer avrebbe creduto in D-o perché così era stato cresciuto e non solo attraverso studi e indagini indipendenti. A questo alluderebbe l’espressione “D-o di mio padre”, credere in D-o perché tuo padre ci credeva e ti educava a questa convinzione.
L’Ostrovtzer Rebbe insegna un principio importante:
il processo di studio e indagine deve essere intrapreso ma come passo successivo all’aver consolidato la propria fede, ferma e incondizionata, come vissuta in famiglia. Una “emunà peshutà/fede semplice, una accettazione della verità su D-o e la Torà in modo semplice, di cuore e non di mente, perché questo deve essere il primo e fondamentale approccio. Altrimenti, il nudo processo di studio e d’indagine più approfondita, potrebbe portare una persona fuori rotta, finanche a rifiutare la fede ebraica e a trattare la Torà e i suoi precetti di vita ebraica come un mero fatto socioculturale di antichi usi e costumi. Per questo, diceva l’Ostrovtzer Rebbe, la Torà comanda il censimento con una strana espressione “Nasò et rosh benè Ghereshon/solleva la testa dei figli di Ghereshon” per alludere al “sollevamento” del processo intellettuale di indagine indipendente, al quale si deve anteporre “levet avotam/secondo la casa dei padri”. Prima di intraprendere il processo di comprensione delle prove della fede nel Signore e nella Torà, bisogna consolidarsi fermamente alla fede che abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti.
Il rabbino Abraham Twerski (1930-2021) spiegò questo concetto indicando un’analogia con gli speleologi che esplorano le grotte. Per non perdersi, gli esploratori legano alla loro vita una corda fissata all’ingresso della grotta assicurandosi così di poter trovare la via d’uscita. Allo stesso modo, coloro che si impegnano in domande, indagini e analisi filosofiche, senza una “corda”, potrebbero “perdere la strada”. Nel loro sforzo di capire di più sul Creatore, la Torà e i precetti, potrebbero prendere una strada sbagliata e iniziare a nutrire dubbi. Prima di intraprendere questo processo, quindi, si ha bisogno di una “tradizione” che permetta di restare attaccati alla propria radice. Questa corda non è altro che la “emunà peshutà/fede semplice, l’accettazione incrollabile e incondizionata dei principi fondamentali dell’ebraismo.
Sebbene sia utile la comprensione più profonda della Torà, il processo di apprendimento deve iniziare con i fondamenti della fede ebraica, che dobbiamo accettare con tutto il cuore.
Questa base sarà la nostra “corda” che ci aiuterà a non “perderci” mentre proseguiamo il nostro processo di apprendimento e di conoscenza, per arrivare finalmente alla comprensione più profonda della Torà, Shabbat Shalom.