Jonathan Pacifici – www.torah.it
“E radunò Moshè tutta la congrega dei figli d’Israele e disse loro: ‘Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare:…’” (Esodo XXXV, 1).
Nel tessuto delle parashot che completano il libro di Shemot e nelle quali ci occupiamo della costruzione del Mishkan, si intrecciano due motivi fondamentali intrinsecamente connessi: il Mishkan e lo Shabbat. Già tante volte in passato abbiamo visto come il Santuario del Tempo e quello dello Spazio siano l’uno lo specchio dell’altro. Quello dello spazio non si costruisce durante quello del tempo ma quello del tempo è quasi sospeso nel recinto di quello del tempo. E così via le attività che definiscono quello dello spazio sono la fonte per le attività proibite in quello del tempo, ma queste stesse a loro volta sono speculari delle attività con le quali Iddio ha creato il mondo, nel tempo e nello spazio, cessando per lo Shabbat.
Con ciò in mente possiamo forse meglio apprezzare alcune riflessioni sul concetto di attivo e passivo nello Shabbat e nel Santuario.
Il Malbim nota una discrepanza logica nel nostro primo verso e commenta in loco: “Ed è molto strano che dica che il Signore ha comandato di fare, non è forse quest’ordine di non fare un lavoro di Shabbat? Non è ‘fare’ ma solamente ‘non fare’.”
La stessa perplessità in effetti figura in forma diversa nel Santuario. La Torà dice:
“E faranno un Arca di legno d’acacia, due ammot e mezzo la sua lunghezza, un’ammà e mezzo la sua larghezza, ed un ammà e mezzo la sua altezza.” (Esodo XXV, 10)
Poi però:
“E fece Bezzalel l’Arca di legno d’acacia, due ammot e mezzo la sua lunghezza, un’ammà e mezzo la sua larghezza, ed un ammà e mezzo la sua altezza.” (Esodo XXXVII, 17).
Ma l’Arca allora deve essere fatta da tutti o da Bezzalel? L’esecuzione collettiva ha un senso. Il Midrash (Shemot Rabbà XXXIV, 4) ragiona: “Come mai per tutti questi oggetti è detto ‘e farai’ e per l’Arca è detto ‘e faranno un Arca’? Ha detto Rabbì Jeudà figlio di Rabbì Shalom: ‘Ha detto loro il Santo Benedetto Egli Sia: ‘Che vengano tutti e si occupino dell’Arca, in modo che tutti possano meritare di ottenere la Torà’’”.
Però poi nello specifico è la capacità di Bezzalel ad essere necessaria. Ed infatti: “E l’Arca che era il più particolare tra tutti gli oggetti è stata fatta da Bezzalel, che era il più grande di tutti, come hanno detto (TB Berachot 55A): ‘Bezzalel sapeva comporre le lettere con le quali furono creati il Cielo e la Terra’”. (Rabbì Ovadià Sforno in loco).
I nostri Maestri in realtà conciliano le cose. Il Ramban su Esodo XXV, 10 propone: “E così hanno detto nel Midrash Rabbà, ‘come mai per tutti gli oggetti è detto ‘e farai’ e per l’Arca è detto ‘e faranno un Arca’? Ha detto Rabbì Jeudàfigli di Rabbì Shalom: ‘Ha detto loro il Santo Benedetto Egli Sia: ‘Che vengano tutti e si occupino dell’Arca, in modo che possano meritare di ottenere la Torà’. E la questione è che ognuno offra un oggetto d’oro per l’Arca, o che aiuti Bezzalel con un piccolo aiuto, o che si concentrino sulla cosa.’”
E su ciò commenta il Clì Chemdà su Pekudè: “È spiegato dalle parole del nostro Maestro il Ramban, sia il suo ricordo di benedizione, che persino con il pensiero, colui il quale desiderava aiutare Bezzalel, adempieva al precetto di fare l’Arca, e per questo è scritto ‘e faranno un Arca’, in modo che ognuno d’Israel abbia una parte in esso, dato che l’operazione dell’Arca è persino con il pensiero.”
Ed anche questa partecipazione va bene, tant’è che:
“E vide Moshè tutta l’opera ed ecco che l’avevano fatta così come aveva comandato il Signore così l’avevano fatta; e li benedisse Moshè.” (Esodo XXXIX, 43).
