Nella parashà della settimana leggiamo dell’incontro tra Ya’akòv e suo figlio Yosèf dopo oltre 20 anni durante i quali il padre credeva che il figlio fosse morto. La Torà ci descrive la scena dopo averci già raccontato dell’incontro tra Yosèf e Binyamìn nel corso del quale entrambi piansero copiosamente per consolarsi reciprocamente delle future sventure che si sarebbero abbattute sui Santuari (Rashì). Possiamo facilmente immaginarci la commozione e i sentimenti che muovevano padre e figlio dopo decine di anni di distacco forzato; eppure mentre la Torà ci dice (di nuovo!) che Yosèf pianse abbondantemente, non ci dice nulla riguardo a Ya’akòv. I maestri spiegano che in quel momento Ya’akòv stava recitando lo Shemà; ora, partendo dal presupposto che ci è difficile credere che egli non avesse altri momenti per recitare lo Shemà, dobbiamo dire che la sua è un’azione volontaria. I Maestri spiegano che non sempre il pianto può essere utile; pur consolatorio e liberatorio, ci sono delle situazioni in cui l’azione deve prevalere sui sentimenti e le emozioni. Ya’akòv vuole trasmettere a suo figlio il messaggio che invocare l’unicità di D-o e l’attaccamento del popolo di Israele al proprio D-o a volte è più “utile” che abbandonarsi al pianto.