Quaderni di diritto e politica ecclesiastica – Speciale/2021, agosto – pp. 57-66
Fin dalle più remote origini bibliche l’ebraismo ha conosciuto situazioni di emergenze sanitarie e in particolare di epidemie. I racconti biblici di questi accadimenti suggeriscono anche delle interpretazioni teologiche: le piaghe d’Egitto (tra cui alcune epidemie) colpiscono il Faraone e gli Egiziani per la loro ostinazione nel rifiuto a lasciare andare gli ebrei in libertà (Es. 7 ss.); la mortalità è la conseguenza della richiesta improvvida di carne e dell’ingordiga (Num. 11); l’epidemia scoppiata a seguito della promiscuità con le donne midianite (Num 25:5) si ferma per l’intervento di Pinchàs che trafigge i due peccatori; l’epidemia che colpisce a seguito della rivolta di Qòrach viene fermata da Aharon fratello di Mosè che si frappone tra sani e malati e sparge il qetòret, l’incenso (Num. 17:10-13). Un’epidemia (bubbonica?) colpisce i Filistei perché trattengono presso di loro l’Arca, e non finisce se non quando decidono di restituirla (1 Sam. 4). In generale la malattia è una punizione per una colpa (Lev. 26, Deut. 28) e un comportamento corretto di fedeltà al patto con il Signore previene l’insorgenza delle malattie, così comuni in terra d’Egitto (Es. 15:26). Ma non si tratta di un’interpretazione esclusiva, perché le sofferenze possono colpire anche i giusti, o non essere più frenabili quando il male si scatena nel mondo.
Anche se si può essere colpevoli tanto da meritarsi una malattia, è legittimo, anzi doveroso, fare il possibile per arrestarla e salvare le vite. È proibito rimanere fermi davanti al sangue versato del prossimo (Lev. 19:16) e bisogna prevenire gli incidenti (Deut. 22:8). Ma bisogna anche tutelare la propria salute; concetto che i Maestri trovano nell’espressione “starete molto attenti alle vostre persone” (Deut. 4:15) decontestualizzandolo dall’originale significato nel brano. Numerose norme igieniche sono sparpagliate nella lettura rabbinica e sono in qualche modo già rappresentate in un sistema per molti versi tangenziale a quello igienico, di cui molto si parla nella Bibbia, la purità/impurità rituale. Bisogna essere molto cauti a non confondere gli ambiti, anche se molte norme come quelle sul trattamento delle persone colpite da tzarà’at (malattia dermatologica impropriamente intesa come “lebbra”, Lev. 13) o dal zov (che è verosimilmente la gonorrea, Lev. 15) prefigurano disposizioni sanitarie tuttora ampiamente adottate, dall’isolamento fino alla mascherina (Lev. 13:45).
Il sistema religioso ebraico è globale, riguarda tutti gli aspetti della vita, facendo convivere norme rituali con diritto civile e penale e tutela della salute. Inevitabilmente le diverse esigenza possono entrare in conflitto e in particolare le norme sanitarie con altre norme religiose, e questo pone il problema di quali siano le priorità e la scala di valori. L’ebraismo dei primi secoli dell’e. v. ha definito con precisione la materia ponendo la salvezza della vita come un obbligo primario rispetto a tutti gli altri precetti, con tre sole eccezioni: le gravi proibizioni sessuali, l’idolatria e l’uccisione di altre persone. Non è ad esempio consentito in determinate condizioni uccidere per salvare una vita (a meno che non si tratti di fermare l’aggressore). Tra le norme che passano in secondo piano rispetto alla tutela della vita c’è l’intero sistema del Sabato. Un brano polemico dei Vangeli fa dichiarare a Gesù che il “Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato” (Marco 2:27), come se fosse un principio rivoluzionario e non condiviso dai Maestri dell’epoca (e tuttora questo è l’uso che se ne fa nella predicazione). In realtà il principio era pienamente condiviso e se c’era un dibattito era sul fondamento scritturale di questa scala di valori; la soluzione proposta nei Vangeli non è che una delle tante presentate nel Talmùd (TB Yomà 85b) e che la spiega interpretando il versetto di Es. 31:14 (“è santo per voi”: è consegnato in mano vostra e non siete voi consegnati in mano sua”). Dopo aver presentato varie soluzione, il Talmùd alla fine preferisce l’esegesi sul versetto di Lev. 18:5, “Queste sono le regole che l’uomo osserverà e vivrà con loro”, che i Maestri interpretano nel senso che le regole servono a vivere e non a morire (a differenza di come lo spiegava Paolo, Galati 3:12, per il quale questo significava che la regola è la morte). Quindi se una persona sta in pericolo si trasgredisce il Sabato per salvarlo; se una persona si sente male perché sta ottemperando la regola del digiuno (come nel giorno di Kippùr) lo si fa mangiare e non si mette a repentaglio la sua salute. In tutto in un bilancio tra gravità della malattia e gravità della norma da rispettare/trasgredire: gravi malattie consentono di trasgredire gravi divieti, malattie lievi non consentono di trasgredire gravi divieti.
