Jonathan Pacifici – www.torah.it
“E giunse Jacov integro alla città di Shechem che è nella Terra di Kenaan nel suo venire da Padan Aram e si accampò dinanzi alla Città. Ed acquistò la parte del campo nella quale aveva piantato lì la sua tenda dalla mano dei figli di Chamor, padre di Shechem per cento monete. E piantò lì un altare e chiamò: ‘Iddio è D-o di Israele!’.” (Genesi XXXIV, 18)
“e si accampò dinanzi alla Città…:…ma nelle parole dei nostri Maestri, sia il loro ricordo di benedizione: ‘Giunse col calar del sole e stabilì i limiti quando era ancora giorno, da qui si impara che Jacov nostro padre osservava lo Shabbat prima ancora che fosse stato dato.’” (Radak in loco citando Bereshit Rabbà 79,6)
I Nostri Saggi insegnano che le opere dei Padri sono un segno per i figli. La vita dei patriarchi è un modello in miniatura della vita del popolo d’Israele. Il rientro di Jacov in Erez Israel dopo il confronto con Lavan ed Esav è altamente simbolico dell’Uscita dall’Egitto e del confronto con Faraone ed Amalek. Come Israele (il popolo), Israele (l’uomo) supera queste due prove ed abita nelle Succot della protezione Divina.
Ma se la Succà è un passaggio educativo fondamentale nella comprensione del rapporto uomo-D-o, nella comprensione della vanità della materia in se stessa, arriva un momento nel quale si deve uscire dalla Succà e prendere possesso di Erez Israel per farne una Succà. Jacov arriva integro a Shechem, nelle parole dei Saggi: integro nel suo corpo, integro nelle sue proprietà ed integro nella sua Torà. Jacov inizia a prendere possesso di Erez Israel di Venerdì, quasi all’entrata di Shabbat. Nella pratica ha tempo di fare una sola cosa: stabilire il limite invalicabile dello Shabbat. La prima delle regole dello Shabbat che D-o dà ad Israele è la regola relativa al ‘Tchum’, il limite che non deve essere valicato di Shabbat. ‘Guardate che il Signore ha dato a voi lo Shabbat e perciò Egli vi dà al sesto giorno cibo per due giorni; risiedete ognuno al suo posto e non esca nessuno dal proprio posto nel settimo giorno’. (Esodo XVI, 29)
Il Sefer Hachinuch (Mizvà 24) codifica secondo Maimonide il divieto che vige di Shabbat di uscire dal limite fissato dalla Torà (12 mil). Si tratta della distanza massima che si può raggiungere di Shabbat oltre l’ultima casa di una città. I nostri Saggi hanno poi ristretto questo divieto ad un solo mil (2000 cubiti). Il Sefer HaChinuch spiega che la radice di questa mizvà è nel riconoscere che il mondo viene continuamente rinnovato dal Santo Benedetto Egli Sia. Rav Chajm Friedlander (Siftè Chajm III, 404) spiega che di Shabbat è possibile arrivare a ‘vedere’ il dono dello Shabbat, ma ciò dipende da due condizioni:
1. “risiedete ognuno al suo posto”. Significa essere felici di ciò che si ha. Di Shabbat si può evitare di essere angosciati dalle esigenze di questo mondo. Rav Friedlader chiama ciò: shlemut HaShabat, l’integrità del Sabato. Di Shabbat si impara che tutto viene dal Santo Benedetto Egli Sia, di Shabbat si arriva alla comprensione del fatto che tutto quanto si ha è ciò che il Signore ha destinato a noi. L’uomo non ottiene nulla di più o di meno di quanto gli abbia destinato Iddio.
2. “e non esca nessuno dal proprio posto”. Di Shabbat si può capire che non si deve guardare ciò che è nel piatto degli altri. I Saggi dicono (Yomà 38b) che l’uomo non tocca neanche la minima parte di quanto spetta al proprio prossimo. Il riposo dell’anima del Sabato è nel sentire che Iddio ci ha dato ciò di cui abbiamo bisogno e non ha senso desiderare quanto ha il prossimo perché non è destinato a noi. Ciò che è bene per lui non necessariamente è bene per noi.
Dunque lo Shabbat secondo il Rav Friedlander è in primis l’occasione per una riflessione sulla natura dei beni materiali. Di Shabbat si ritrova se stessi (anche) perché non si può viaggiare. C’è una settimana intera per viaggiare fisicamente e spiritualmente, ma c’è un momento della settimana nel quale si deve saper tornare a se stessi ed al Santo Benedetto Egli Sia. La Halachà lo codifica con la proibizione di allontanarsi dal centro abitato di Shabbat e nello stesso spirito i Saggi hanno codificato le regole del trasporto di Shabbat. Il nostro patriarca Jacov arriva da un anno intero in Succà e capisce fino in fondo la natura dei beni materiali. Proprio perché arriva da Succot, Jacov capisce che la Terra d’Israele si conquista stabilendo i limiti dello Shabbat. Solo quando si capisce che il compito dell’uomo è porre quei limiti che Iddio ha lasciato vacui si capisce il compito di Israele ed il privilegio del popolo ebraico sulla Terra d’Israele. Nella Terra d’Israele ci si sta per separare tra il giorno e la notte, tra il santo ed il profano, tra il luogo dove si può andare di Shabbat ed il luogo proibito. Ma c’è un altro aspetto. Quando si arriva in un posto nuovo ci si deve ambientare. La prima cosa in genere che fa uno arrivando in una nuova città è una prima esplorazione del luogo. Jacov arriva dinanzi a Schechem all’entrata di Shabbat e traccia la linea immaginaria dalla quale non si deve uscire, almeno non per lo Shabbat.
