Giornata Europea della Cultura Ebraica 2018
Max Weber varie volte nelle sue opere sostiene, mostrando poco apprezzamento, che l’aspetto che maggiormente caratterizza il mondo moderno sia la tendenza a definire, categorizzare, sistematizzare. In tale ottica l’uomo moderno ricorda il primo Adamo descritto da Rav Soloveitchik in La solitudine dell’uomo di fede. L’ermeneutica ebraica antica mal si concilia con questo approccio, che si allontana prepotentemente da quanto sosteneva Schleiermacher, che riteneva che l’essenziale, in materia d’interpretazione fosse d’essere capace di sfuggire alla propria opinione per afferrare con un atto divinatorio quella dell’autore[2]. La visione ebraica è altrettanto distante da quella di Origene (Principi IV,3,8), che scriveva: “Ognuno che cerca la verità non si deve curare delle parole e dei discorsi, perché ogni popolo ha (un) suo diverso modo di parlare; ma deve stare attento a ciò che viene significato piuttosto che alle parole con cui viene significato, soprattutto riguardo a problemi così importanti e difficili[3]”.
In una nota a piè di pagina in L’au dela du verset Levinas riprende un’idea da R. Chayim di Volozin che fornisce un quadro ben differente: “I nostri maestri insegnano che tutte le loro parole somigliano a braci (Avot 2,10). Se soffi sulla brace – in apparenza spenta e in cui rimane una sola scintilla – la rianimerai smuovendola e l’attizzerai soffiando su di essa. E più soffierai, più la fiamma avvamperà e più si propagherà il fuoco, finché si trasformerà in un focolaio incandescente. Allora potrai approfittarne facendoti luce col suo fulgore o riscaldandoti vicino al suo braciere. Ma soltanto a una certa distanza, senza possibilità di toccarlo. Perché, dato che è divenuto ardente, occorre utilizzarlo con precauzione, per paura di bruciarsi[4]”.
La ghemarà (TB Sotah 40a) narra che R. Abbahu e R. Chyia Bar Abba si recarono in una località. R. Abbahu iniziò ad esporre questioni aggadiche, mentre R. Chyia bar Abba diede insegnamenti legali. Tutti abbandonarono R. Chyia per andare ad ascoltare R. Abbahu. R. Chayia divenne afflitto. R. Abbahu gli fece un esempio. Quella situazione a cosa poteva essere paragonata? A due uomini, uno dei quali vendeva pietre preziose, mentre l’altro vendeva merce di poco valore. Da chi andavano i compratori? Non da quello che vendeva la merce di poco valore?
Nel trattato di Ta’anit (7a) questa scarsa considerazione della aggadah sembra essere confermata. R. Yermyiah chiese infatti a R. Zerà di insegnargli della halakhah, ma il maestro disse di non sentirsi bene e non potere. R. Yermyiah cambiò proposta, chiedendo di insegnargli della aggadah, considerata evidentemente meno impegnativa.
Halakha e aggadah
Halakhah e aggadah sono i due generi di scrittura che costituiscono la maggior parte delle composizioni della letteratura rabbinica post-biblica[5], prodotta nei primi sei secoli dell’Era Volgare. I Maestri si consideravano portatori di una tradizione che veniva trasmessa oralmente dalla rivelazione sul Sinai. Sino ad un certo periodo l’unico testo scritto era il testo biblico, mentre gli altri insegnamenti venivano trasmessi oralmente[6].
Definire la halakhah è un’operazione abbastanza semplice[7], comprendendo al proprio interno delle norme che regolano i rapporti fra gli individui e quello con la divinità.
Più difficile, per via della sua natura estremamente diversificata, è definire la aggadah. E’ per certi aspetti paradossale che pochi termini risultino così etimologicamente chiari come questo (derivando da una radice N-G-D, che significa dire[8]), e siano al contempo così oscuri[9]. Secondo un’idea che ebbe una discreta fortuna, ma che ora gli studiosi ritengono superata, il termine aggadah deriva dall’espressione, che spesso compare nei testi midrashici (soprattutto però nelle raccolte di tipo halakhico), magghid ha-katuv, insegna la scrittura. Yosef Heinemann è dell’opinione che la scelta del nome non discenda da ragioni di ordine contenutistico, ma da una considerazione sul modo in cui le aggadot pervenivano al pubblico. Non lette da un testo nella Sinagoga, come i testi biblici, ma appunto pronunciate recitandole a memoria. Alcuni contestano questa definizione, dal momento che, se questo fosse il distinguo, anche la halakhah dovrebbe essere definita come aggadah[10]. Zunz opponeva la aggadah, che veniva pronunciata, alla shemu’ah, l’insegnamento tradizionale ricevuto.