Le epidemie ripetutesi nel corso dei secoli hanno proposto e riproposto questi temi investendo tutti i capitoli della normale pratica religiosa. C’è stato un continuo adattamento alla situazione e alla precisazione di volta in volta di cosa fosse indispensabile fare anche a discapito dei precetti, che fossero positivi, cioè dei riti da svolgere, o negativi, divieti da rispettare. Ma prima del conflitto con le regole, c’era la norma essenziale di sfuggire al contagio; per questo il Talmud (TB Bava Qamma 60b) prescrive due soluzioni, il rinchiudersi in casa o la fuga, e nella letteratura di codificazione successiva la scelta tra queste due opzioni sarà dibattuta, finendo con dare la precedenza alla fuga, e solo se impossibile o inutile, la chiusura in casa.
Nella peste romana del 1656 il rabbino e medico Y. Zahalon, che era tra i responsabili dell’organizzazione sanitaria in un ghetto che era stato completamente isolato dal contesto urbano e nel quale la malattia faceva strage, ha lasciato un racconto preciso di quanto accadde. Tra l’altro scrisse che le sinagoghe rimasero chiuse e che i rabbini, nelle poche ore in cui era concesso circolare per le strade, predicavano dalle finestre delle loro abitazioni. Quando all’inizio del Covid le Sinagoghe sono state chiuse, questo racconto ha fatto testo.
Anche il problema dei vaccini è stato dibattuto. Poco prima della scoperta-invenzione di Jenner, si diffuse in Europa la pratica della inoculazione con materiale prelevato da pustole di malati di vaiolo, con la presunzione che la sostanza inoculata producesse una malattia meno aggressiva del vaiolo naturale. Il pubblico si divise, e tra lo scetticismo e la diffidenza generale condivisa dal rabbinato (non senza buoni motivi) vi fu un autorevole eccezione, quella di un rabbino italiano, Laudadio Sacerdoti di Modena (1723-1811) che formulò un cauto giudizio permissivo, basato su quanto gli dicevano i medici sulla poca rischiosità della procedura; in quel caso la scelta giuridica religiosa, oggi si direbbe bioetica, era tra l’affrontare un “piccolo” rischio a fronte di un rischio assai più grande che sarebbe intercorso con il contatto all’epidemia. Per fortuna di Sacerdoti, l’avvento poco dopo della vaccinazione Jenneriana sgombrò abbastanza il campo dal timore dei rischi e il mondo rabbinico accettò molto positivamente la procedura. Con il progresso delle conoscenze sulle cause e le modalità di diffusione dei vaccini l’attenzione si è spostata dal tema della protezione individuale a quello della collettività e dell’immunità di gregge, per cui la vaccinazione ha sempre più assunto l’aspetto di un dovere di solidarietà sociale. Sono argomenti che si ripropongono con forza nel caso dell’epidemia Covid-19. Al momento attuale il dibattito sul vaccino Covid ha visto la maggioranza dei rabbini schierati in favore del sì, sempre in base al ragionamento che è meglio evitare subito danni maggiori, a sé stessi e alla società, pur non escludendo ignoti e temuti effetti a distanza.