Immaginiamo la scena: dopo anni di peripezie Jacov e famiglia, ma soprattutto i tredici ragazzi, hanno dinanzi una città. Jacov traccia il limite dello Shabbat e tiene tutti a casa. Il messaggio di Jacov è straordinario. Jacov arriva integro a Shechem perchè a Shechem non ci arriva affatto. Jacov si sa fermare davanti a Shechem e tracciare una Shechem alternativa con delle mura di spirito attorno ad una tenda nella campagna dalla quale sa non allontanarsi di Shabbat. Jacov sostituisce le mura di Shechem con il tchum dello Shabbat. Jacov capisce che Erez Israel la si conquista quando alla logica delle città nelle quali ci si perde si sostituisce la logica delle case in cui si ritrova se stessi.
In quest’ottica possiamo capire l’episodio di Dinà. E qui non si tratta di colpevolizzare le vittime di stupro. La Torà dice chiaramente che Dinà esce a vedere le ragazze della Terra. Dinà è quella che a questo gioco della linea immaginaria non ci sta. I Saggi intendono che uscì dalla propria tenda ed entrò in città. Ora Chamor è un criminale e nessuno lo nega. La Torà sottolinea la gravità di aver profanato la figlia di Jacov e si chiede il Bet Hallevì: cosa ne sapeva Chamor del livello morale/spirituale di Jacov? E risponde che il problema è proprio questo. Chamor avrebbe fatto lo stesso con qualsiasi altra ragazza. Uno stupro è uno stupro, che sia della figlia del re quanto dell’ultimo dei contadini. Ed a Shechem che si comporta in maniera criminale la Torà carica anche la colpa particolare del merito di Jacov. Aver violentato la figlia di Jacov è più grave solo quando la violenza diventa cosa comune. Dinà ha una colpa fondamentale: quella di essere uscita. I Saggi associano il fatto all’uscita di Leà incontro a Jacov quando questa ‘compra’ con le mandragole di Reuven il diritto a stare con lui quella sera. La Torà da una donna si aspetta altro. La Torà si aspetta dalla donna che sappia essere l’epicentro di quel tchum di Shabbat che disegna Jacov. E qui i Saggi attribuiscono la colpa fondamentale a Jacov stesso. Egli avrebbe dovuto acconsentire al matrimonio tra Esav e Dinà! Dinà avrebbe redento la casa di Esav. Se Dinà esce è perché Jacov non ha saputo farne il centro della tenda di Esav.
Intendiamoci qui non si dice che Chamor abbia fatto bene. Chamor è un criminale e non ha giustificazioni. Non si dice neppure che Dinà o Jacov siano effettivamente responsabili, ma i Saggi cercano, quando le cose non vanno, di capire la radice profonda degli eventi. E come dicevamo altrove a proposito della Shoà, dopo la chiara condanna dei criminali esterni, noi dobbiamo capire cosa non andava in noi dal punto di vista spirituale. Nell’episodio di Dinà lo capiamo attraverso quanto dice Rav Fridlander. Il senso del limite dello Shabbat è capire che non devo stare a vedere cosa ha il prossimo. Dinà è colei che valica il limite dello Shabbat per andare a vedere le donne di Shechem. Dinà vuole vedere il ruolo della donna nella cultura di Shechem e deve capire sulla sua pelle che in una cultura apparentemente liberale il principe del luogo è un violentatore.
Quanti messaggi in questa Parashà per noi! La Parashà di Vaishlach ha un profondo filo conduttore: imparare ad essere se stessi. A trovare se stessi. Senza dilungarci ricorderemo che questo è il messaggio dell’incontro con l’Angelo prima e con Esav poi. Essere se stessi significa saper valorizzare la propria cultura, significa non aver paura di proporre un sistema di valori opposto a quello vigente. Significa saper arrivare dinanzi a Shechem ed a tutto quanto rappresenta, piantare la propria tenda e la propria famiglia al centro e farle una akafà intorno indicando il limite del proprio mondo. Il possesso della Terra di Israele e lo Shabbat sono quindi due pilastri sui quali si costruisce la redenzione. Shabbat è del resto un sessantesimo del modo futuro e quanto alla Terra d’Israele commenta in loco Ibn Ezra: “Ed il Testo ha ricordato ciò per annunciare il grande livello della Terra d’Israele, poiché chi ha parte in essa, conta come parte del mondo futuro!”
Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici