Giorgio Israel – Dagli archivi cancellati di Shalom – 9.7.2007
Non si può ridurre l’ebraismo ad un fatto privato ma deve potersi esprimere sulla condizione umana.
Non sarò certamente io a farmi avvocato difensore di Rav Riccardo Di Segni. In primo luogo, perché non ne ha bisogno e perché non ho competenza a intervenire sulla tematica talmudica su cui si è basato il suo tanto contestato intervento. In secondo luogo, perché la sua posizione non è affatto isolata, come testimonia l’intervento a favore del Family Day da parte della Rabbinical Alliance of America e di altre associazioni che raccolgono più di mille rabbini. Nel comunicato di adesione alla manifestazione romana si sosteneva che non ci si può esimere dall’affermare ciò che si ritiene giusto o sbagliato e dall’“affrontare direttamente e con un linguaggio esplicito una legislazione malvagia e chi la sostiene”. Si può più che legittimamente dissentire da queste affermazioni ma quel che è davvero stupefacente è che si avanzi un argomento di “laicità” per dichiarare semplicemente l’improponibilità o l’inopportunità che i religiosi aprano bocca.
Ho letto con attenzione tutte le repliche venute da parte del cosiddetto “ebraismo laico” all’intervento di Rav Di Segni e debbo dire che le ho trovate di una debolezza concettuale sconcertante. Più che entrare nel merito, si è contestata l’opportunità di intervenire sui temi in oggetto per non attentare alla laicità dello Stato e non violare l’indipendenza della sfera politica e civile dalla religione. Iniziamo col dire che il tema della laicità viene sollevato in modo sbagliato. Laicità dello Stato significa che le decisioni politiche vengono prese in condizioni di piena indipendenza dalle autorità religiose, ovvero senza che esista un loro potere di indirizzo di tali decisioni. Un esempio di stato clericale – il contrario di “laico” è “clericale” e non religioso! – è dato dall’Iran. Israele è uno Stato laico, sebbene il peso della religione e delle autorità religiose nella vita civile sia molto maggiore che in Italia, per molteplici aspetti che tutti conoscono, a cominciare dall’inesistenza del matrimonio civile. Per inciso, quando si invoca la maggiore tolleranza in Israele nei confronti degli omosessuali, non si dice che essa si esprime al di fuori della sfera matrimoniale, che invece taluno da noi individua come il territorio da conquistare per forme di convivenza diverse da quella tradizionale, sia pure dell’ottica del matrimonio civile (quale bizzarra contraddizione rivendicare la diversità e richiedere che venga ricompresa nel quadro della tradizione!).
Chiarito che la difesa della laicità significa preservare la sfera delle decisioni della politica da parte di un’intrusione diretta del “clero”, è assurdo e persino contrario al più elementare spirito democratico asserire che i gruppi religiosi e i loro esponenti non abbiano diritto a manifestare le loro opinioni, a difendere i principi morali e la visione sociale che ritengono giusta, con scritti, discorsi e ogni manifestazione che rientri nelle regole della convivenza civile. Dovrebbe dunque crearsi la situazione paradossale per cui qualsiasi associazione o gruppo (non sto a dettagliare con esempi che sono fin troppo evidenti) avrebbe il diritto di intervenire in ogni modo, di difendere il suo punto di vista talora con linguaggi di una radicalità e di una violenza che può ben essere definita integralista, e persino costituendo lobbies di pressione, anche in parlamento, mentre gli unici cui sarebbe precluso tale diritto sarebbero i religiosi? A tale punto di confusione mentale siamo giunti, a tale punto di fraintendimento di che cosa sia “laicità”? Siamo arrivati al punto di contrabbandare nuove forme di clericalismo come laicità?
Ma veniamo ai contenuti. Conosco bene la litania secondo cui vi sono cento modi di essere ebrei. Ma per quanti ve ne siano è da sperare che non si sia arrivati al punto di dimenticare che l’ebraismo è pur sempre una religione, per quanto peculiare. È da sperare che non si sia arrivati al punto di dimenticare che, se la civiltà greca ha introdotto nel mondo la conoscenza oggettiva della natura, l’ebraismo ha avuto il ruolo cruciale di introdurre la dimensione morale ed etica. Una religione che ha al suo centro il messaggio morale e che – come ha scritto il rabbino Jacob Neusner – porta questo messaggio per tutta l’umanità può forse astenersi dall’osservare e valutare cosa accade nel nostro mondo? Come ha detto ancora il rabbino Neusner, la religione, e il giudaismo in specie, “è una faccenda pubblica e sociale, è qualcosa che la gente compie insieme. Ridurre la religione a qualcosa di privato e di personale è trattare la religione come qualcosa di insignificante. […] il giudaismo e le altre religioni del mondo esprimono giudizi sulla condizione umana”.
Si può giudicare come si vuole la condizione attuale, ma nessuna persona seria può negare che stiamo attraversando uno snodo storico in cui sta accadendo qualcosa di assolutamente inedito nella storia dell’umanità. Sono oggi in discussione per la prima volta quelli che sono i pilastri della vita dell’uomo dalla notte dei tempi: la procreazione a partire dal rapporto tra un uomo e una donna e il tessuto naturale delle relazioni parentali, il ruolo della famiglia, la naturalità dei processi di riproduzione, che vengono aggrediti dagli interventi più indiscriminati di cui si sono avuti nuovi esempi raccapriccianti proprio in questi giorni. Chi può seriamente pensare che, di fronte a processi di tale portata proprio il pensiero religioso, che ha al suo centro i temi morali ed etici, se ne stia in un angolo e sia il solo soggetto a non avere il diritto di metter bocca, mentre qualsiasi altro soggetto è titolato a strepitare e persino a minacciare? Si può dissentire quanto si vuole dai rabbini americani di cui sopra, quando manifestano l’intenzione di intervenire “a sostegno delle famiglie assediate dall’involgarimento della cultura contemporanea”, ma tacciare questo di mentalità arretrata e clericale, ancor più che essere arretrato, clericale e intollerante, è manifestazione di una profonda incomprensione del ruolo della dimensione religiosa cui anche gli atei debbono concedere il diritto di esistere e manifestarsi.
Sono emerse in questa occasione visioni bizzarre e tutte riduttive dell’ebraismo. In certi casi esso viene ridotto a un insieme di vaghi sentimenti da manifestare rigorosamente nel privato per non disturbare la sensibilità dei “laici”. In altri casi, viene presentato come la generica appartenenza solidale a una comunità perseguitata, per cui l’essere ebrei si riduce a parlare dell’antisemitismo o a occuparsi di Israele. In altri casi ancora, si parla dell’ebraismo come se fosse un’ortoprassi ridotta a un insieme rachitico di abitudini, sempre da coltivare in privato o nello stretto cenacolo comunitario. Ma la visione più deprimente di tutte è quella di un ebraismo che sarebbe niente più che un presidio di laicità. Gli ebrei sarebbero diventati coloro che, per la loro storia di perseguitati, hanno assunto il ruolo di “polizia municipale” incaricata di difendere la tolleranza e la laicità.
Se davvero l’ebraismo fosse ridotto a una simile esangue condizione, in cui la dimensione religiosa, morale, etica e persino culturale è svanita, ci sarebbe da preoccuparsi seriamente per il suo futuro. Per fortuna, c’è dell’altro.