“Disse loro: ‘Sia la Volontà che risieda la Presenza Divina nell’opera delle vostre mani, “Sia la grazia del Signore nostro D-o su di noi…” (Salmi VII, 17) e questo è uno degli undici Salmi composti da Moshè.” (Rashì in loco citando Bemidbar Rabbà 2, 9).
Ed allora possiamo tornare allo Shabbat:
La Torà ha detto “Poichè in esso ha cessato da ogni sua opera che ha creato il Signore per fare.” Ecco allora che il fare dello Shabbat è un fare diverso, è un operare nello spirito. Visto il rapporto inverso che c’è tra materia e spirito e tra creazione nella materia e nello spirito, di Shabbat l’astensione dal fare è fare. In questo modo possiamo risolvere la domanda del Malbim.
Moshè utilizza il verbo ‘fare’ per l’astensione dall’accensione del fuoco di Shabbat, perché il fare di Shabbat passa attraverso il non fare lavori proibiti. Allora capiamo anche perché di Shabbat non si costruisce il Santuario. Perché se il Santuario è la dimensione nella quale si rovescia l’opera della Creazione e si trasforma la materia in spirito laddove Iddio ha trasformato lo spirito in materia, ecco che di Shabbat la situazione è del tutto diversa. Di Shabbat è assolutamente chiaro che né D-o né gli uomini trattano di materia. Shabbat è il momento nel quale due processi che viaggiano in direzioni convergenti, la Creazione del Mondo e la costruzione del Santuario si incontrano nella astensione che si tramuta in azione dello spirito.
Allo stesso modo, lo abbiamo visto, il fare per il Santuario dello Spazio, così come per lo Shabbat Santuario del Tempo può avvenire anche nell’astensione dall’azione fisica laddove con lo spirito e l’intenzione si accompagna l’esecuzione di Bezzalel.
E questo perché è il nostro operato che definisce il Santuario, non il contrario. Nella Parashà leggiamo “cento basi per i cento talenti” (Esodo XXXVIII, 27). Sarebbe dovuto essere il contrario dice il Rabbi di Gur. Erano cento basi perché cento dovevano essere, oppure cento basi perché d’argento c’erano cento talenti?
“…e sembra che tutto l’Edificio Celeste sia secondo il dono che si trova nei cuori dei figli d’Israele e visto che c’erano cento talenti, l’opera fu di cento basi. E così in basso è secondo la radice, e questa è la questione del mezzo siclo”.
Siamo noi che con il nostro operato descriviamo il Santuario, ma il nostro operato ha un senso se è conforme alla sua matrice Celeste.
Ed infatti in un suo monumentale commento lo Sforno ci invita a mettere in proporzione quanto narrato nelle nostre Parashot così tecniche.
“Tutto l’oro: Ha testimoniato circa lo stanziamento dell’oro e dell’argento e del rame che è stato parte dell’Opera del Mishkan, che era cosa molto piccola, rispetto alla ricchezza che c’era nel Primo Tempio come è esposto nel libro dei Re (I, VI, 20-35 – VII, 48-50) e più di questo la ricchezza che c’era nella [ri]Costruzione di Erode [del Secondo Tempio] (TB Succà 51b). E con tutto ciò la Presenza della Gloria Divina fu più frequente nel Tabernacolo di Moshè rispetto alla frequenza del Primo Santuario, e non si rivelò affatto nel Secondo Santuario. E con ciò ha insegnato che non lo stanziamento della ricchezza e la grandezza dell’Edificio sono la causa del risiedere della Presenza Divina in Israele, ma che desidera il Signore i suoi tementi e le loro opere per risiedere in mezzo a loro!” (Sforno in loco).
Questo è il segreto del popolo ebraico che è paragonato alla luna, il cui rinnovarsi noi celebriamo ad ogni Rosh Chodesh ed in particolare in quello di Nissan che viene a noi in pace e benedizione, matrice di tutti i Capomese. È una celebrazione che avviene paradossalmente nel momento in cui la luna non c’è, non si vede. E noi, che come la luna siamo chiamati a scomparire dinanzi al Signore, a farci piccoli, abbiamo un senso quando capiamo che è proprio bakèse, nel nascondersi, che possiamo mostrarci. Nel non fare, fare. Nel ‘ucciderci sulla Torà’, vivere.
Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici