Tratto da “Responsa – Dilemmi etici e religiosi nella Shoà – Ephraim Oshry”, Morcelliana 2004
4. La lettura della Torà per i lavoratori forzati durante lo shabbat
Il 16 del mese di Elul 5701 (8 settembre 1941), i tedeschi emanarono un editto nel quale agli ebrei del ghetto di Kovno era imposto di trovare mille operai per lavorare a una pista d’atterraggio nelle vicinanze che doveva essere allargata in vista dell’arrivo di nuovi bombardieri. Fino a poco prima i tedeschi stessi erano riusciti a reclutare lavoratori, ma ora l’editto si rivolgeva all’Altestenrat o Consiglio degli anziani del ghetto, affinché provvedesse con mille ebrei ogni giorno.
Tale impresa richiedeva un sforzo diuturno, e gli sfortunati lavoratori erano costretti ad uscire dal ghetto per lavorare anche di shabbat. Vivevano in profonda angoscia, soprattutto quando mormoravano le preghiere dello shabbat mentre scavavano fossati e trincee. Con gli strumenti di lavoro nelle mani, costoro accoglievano la regina – lo shabbat – cantando sottovoce il lekhà dodì[1], e il loro cuore si riempiva di speranza e di fede, la fede del popolo eletto, che Dio volesse rispondere: «Troppo a lungo siete rimasti in questa valle di lacrime, ora la gloria di Dio sta per rivelarsi a voi».
La squadra di operai finiva il turno di lavoro alle 7.30 della sera. Sebbene forzati a profanare il giorno di festa, tuttavia volevano ascoltare la porzione settimanale della Torà, che si legge di solito durante il servizio mattutino dello shabbat. La domanda da essi posta era se la porzione della Torà della settimana potesse essere letta durante la preghiera vespertina detta minchà, oppure se avessero potuto leggerla solo prima di minchà. Inoltre, durante i mesi invernali, quando i giorni erano corti ed essi ritornavano che era già buio completo e lo shabbat finito da un pezzo, la domanda era se fosse ancora possibile ascoltare la porzione della Torà della settimana.
La mia decisione halakhica fu la seguente: durante l’estate, quando le giornate sono lunghe, una volta rientrati dal lavoro essi dovevano leggere la porzione di ogni shabbat e dopo eseguire la preghiera di minchà. In inverno, quando le giornate sono brevi, se fossero rientrati dal lavoro dopo la fine dello shabbat, non c’era modo per loro di adempiere questa specifica mizvà [precetto].
E tuttavia, dissi anche che sarebbe stato bene per loro sforzarsi di leggere la porzione della settimana da un [Pentateuco] durante i pochi momenti che i disgraziati tedeschi concedevano loro per mangiare, così che non avrebbero dimenticato la mizvà di leggere dalla Torà nel giorno di shabbat. Ciò venne adempiuto da un ebreo di nome Reb Shimon, che pregava nella casa di studio dei mercanti, sulla strada Javanà di Kovno. Per non trasgredire la mizvà, egli leggeva mentalmente da un piccolo Tanakh durante la pausa per mangiare.
5. Cucinare di shabbat nel ghetto
I nostri perfidi persecutori prelevavano ogni giorno mille uomini da far lavorare come schiavi in una pista d’atterraggio appena fuori la città di Kovno. Uno dei miei studenti, Reb Ja’akov – voglia il Signore far giustizia della sua morte – venne da me con il seguente problema.
Egli aveva la possibilità di lavorare nella cucina nella quale veniva preparato il rancio (una zuppa nera chiamata jusnek), con il quale i tedeschi sfamavano i lavoratori forzati, aggiungendovi cento grammi di pane al giorno per ciascuno. Il problema era che sarebbe stato costretto a lavorarvi anche di shabbat. Per lui, tuttavia, ciò costituiva un vantaggio: in tal modo gli era risparmiato il ben più faticoso lavoro coatto all’aperto, pericoloso sia fisicamente che psicologicamente. E dunque, si sarebbe potuto conservare più sano nel fisico e nella mente, riuscendo a sopravvivere nonostante la generale mancanza di cibo sofferta nel ghetto. Mi chiedeva inoltre se gli fosse permesso di mangiare durante lo shabbat di quella zuppa che egli stesso aveva cucinato di shabbat.
Decisi che gli era permesso di cucinare di shabbat, perché l’alternativa del lavoro forzato sulla pista d’atterraggio non era una profanazione dello shabbat minore del cucinare. In entrambi i casi egli avrebbe profanato il giorno di festa non di sua volontà, ma solo in quanto costrettovi. Tutto sommato, era preferibile che egli lavorasse nella cucina, così almeno avrebbe avuto cibo sufficiente per sostenersi. Gli permisi anche di mangiare la zuppa nera che egli preparava di shabbat, perché non è proibito mangiare il prodotto di un lavoro svolto di shabbat allorquando uno ne mangi per non morire.
[1] «Va’, o mio diletto, [incontro allo shabbat]». Inno liturgico, composto dal qabbalista Salomon ben Halevi Alkabez (c.15051585), che si recita durante la preghiera del venerdì sera per accogliere il giorno di festa. Nel testo, lo shabbat è chiamato “regina”.