Un viaggio tra la storia e le strade della Judecca o Guzzetta che si collocava tra il quartiere della Kalsa e quello dell’Albergheria col nome di Harat al-Yahud
Antonino Prestigiacomo – Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
Si registra già dal XVIII secolo uno studio interessante sugli ebrei di Sicilia. Essi vivevano in comunità in varie città dell’isola. Ma anche qui non ebbero vita facile. La responsabilità che si sono assunti della morte di Cristo, citata nel vangelo di Matteo «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» sembra non aver avuto tregua neanche in Sicilia.
Furono perseguitati, ghettizzati, vessati dalle tasse, obbligati a portare un segno di riconoscimento, costretti a partecipare alla santa messa all’interno delle chiese cristiane, gli vennero espropriati quasi tutti i beni, furono spesso condannati a morte e infine espulsi dal Regno di Spagna.
La presenza ebraica in Sicilia è rintracciabile già dal VI-VII secolo in tantissime città e paesi dell’isola grazie alle lettere del pontefice Gregorio Magno.
A partire da Palermo capoluogo, sino a Catania, Messina, Siracusa, Noto, Trapani, Agrigento, Mazara, Sciacca, Caltagirone, Termini, Marsala, e via discorrendo.
Per quanto riguarda la città di Palermo, vi sono stati molti studi rispetto ai luoghi in cui gli ebrei dimoravano. Ovvero, si è tentato di rintracciare i confini della cosiddetta Judecca o Guzzetta che si collocava tra il quartiere della Kalsa e quello dell’Albergheria col nome di Harat al-Yahud.
Secondo quanto ci riporta lo storico Nino Basile, approssimativamente tra la via del Giardinaccio e piazza Bellini era il limite sud-nord del quartiere ebraico e tra la piazzetta SS. Quaranta martiri e la piazzetta della Meschita era il limite ovest-est del quartiere, ovviamente prima del taglio di via Maquada e successivamente quello di via Roma, che hanno in parte distrutto e in parte diviso il quartiere ebraico.
Basile suggerisce inoltre il termine “Moschita” come più indicato di “Meschita” in virtù di un antico documento in cui il termine compare con la “o” piuttosto che con la “e”.
Sappiamo che vi erano almeno due ingressi al quartiere ebraico. Un ingresso era attraverso la cosiddetta “porta di ferro” sita all’inizio dell’attuale via dell’Università, l’altro è ancora esistente e lo si può vedere nella via dei Calderai ed è detto “arco della Meschita”.
Da alcuni atti notarili del XV secolo il Basile riscontra all’interno dei limiti del quartiere ebraico la presenza di almeno una sinagoga, di un ospedale, di un macello, di un luogo “della purificazione” detto Miqveh, ovvero un bagno ebraico, nonché di interi cortili, giardini e di case abitate dagli ebrei.
In verità all’interno della Giudecca doveva essere presente una sorta di complesso di sinagoghe, probabilmente ve ne erano più di una in seguito al fatto che era stato concesso agli ebrei di realizzare una nuova sinagoga laddove vi erano almeno dieci fra amministratori e assistenti che potevano occuparsene.
Tali sinagoghe potevano essere corredate da un chiostro o da giardino ma non dovevano avere decorazioni o abbellimenti vari.
È interessante notare come durante il dominio saraceno della Sicilia vi fu un numero elevato di ebrei arrivati nell’isola e che anche le sinagoghe venivano generalmente chiamate “Moschee” e così gli ebrei continuarono a chiamare il loro luogo di culto anche dopo che arrivarono i Normanni, sebbene tra essi alcuni le chiamavano più appropriatamente “Scuole”.
Per fabbricare una sinagoga generalmente bisognava scegliere un luogo nel quale avevano il domicilio almeno venti famiglie ebree, nelle città grandi come Palermo necessitavano per legge almeno quaranta famiglie domiciliate nel luogo in cui era previsto che sorgesse l’edificio.
Per quanto concerne il Miqveh di Palermo, cioè il “bagno ebraico”, alcuni storici e studiosi hanno rintracciato in una grotta ipogea sita nel sottosuolo di Palazzo Marchesi in piazza SS. Quaranta martiri il luogo atto a tale funzione, altri studiosi invece sono scettici nell’indicare questo come sito volto a svolgere il rito del battesimo ebraico e mettono in evidenza la differenza strutturale della grotta ipogea di palazzo Marchesi rispetto ad esempio all’accreditato bagno ebraico di Siracusa sito nell’antica “ruga delli bagni”, odierno vicolo alla Giudecca.
Però l’ipogeo di palazzo Marchesi potrebbe essere un “luogo di purificazione” delle donne. Gli ebrei non avendo accettato la venuta del Messia, pensavano che le donne dovessero essere continuamente “purificate” perché solo da “pure” potevano accogliere nel grembo il figlio di Dio.
Il bagno ebraico di Palermo viene citato come “il bagno di Goar” in un documento del 1303 facente parte di un testamento redatto da Simone e Maria Coco in favore dell’Ordine dei Teutonici, fra i beni compare infatti «Balnei Johar secus Domum Judaei».
Non veniva concesso agli ebrei di seppellire i propri morti all’interno del loro quartiere o della città, perciò non è stato possibile rintracciare il loro cimitero entro i limiti della Giudecca.
Tutti i beni “mobili e immobili” furono venduti dagli ebrei per pagare i creditori prima della loro diaspora, e molti nobili siciliani approfittarono dell’editto di Alhambra del 1492, che sanciva l’espulsione degli ebrei, per fargli proposte “indecenti” di vendita dei loro beni a prezzi davvero stracciati.
Gli stessi beni se non fossero stati venduti nei tempi limite dell’editto, sarebbero stati espropriati. Ma quale fu la causa dell’espulsione? Le cronache tramandano tale causa: «Nell’anno MCDXCI il dì delle Rogazioni, conducendosi processionalmente nella città di Castiglione il Santissimo Crocifisso, ove che il divoto popolo venne a passare dinanzi la casa di Bitone Sommo Sacerdote de’ Giudei, gittò questi dalla finestra un sasso, che direttamente colpì il santo Cristo, e troncogli un braccio. Sollevatasi a tale sfrontatezza, ed empietà in tumulto la pia gente, e particolarmente Andrea, e Bartolomeo Crisi fratelli, ne fecero immantinente le vendette coll’uccisione del sacrilego uomo.
I quali poi portatisi in Ispagna davanti al trono del Re, non solo restarono prosciolti da quelle pene, alle quali voleva soggettarli l’immatura risoluzione presa da’ regi ministri, ma vennero di più dallo stesso Monarca lodati ed abilitati alla domanda di gradevoli grazie.
Tra le quali quella fu, ch’eglino con preghiera accompagnata da lacrime, sopra ogni altra cosa istantemente domandarono: cioè che fossero gli ebrei sfrattati con perpetuo esilio dalla Sicilia, e da tutti insieme i regni di Spagna».
Dopo l’espulsione dai domini spagnoli, molti ebrei, avendo un certo affetto per i luoghi natii, tornavano a Palermo con la scusa di essere mercanti che avevano mercanzie da vendere, unico modo per poter entrare in città.
Ma quando fu scoperto che la vendita della merce era in realtà una scusa per tornare a Palermo, fu proibito loro perfino di negoziare in Sicilia.
Così dal Settecento in poi mai più vi fu la presenza di una comunità ebraica nell’intera isola, tranne alcune importanti famiglie di imprenditori tra l’Ottocento e il Novecento.
Nel 1992 viene fondato l’Istituto Siciliano di Studi Ebraici (ISSE) «questo istituto si è posto quale obbiettivo il recupero della memoria collettiva della presenza degli ebrei e dell’importante ruolo da essi svolto nell’arco di quasi quindici secoli di storia, per ridare loro voce e ricollocarli tra le componenti essenziali che hanno contribuito all’identità delle genti di Sicilia e Palermo in particolare […]
Il 12 gennaio, in occasione dell’ormai divenuta annuale cerimonia commemorativa della partenza degli ultimi ebrei palermitani, avvenuta in tale giorno del 1493 per effetto dell’editto di Granada, l’arcivescovo di Palermo Mons. Corrado Lorefice ha ufficialmente comunicato di voler concedere all’Istitutio Siciliano di Studi Ebraici, in comodato d’uso, l’oratorio del Sabato, da tempo in disuso e chiuso al pubblico, affinché al suo interno possa venire fondata la nuova Sinagoga di Palermo […]
Venerdì 8 settembre 2017 presso il Palazzo Arcivescovile, dove Mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, Mons. Giuseppe Randazzo, delegato per i beni temporali della Curia, e Lydia Schapirer, presidente della comunità ebraica di Napoli, hanno firmato l’atto di concessione in comodato d’uso dell’oratorio del Sabato».
Se vi aggirate intorno all’ormai noto quartiere ebraico di Palermo e vi soffermate a leggere i nomi delle vie, troverete delle tabelle che riportano tali nomi in tre lingue differenti: italiano, arabo ed ebraico.
Dopo tutto quello che gli ebrei hanno subito nei secoli, anche in Sicilia, e considerato che ancora oggi, a quanto pare per mancanza di fondi, non è stata aperta la nuova Sinagoga di Palermo all’interno dell’oratorio del Sabato, nell’area nella quale tra l’altro si pensa fosse situata l’antica Sinagoga del quartiere ebraico, quanto è stato fatto sinora mi pare troppo poco.
Forse gli ebrei avrebbero dovuto dominarci, come gli arabi o i Normanni, affinché gli tributassimo maggiore rispetto. Shalom!
(Per approfondimenti sul tema confronta anche Palermo Felicissima di Nino Basile Vol. III; Il Corriere Israelitico 1880; La Meschita il quartiere ebraico di Palermo di Francesco D’Agostino)