Alcuni, per mettere da parte la difficoltà, definiscono la aggadah negativamente, come quella parte della letteratura rabbinica che non è halakhah. Questo tipo di definizione è molto antica, risalendo a Shemuel ha-Nagghid, autore di una introduzione al Talmud, che visse in Spagna nella prima metà dell’XI sec. Questo approccio esclude però la possibilità che vi siano altre categorie oltre queste due[11].
Preliminarmente è possibile dire che la compresenza di questi due mondi è indispensabile proprio perché sono tanti diversi, rappresentando due differenti dimensioni irriducibili dell’esistenza umana, una che tende a fissare delle norme e prendere delle decisioni, e l’altra che tende a mettere in discussione tutte le decisioni[12]. Nessuna interpretazione, per quanto accettabile, deve essere considerata definitiva. Una delle espressioni che maggiormente ricorrono nel midrash è davar acher, che ha la funzione di introdurre una nuova interpretazione, che non intende cancellare o mettere in discussione la precedente. In una sua lettera Rav Kuk indica nella profezia la base della aggadah. Questo è il motivo principale per cui quest’ultima proliferò in terra d’Israele e non in Babilonia.
I Maestri della Mishnah e del Talmud mostrano di avere delle predisposizioni maggiormente pronunciate per un ambito o per l’altro: R. Aqivà per esempio, pur essendo il più grande rabbino della sua generazione ed essere l’unico a uscire indenne dal Pardes, non era considerato un’autorità nella aggadà, mentre R. Yochanan considerava un esperto di aggadah R. El’azar figlio di R. Yosè ha-Ghelilì.
La halakhah, confrontandosi con questioni nuove, mai poste in precedenza, cerca la propria autorità in pronunciamenti precedenti, e procede pertanto più lentamente, mentre i cambiamenti nella hasqafah, nella visione del mondo, danno luogo a cambiamenti di paradigma, provocando modificazioni pronunciate nella percezione della natura e della funzione della aggadah[13]. Questa infatti è un’esegesi creativa, la categoria ebraica dell’interpretazione per eccellenza[14]. Non si tratta di mera esegesi del testo, l’aspetto preponderante al suo interno è quello della creazione di significato[15].
Generi di Midrash
Il Midrash è una modalità particolare di interpretazione, sorto nell’esegesi ebraica del testo biblico, che non ha dei paralleli nella letteratura di altri popoli[16]. Il termine midrash è chiaramente più comprensivo rispetto ad haggadah. Questo termine compare già nel testo biblico per due volte, nel secondo Libro delle Cronache (13,22; 24,27) con un significato con ogni probabilità differente da quello che gli attribuiamo oggi. E’ interessante notare che la radice ebraica da cui deriva, D-R-SH, è l’equivalente funzionale del termine greco historia[17]. Questa radice compare numerose volte nel testo biblico, ma mai riferendosi ad una attività interpretativa[18].
Ci sono midrashim halakhici, da cui si ricavano degli insegnamenti di ordine pratico, e midrashim aggadici, che si interessano di altro. Il Pachad Yitzchaq a nome del Kitzur Mizrachi scrive persino che solo i primi hanno il diritto di essere chiamati midrashim, e non i secondi, che sono chiamati aggadah. La maggior parte dei midrashim halakhici risalgono al periodo dei Tannaim[19], Il midrash aggadico risale ad periodo posteriore, non prima del IV sec., nell’epoca degli Amoraim. Alcune raccolte sono molto più tarde.
I midrashim tannaitici non sono sempre in nostro possesso. Varie raccolte sono state ricostruite dagli studiosi nelle ultime generazioni raccogliendo delle citazioni posteriori rispetto alla loro composizione.
I midrashim tannaitici più antichi sono quelli sull’Esodo, sul Levitico, sui Numeri e sul Deuteronomio, e sono divisi a loro volta in due categorie principali, quelli attribuiti alla scuola di R. Yishma’el e quelli attribuiti alla scuola di R. Aqivà. Entrambi i maestri vissero all’inizio del II sec. Questi testi, non necessariamente nella forma attuale, erano conosciuti nel periodo talmudico[20]. R. Aqivà e R. Yishma’el mostrano atteggiamenti differenti rispetto al processo ermeneutico. E’ famosa l’espressione di R. Yishma’el, ripetuta più volte, secondo cui “la Torah parla la lingua degli uomini” e il suo corollario a livello esegetico per cui il testo biblico ammette solo il senso letterale. Tuttavia, anche per R. Yishma’el vale l’idea che ciascun versetto si apra a molteplici letture, dal momento che (Sal. 62,12) “Una parola ha detto D., due ne ho udite”.
Il Talmud Yerushalmì (Rosh ha-shanah 3,5) a nome di R. Nechemiah paragona le parole della Torah alle navi di un mercante che portano da lontano le provviste (Prov. 31,14) e “se sembrano povere in un luogo, sono ricche altrove”.
Il più antico e famoso fra i midrashim esegetici, Bereshit Rabbah, risale invece al periodo post-talmudico. Dall’uso intensivo di termini latini e greci si può dedurre che sia stato scritto in terra d’Israele nel V o nel VI sec., e comunque prima della conquista araba. Questo testo si differenzia poi dai precedenti per via dell’uso dell’aramaico, in particolare per l’aneddotica. Questo riporta nuovamente all’individuazione delle esposizioni rabbiniche nelle sinagoghe come una delle fonti principali del testo.
Allo stesso periodo risale Waiqrà Rabbà, proveniente con ogni probabilità dalla stessa cerchia da cui scaturì Bereshit Rabbà. Molte sono infatti le somiglianze linguistiche e contenutistiche fra i due testi. L’impostazione tuttavia è differente, dal momento che in Bereshit Rabbah viene esaminato il testo biblico nella sua continuità, e per questo, al pari dei midrashim alle cinque meghillot, nei quali è usata la medesima tecnica, si parla di midrash esegetico, mentre in Waiqrà Rabbah troviamo un discorso continuato, che prende spunto, analogamente a Bereshit Rabbah, da un verso, per lo più tratto dai Ketuvim, nel quale vengono riprese varie espressioni dal brano preso in considerazione. Questo secondo tipo di midrash viene definito omiletico. A questo genere appartengono fra gli altri la Pesiqtà deRav Kahanà e la Pesiqtà Rabbatì, che comprendono omelie su sabati particolari e feste, il Midrash Tanchumà, Shemot Rabbà, Bemidbar Rabbà e Devarim Rabbà.
Un concetto fondamentale, sia tecnicamente che concettualmente, all’interno dell’universo midrashico è quello di petichah (apertura), che svolge una funzione analoga a quella della ouverture sinfonica, mostrando dall’inizio quale sarà il tema dominante del commento. Chiaramente la derashah avrà come tema principale la lettura sinagogale di quel sabato, ma il riferimento al verso che si intende commentare è quasi sempre preceduto dalla citazione di un altro verso, tratto da un’altra parte del Tanakh, che apparentemente non ha alcun legame con il testo che si intende commentare[21].
E’ possibile considerare il periodo in cui si sviluppò la letteratura midrashica sostanzialmente in due modi: considerando un quadro cronologico più ristretto, dalla nascita del cristianesimo alla diffusione dell’Islam, o estendendo il periodo di sviluppo dal 330 a.e.v. sino al Medioevo inoltrato, quando vennero elaborate le due principali antologie midrashiche, il Yalqut Shim’onì degli ebrei ashkenaziti e il Midrash ha-gadol degli ebrei yemeniti[22].
Lo stile della aggadah
Lo stile della aggadah è molto riconoscibile, per via dell’uso intensivo di iperboli e altre forme di linguaggio figurato e della varianza a livello stilistico, con passaggi, anche repentini, da un linguaggio intellettuale a uno più popolare. Per comprendere questo aspetto è necessario tenere a mente che, oltre al testo biblico e i suoi interpreti, vi è un terzo elemento imprescindibile, i destinatari degli insegnamenti. Il midrash non nasce per rimanere confinato nel Bet ha-midrash ed essere appannaggio esclusivo dei Maestri e dei loro discepoli. Il destinatario di questi insegnamenti è l’intero popolo ebraico. Per questo inizialmente al midrash venne attribuito un ruolo pubblico, sia per mezzo del Targum, la traduzione aramaica del testo biblico, in cui sono contenuti degli elementi interpretativi, sia sotto forma di derashah tenuta all’interno della Sinagoga.
Inoltre nei testi aggadici si nota la giustapposizione di due o più opinioni contrastanti, senza ricercare una conclusione definitiva e vincolante, come avviene nella halakhah[23].
Nella aggadah troviamo differenti tipi di narrativa, dai commenti a testi biblici, alle storie sulla vita dei maestri, dalle espressioni proverbiali alle disposizioni etiche, dai discorsi filosofici alle disquisizioni scientifiche. Queste varie forme danno vita a un piacevole assortimento di storie[24]. L’accento tuttavia è posto non solo sulla centralità del testo biblico, ma alla sua sollecitazione, allo scopo di conferirgli maggiore intelligibilità e innovandovi del senso[25]. Vari studiosi, studiando il midrash aggadah, lo hanno considerato anzitutto un’interpretazione delle stranezze testuali del testo biblico. L’interpretazione biblica antica secondo questa visione è “interpretazione dei versi, non storie[26]”. Gli insegnamenti riportati, dal contenuto estremamente vario, vengono ricondotti al testo biblico, sebbene spesso traspaia il fatto che alcuni materiali trovino origini in altri contesti, diversi da quello dell’interpretazione scritturale. Questa ricerca di aderenza al testo biblico indica una volontà dei Maestri di parlare attraverso il testo biblico, a differenza di quanto avviene nella Mishnah, nella quale i loro pensieri vengono formulati liberamente[27]. Questa ricerca porta i Maestri del midrash ad avvalersi dei metodi individuati nello stesso testo biblico e svilupparli. Per questo ad esempio nel midrash troviamo un uso intensivo della metafora[28]. Il testo biblico, attraverso questa rilettura, viene reinventato per mezzo dell’elemento narrativo e di quello esegetico. Per mezzo dell’esegesi il testo biblico acquisisce nuovi significati, per mezzo della narrativa il mondo viene visto sotto una nuova luce[29]. Questo mix, che si avvale di tecniche e strumenti dissonanti, dà luogo a qualcosa di unico nel proprio genere. Non dobbiamo pensare tuttavia che non vi fosse alcun limite alla creatività dei maestri del Midrash: infatti nel tempo vennero redatte varie liste di middot, regole ermeneutiche che avevano lo scopo di indicare le tecniche ammesse per trarre degli insegnamenti dal testo biblico. Abbiamo tre raccolte principali: le sette regole di Hillel il Vecchio, le tredici di R. Yshma’el, le trentadue di R. Eli’ezer ben Yosè ha-ghelilì.
Nella sua opera fondamentale Darkè ha-Aggadah[30], Y. Heinemann raggruppa i procedimenti midrashici in due grandi categorie: la storiografia creatrice e la filologia creatrice[31]. Il termine storiografia non va inteso nella accezione attuale: non si tratta di inserire gli eventi negli annali di Israele, o come dice G. Gadamer in Verità e metodo rendere qualcosa “obiettivamente conoscibile nel suo significato definitivo solo quando si lascia inserire in un contesto conchiuso. In altre parole, quando è abbastanza morto da poter essere oggetto di un interesse soltanto storico”. Il midrash non si rivolge al significato effimero degli eventi, ma al loro significato durevole [32], con lo scopo di essere significativo per la nostra esistenza, costituire il suo senso proprio, rivolgendosi agli aspetti cosmologici, storico-mondiali, antropologici, morali e individuali[33].
Lo stile delle antiche interpretazioni rabbiniche può dare l’impressione di essere frammentario. Vi è infatti la tendenza di cercare di attribuire un messaggio definitivo a ogni singolo versetto, che veniva studiato come una compiuta unità significante[34]. Non vi era invece il tentativo di attribuire un significato complessivo dei libri biblici o dell’intera Torah. L’attenzione dei Maestri era rivolta anzi a elementi minimi, che potrebbero sembrarci poco significativi, all’interno del testo, le singole parole, le singole lettere. Ogni singolo elemento all’interno del testo era degno di essere analizzato, in quanto parte della rivelazione divina. Questo metodo, che prevedeva la spiegazione di ogni et e gam come un ribbui, un’amplificazione e estensione del testo, e ogni akh e raq come un mi’ut, una limitazione, era stato introdotto dal tannà Nachum di Gimzo, che lo trasmise al suo allievo, R. Aqivà. Per comprendere a pieno il ragionamento midrashico diviene indispensabile conoscere la lingua ebraica, quella per mezzo della quale D. si è manifestato agli uomini. Ad esempio la particella et, estremamente frequente in ebraico, in una traduzione italiana del testo biblico non risulterebbe. Nonostante ciò il midrash si preoccupa, secondo le parole di Levinas, “dello spirito al di là della lettera, estraendo tuttavia questo spirito a partire dalla lettera[35]”.
Il riferimento costante dei maestri del midrash è il testo biblico. Un aspetto che può risultare difficile comprendere per il lettore moderno è quello di considerare l’intera Bibbia come un unico libro, le cui parti non si oppongono reciprocamente e si contraddicono, ma si completano e si chiariscono a vicenda[36]. In questa ricerca continua del confronto con il testo potrebbero risiedere degli intenti polemici verso l’approccio della Mishnah, maggiormente indirizzata verso il ragionamento logico, a discapito della prova scritturale, o nei confronti dei Sadducei e dei Samaritani, che mostravano un atteggiamento critico nei confronti della tradizione orale in generale.[37]
Ulteriore aspetto degno di essere tenuto in considerazione è l’estrema attenzione che i maestri del midrash rivolgono al testo originale con le sue particolarità. Quelle che possono sembrare delle lacune all’interno del testo sono nella visione dei maestri non degli errori, ma la fonte di un appello costante all’interpretazione. Il testo, che appare enigmatico, richiede, per essere compreso a pieno, produzione di senso[38].
Altro obiettivo importante che la aggadah persegue è quello dell’ampliamento della narrativa biblica. Questa operazione restituisce ritratti molto più vividi dei personaggi biblici, anche se a volte alterati. Non si può ad esempio non notare come il re David, descritto nel testo biblico come un eroico combattente, sia ritratto nel midrash come un saggio che studia Torah giorno e notte[39].
Il Ramchal nel suo famosissimo maamar ‘al ha-aggadot descrive due generi di aggadot: a) quelle che chiama maamarim limudyim, che ci comunicano “principi della sapienza, etica o divina”; b) i biurim, le spiegazioni del testo biblico. Secondo Ramchal tutta la tradizione è riconducibile a due ambiti, la spiegazione delle mitzwot, che è scritta in termini intellegibili per tutti, e la sapienza divina, che volutamente, sia per via della grossolanità di certi intelletti, sia perché la si intende precludere ad individui caratterizzati da cattive predisposizioni, è scritta tramite accenni, comprensibili solo per chi ne detiene le chiavi, trasmessi agli allievi considerati meritevoli, dai maestri delle varie generazioni. Per chi non ha le chiavi, questi testi possono essere fraintesi, o risultare come se non fossero scritti, dal momento che rimangono incomprensibili. D’altra parte questi insegnamenti, se non fossero stati messi per scritto, o se fossero entrati in contatto con intelletti non adeguati, avrebbero rischiato di essere compromessi in modo irreparabile.
Nel Talmud assistiamo ad un insuperato intreccio fra halakhah e aggadah[40], sebbene lo spazio riservato alla halakhah sia notevolmente superiore. La superiorità della halakhah è riconosciuta in maniera abbastanza netta quando Maimonide scrive che una persona, una volta acquisite le nozioni necessarie, deve dedicarsi allo studio della ghemarà, senza fare accenno esplicito alla aggadah.
Qualcuno ha paragonato la halakhah alla nostra letteratura scientifica, e la aggadah alla narrativa. Altri hanno presentato halakhah e aggadah come una sorta di Giano Bifronte. Il Talmud Yerushalmì (Peah 1,1) le considera inseparabili: non si impara dalle halakhot o dalle aggadot, ma dalla ghemarà.
Perché halakhah e aggadah sono entrambe indispensabili? Secondo M. Elon la aggadah costituisce la filosofia della halakhah, ed è usata per implementare la riflessione sulle regole halakhiche. Per altri la halakhah è uno strumento per plasmare le norme a fronte di necessità in continua evoluzione, per sanare delle contraddizioni fra elementi narrativi e legali nel testo biblico, o per portare alla luce le controversie fra i maestri. Per altri la aggadah deriva da una necessità del popolo ebraico, per alleviare la durezza della vita ordinaria.
Tuttavia pensare che semplicemente la aggadah sia al servizio della halakhah è problematico, poiché raramente troviamo una vera e propria intersezione fra i due ambiti, tuttalpiù una giustapposizione[41].
“Fortuna” della aggadah
Non c’è forse nulla di più lontano dalla filosofia religiosa sistematica, così come oggi la concepiamo, delle aggadot che troviamo nella letteratura rabbinica classica. Quando, attorno al decimo secolo, nel momento in cui entrò in voga uno stile di esposizione più logicamente rigoroso e coerente, l’aggadah si trovò ad essere, in modo abbastanza repentino, fonte di confusione, costernazione e imbarazzo per molti ebrei. Vari testi, rabbinici e non, non hanno esitato a descrivere alcune aggadot come triviali, irrazionali, o assurde. Su questo aspetto il Ramchal nel Maamar ha-aggadot ritiene che le aggadot siano caratterizzate da una apparente semplicità, che rimanda al mondo materiale, ma che in realtà nascondano grandi segreti propri del mondo spirituale, non comprensibili a tutti. Questa apparente semplicità ha portato nei secoli il mondo ebraico a prediligere lo studio del Talmud, che richiedeva strumenti tecnici notevoli per essere padroneggiato, a discapito della aggadah. Questa incomprensibilità delle aggadot è stata sfruttata per tentare di dimostrare la verità della propria fede da vari studiosi cristiani nel medioevo[42]. Tale atteggiamento della parte avversa ha portato vari rabbini, fra cui il Nachmanide, a relazionarsi alla aggadah, almeno ufficialmente nelle dispute medievali, in modo quantomeno tiepido[43].
Anche l’interpretazione biblica ha assunto nei secoli un approccio notevolmente differente rispetto a quello dei maestri del midrash. I maggiori esegeti medievali, Rashì e Ibn ‘Ezrà, cercavano principalmente di stabilire il senso piano del testo, elaborando di conseguenza un linguaggio tecnico che potesse rendere conto delle sue strutture grammaticali. E’ evidente che i maestri dei periodi precedenti, in grado di produrre delle traduzioni aramaiche del testo biblico e di elaborare l’ebraico della Mishnah, avessero piena coscienza delle difficoltà contenute nel testo e dell’urgenza della questione, ma questo piano rappresentava per loro solo il punto di partenza del processo midrashico[44].
Il peso da attribuire alla aggadah fu oggetto di grandi controversie. Alcuni cercarono persino di staccare la aggadah dalla halakhah, considerando quest’ultima autosufficiente e non bisognosa di un supporto esterno. Nel corso delle generazioni la aggadah godette pertanto di una considerazione sempre minore, per via di una percezione della halakhah sempre più legalistica. La cosa è divenuta molto evidente quando il razionalismo aristotelico, prendendo piede a partire dal mondo islamico, si diffuse. Molti pensatori cristiani e caraiti hanno preso di mira la aggadah per dimostrare quanto fosse irrazionale il giudaismo rabbinico[45]. Rispondendo a Pablo Christiani, il Ramban disse che, per via della loro origine umana, non si devono mostrare troppi scrupoli ad interpretare le aggadot, che non devono essere intese letteralmente. Anche Hay Gaon mostrò un approccio simile alla questione: le aggadot sono espressioni personali, che non hanno un’autorità particolare. Questa visione persiste sino al giorno d’oggi in molte Yeshivot, nelle quali i brani aggadici del Talmud vengono affrontati sbrigativamente, o peggio saltati del tutto. Questo approccio è potenzialmente pericoloso, dal momento che le aggadot contengono dei principi filosofici che, se mal compresi, possono condurre persino a delle credenze eretiche[46]. In precedenza numerosi commentari talmudici si sono interessati solamente delle parti halakhiche della ghemarà, tralasciando completamente la aggadah.
L’altro approccio, che si è sviluppato secondo diverse direttrici, è stato quello di interpretare la aggadah[47].
Per molto tempo la halakhah ha svolto la parte del leone, e relativamente pochi maestri si sono impegnati seriamente nella produzione che riguardasse la aggadah. Quello che forse contribuì in maniera più vigorosa alla riabilitazione della aggadah fu R. Chayim di Volozin, che incluse i midrashim nel contenuto della rivelazione sinaitica (Nefesh ha-Chayim 4,6).
Un’altra spinta, molto importante a livello metodologico, venne dalla Wissenchaft der Judentums, che considerò il midrash parte integrante del proprio progetto[48]. Ciò portò alla produzione di studi storico-critici, ricerche filologiche, antologie, traduzioni, edizioni critiche dei testi.
Negli ultimi anni, per i cambiamenti nei metodi di studio e di ricerca, per via della scoperta di nuovi materiali prima inaccessibili e dell’accresciuta attenzione rivolta a livello generale alla Torah proveniente da Eretz Israel[49], la culla della aggadah, l’interesse destinato a questo campo è notevolmente accresciuto[50]. Ulteriore elemento che ha contribuito allo sviluppo dello studio della aggadah in ambito accademico è stato l’interesse che il midrash ha suscitato a livello letterario alla luce della teoria dell’intertestualità[51].
Conclusione Nel Sifrè (Eqev 13) è scritto: “i Doreshè reshumot dicevano: se vuoi conoscere l’Unico che ha parlato e ha provocato la venuta all’esistenza del mondo, impara l’aggadah. Per mezzo di ciò conoscerai il Santo Unico, sia Egli benedetto, e attaccherai te stesso alle Sue vie”. Nel suo commento alla Torah (Deut. 32,47) Rashì, spiegando l’espressione “Infatti non è per voi cosa vuota di contenuto”, sostiene che “non hai una cosa vuota nella Torah che se la interpreterai non avrai ricompensa”.
[1] Negli ultimi decenni si è registrata una discreta produzione in lingua italiana di volumi sull’aggadah e sul Midrash. Si segnalano i contributi più significativi: il capitolo, di G. Momigliano L’interpretazione omiletica: il Midrash haggadah in S. Sierra (a cura di) La lettura ebraica delle scritture, Bologna 1995, pp. 125-144; il volume di M. Ventura Avanzinelli, Fare le orecchie alla Torah, Firenze 2004, in modo particolare la sezione (pp. 51-83) dedicata all’illustrazione delle regole ermeneutiche nella tradizione rabbinica e la tavola riassuntiva dei midrashim aggadici successivi al periodo classico alle pp. 105-106; G. Stemberger, il Midrash, Bologna 2006 (pubblicato in altra collana dal medesimo editore nel 1992), al quale si rimanda per la nota sulla bibliografia in lingua italiana aggiornata agli inizi degli anni ’90 (pp. 9-10) e per un’ampia raccolta di testi, divisi per genere (pp. 69-277); D. Banon, Il midrash, Cinisello Balsamo 2001 (d’ora in poi D. Banon 2001), in particolare il cap. 3 dove viene illustrato dettagliatamente il corpus midrashico, il cap. 4, nel quale vengono illustrate le caratteristiche fondamentali del midrash e il cap. 6, dove viene presentata una rassegna della “ricerca” sul Midrash dal medioevo a oggi; D. Banon, La lettura infinita, Milano 2009 (d’ora in poi D. Banon 2009), testo che si discosta significativamente dai precedenti, per via delle numerosissime suggestioni derivanti dalle questioni affrontate alla luce della filosofia, dell’ermeneutica, della filologia e della linguistica contemporanee.
[2] Citato in D. Banon 2009, p. 143.
[3] Citato in D. Banon 2009, p. 148.
[4] Citato in D. Banon 2009, pp. 155-156.
[5] I principali testi prodotti dai rabbini in questi secoli sono le varie raccolte di Midrashim, la Mishnah, la Toseftà, il Talmud Yerushalmì e il Talmud Bavlì.
[6] M. Hirshman, Aggadic Midrash in S. Safrai, Z. Safrai, J. Schwartz (a cura di), The Literature of the Sages, Second Part, Assen 2006, p. 107.
[7] Il primo a definire il termine halakhah fu R. Natan ben Yechiel di Roma (seconda metà dell’undicesimo secolo), l’autore dell”Arukh, una sorta di dizionario enciclopedico sui termini oscuri della letteratura rabbinica. Vedi H. Mack, The Aggadic Midrash Literature, Tel Aviv 1989, p. 9.
[8] D. Banon 2001, cit., p. 95 suggerisce almeno altre tre possibili origini del termine. Oltre al a) discorso, contrapposto allo scritto, b) il discorso opposto all’azione normativa, c) il raccogliere, il riunire i frammenti di senso disseminati nel Libro, e d) attirare, affascinare.
[9] Vedi B. Lifshitz, “Aggadah umqomah betoledot Torah shebe’al peh, Shenaton Mishpat ha-‘ivrì 5761-5764, p. 236.
[10] B. Lifshitz, cit., p. 237.
[11] H. Mack, cit., p. 10.
[12] S. Almog, “One Young and The Other Old” – Halakhah and Aggadah as Law and Story, Revue Canadienne Droit e Société 2003, vol. 18, p. 36.
[13] Rav D. Sedley, Aggada in Jewish Tought: Changing Paradigm, Reshimu Vol.1, 2, p. 96.
[14] D. Banon, Il Midrash, Cinisello Balsamo 2001, p. 5. Questa idea, come quella di “filologia creativa” e “storiografia creativa” è ampiamente presente nel lavoro di Y. Heinemann,
[15] I. Gruenwald, Midrash and the “Midrashic Condition”: Preliminary Considerations, in M. Fishbane (a cura di) The Midrashic Imagination, New York 1993, p. 9.
[16] D. Banon 2009, cit., p. 121.
[17] Citato a nome di E. Urbach in M. Hirshman, cit., p. 110.
[18] I. Gruenwald, cit., p. 8.
[19] Questo termine indica i maestri della Mishnah, della Toseftà e dei midrashim tannaitici. Il periodo dei Tannaim si chiude intorno all’inizio del III sec.
[20] I. Jacobs, The Midrashic Process, Cambridge 1995, p. 16.
[21] Per spiegazione del concetto e alcuni esempi vedi D. Banon 2001 99-104.
[22] D. Banon 2001, cit., pp. 6-7.
[23] Vedi M. Saperstein, Decoding the Rabbis: A Thirteenth-Century Commentary of the Aggadah, Cambridge, Mass. 1980.
[24] S. Almog, cit., p. 33.
[25] D. Banon 2001, p. 85.
[26] Vedi J. L. Kugel, Tradition of the Bible: A Guide to the Bible as It Was at the Start of the Common Era, Cambridge, 1998, p. 24-
[27] M. Hirshman, cit., p. 108.
[28] H. Mack, cit., p. 119.
[29] J. Levinson, Dialogical Readin in the Rabbinic Exegetical Narrative, Poetics Today 25,3, p. 498.
[30] I Heineman, Darkè ha-aggadah, Gerusalemme 1970.
[31] Riportato e sviluppato in Banon 2009, cit., pp. 125 e ss.
[32] D. Banon 2009, cit, p. 126.
[33] D. Banon 2009, cit., p. 138.
[34] Vedi G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino 1999, p. VIII.
[35] Citato in D. Banon 2009, cit., p. 122.
[36] D. Banon 2009 cit., p. 93.
[37] M. Ventura Avanzinelli, cit., p. 47.
[38] D. Banon 2009, cit., p. 93.
[39] J. Heinemann, The Nature of the Aggadah, in G. H. Hartman e S. Budick (a cura di) Midrash and Literature, New Haven 1986, p. 45.
[40] Sebbene l’intreccio fra halakhah e aggadah presenti degli aspetti unici, altre culture, antichi e moderni, sono caratterizzate da fenomeni paragonabili. Per una bibliografia sul legame fra legge e letteratura vedi S. Almog, cit., nota 23.
[41] S. Almog, cit. p. 34.
[42] Vedi H. Mack. cit. p. 28.
[43] E’ possibile infatti che l’atteggiamento di Nachmanide sia dettato dall’uso che la controparte cristiana intendeva fare delle aggadot, vedi M. Rosenzweig Elu va-elu Divre Elokim Hayyim: Halakhic Pluralism and Theories of controversies, Tradition 26/3, p. 21, nota 3 per la bibliografia su questo punto.
[44] Vedi I. Jacobs, cit., p. 3.
[45] Vedi M. Saperstein, cit. p. 6.
[46] D. Sedley, cit., p. 97.
[47] M. Skalertz, Ha-yachas leMidrash ha-aggadah – mimashber litzmichah (ebr), ‘Amadot 6, 2014, p. 257.
[48] L’opera di L. Zunz, Die gottesdienstlichen Vortrage der Juden, 1832 e la sua traduzione ebraica, Ha-derashot beIsrael, aggiornata e corretta da C. Albeck alla luce degli ultimi studi, è ancora oggi ampiamente citata.
[49] D. Banon 2001, pp. 96-98 si sofferma sulle ragioni che hanno condotto la letteratura midrashica a svilupparsi proprio in Israele e non, per esempio, in Babilonia.
[50] H. Mack, Cit., p. 8.
[51] Vedi I. Jacobs, The Midrashic Process, cit., p. 1.