Lo scoppio dell’epidemia Covid-19 non ha fatto che riproporre le antiche questioni, con una serie di differenze dovute alla natura particolare della malattia di cui all’inizio poco si sapeva –e non molto si sa ancora ora- e le modalità di comunicazione e socialità fornite dai media e dal digitale. Per comprendere la natura dei problemi posti alla pratica ebraica, si deve tener presente che una sua parte considerevole è rappresentata da frequentazioni sinagogali, celebrazioni festive ciascuna con la sua particolarità, riti domestici, ampia partecipazione sociale e coinvolgimento dei bambini, centralità dei processi educativi.
Entrando nel dettaglio. La preghiera può essere personale o collettiva, ma quella collettiva è considerata più valida, radunando un quorum minimo di dieci adulti, secondo il principio che la preghiera del singolo può essere o meno ascoltata, mentre quella di una collettività, fosse anche di peccatori, non viene rigettata dall’Alto. Inoltre alcune preghiere possono essere recitate solo in presenza del quorum, così come la lettura pubblica della Torà. I mesi iniziali del Covid-19 hanno imposto la chiusura totale delle Sinagoghe, per un centinaio di giorni, e poi la loro apertura con un numero contingentato di pubblico, distanziato, afebbrile e con mascherina. Con le limitazioni all’accesso bisogna prenotare la propria presenza e chi entra viene registrato, per favorire eventuali comunicazioni in caso di presenze contagiose. Non è stato possibile fare altro che adattarsi alla situazione forzata; il rabbinato ha emesso una serie di disposizioni esplicative, indicando i principi che regolano la preghiera individuale e spiegando che anche in queste condizioni si può trovare un valore aggiunto nella maggiore concentrazione. Contestualmente sono state organizzate funzioni trasmesse in diretta per internet per aiutare chi non era in grado di leggere i testi in lingua ebraica. Qui sono emersi alcuni problemi specifici della religione ebraica. Il primo è quello che determinati precetti che si osservano con l’ascolto richiedono in molti caso un ascolto diretto e non mediato (altoparlante, telefono, tv, computer); ad esempio la lettura rituale di testi biblici in alcuni momenti; oppure il suono del corno, lo shofàr, durante la festa del Capodanno. In alcuni casi ci si è basati su sentenze lenienti in casi di forza maggiore, come per la lettura del rotolo di Ester, obbligatoria nella festa di Purìm: i rigori su scala nazionale sono scattati proprio la notte di Purim, al mattino le sinagoghe erano vuote e il rotolo di Ester è stato letto su Internet. In altri casi internet non poteva essere usato e la soluzione è stata quella di suonare lo shofàr nelle strade dei quartieri a maggiore presenza ebraica, rispettando il distanziamento. L’altra difficoltà è che determinate preghiere per poter essere recitate richiedono la presenza, come si è detto, di dieci adulti; presenza che può essere entro certi limiti distanziata ma non elettronica virtuale. Qui si è aperta la discussione se il quorum si potesse raggiungere anche su zoom e la risposta prevalente è stata negativa. D’altra parte è stato fatto notare che l’apparente rigidità della regola è una salvaguardia per il futuro; negli scenari del dopo pandemia non sappiamo come sarà il ritorno alla normalità e in che modo dopo l’esperienza della socialità digitale si riprenderà quella consueta. A questo punto la richiesta della regola rigorosa serve a tutelare la positività della socialità tradizionale e la sua importanza.
La terza difficoltà è rappresentata dalle regole sul rispetto del sabato e delle feste che comprendono la proibizione dell’uso diretto dell’elettricità. Di Sabato non si accende la luce e non si usano telefonini e computer. Quindi trasmettere digitalmente, e collegarsi per ascoltare delle funzioni di Sabato è certamente vietato; il problema si è posto per le feste nelle quali c’è una discussione, tra scuole opposte, sulla liceità in determinate condizioni dell’uso dell’elettricità. La questione è scoppiata alla viglia di Pesach, la Pasqua ebraica, che si celebra con solennità in grandi riunioni famigliari le prime due sere, ed è un avvenimento fondante nella vita di ogni famiglia ebraica. Il lockdown proibiva assembramenti e spostamenti; e allora quale migliore soluzione poteva esserci di una cena pasquale con zoom? La polemica è stata vivace, il rabbinato è stato fermo a dire che non era consentito, molti però nelle loro famiglie l’hanno fatto.
Interi capitoli di vita sociale religiosa sono stati sospesi. A Purim, che è la festa mascherata soprattutto dei bambini, non è stato fatto nulla; a Chanukkà, la festa invernale in cui negli ultimi anni si è diffusa la consuetudine di grandi cerimonie nelle piazze pubbliche per l’accensione dei lumi della lampada, tutto si è ridotto al minimo; ma anche in questo caso l’occasione è stata propizia per sottolineare l’importanza dell’osservanza della norma in sede famigliare, che rischiava di passare in secondo piano. Pranzi e cene più meno rituali con famiglia e amici sono state per forza abbondonate. Chi ne ha fatto le spese sono stati i riti del ciclo della vita: la nascita, con la circoncisione del maschio a 8 giorni, o la benedizione della neonata, che sono state celebrate alla chetichella entro le mura domestiche senza ospitare amici; le maggiorità religiose, in cui ragazzi e ragazze hanno dovuto rinunciare a festeggiamenti solitamente importanti; i matrimoni, prima sospesi, molti rinviati sine die, alcuni ripresi timidamente con numero limitatissimo di invitati. Il rabbinato ha sottolineato la necessità di non rinviare, ma molto spesso è rimasto inascoltato da chi non vede come un evento del genere possa essere fatto in dimensioni tanto contenute. La benedizione dei bambini, che si fa alla fine delle feste, e di solito richiama gruppi festosi è stata fatta per zoom da sinagoghe vuote.
Un obbligo, che è anche una consuetudine comune, è quello di visitare i malati, specialmente i più gravi e di assistere i morenti. Tutto questo è venuto a mancare a cominciare dai ricoveri normali, in cui è stato precluso l’accesso a chi non poteva dimostrare di essere negativo a esami diagnostici aggiornati. Penosa per le persone e per i famigliari è stata la circostanza del trapasso, in solitudine, con la sola compagnia di personale mascherato e macchine di rianimazione. Particolari conseguenze hanno subito i riti funebri, sia per quanto la ritualità stessa che per la parte sociale. In un normale funerale la salma prima di esser sepolta viene sottoposta a un lavaggio rituale, questo non è stato più possibile, non solo per i pazienti morti di Covid-19 ma per tutti gli altri. La salma va sepolta in terra e la cremazione è proibita; nei momenti peggiori si è profilata l’eventualità della cremazione, ma almeno in Italia questo problema non si è posto alle comunità ebraiche. Solitamente assistono a un funerale parenti e amici ed è richiesta la presenza di un quorum per recitare determinate preghiere che in quel momento sono considerate importanti, e questo non è stato possibile. Nei setti giorni dopo il decesso i famigliari stretti rimangono chiusi in casa, dove ricevono visite e vengono organizzate riunioni di preghiera; anche questo è stato sospeso. In tal modo il lutto si aggravato con la privazione di riti e consuetudini che hanno lo scopo di recare conforto e condurre la persona colpita lentamente fuori dal lutto per la perdita. Non siamo comunque alle dimensioni terrificanti delle epidemie di peste medievale, che avevano indotto un’importante autorità rabbinica Yaakov ben Moshe Levi Moelin (noto con il nome in sigla Maharìl, Germania 1360-1427) a sospendere i riti di lutto per non gravare ulteriormente sullo stato di depressione collettiva.
Su un campo speciale di normative, quello dei bagni rituali, è stato necessario intervenire con misure rigorose. Le persone si purificano in uno speciale bagno, il miqwè, che deve essere costruito secondo norme precise e che di solito si trova in strutture dentro o vicine alle Sinagoghe. Fanno spesso il bagno gli uomini, per rispettare una particolare disciplina di purificazione, che è suggerita ma non obbligatoria, e le donne, sette giorni dopo la fine del ciclo mestruale, per riprendere la vita coniugale. Con il diffondersi della epidemia, l’accesso agli uomini che comunque avveniva in orari diversi e con ricambio completo dell’acqua, è stato del tutto impedito; mentre per le donne sono state imposte misure rigorose, impedendo l’accesso a chi era in quarantena o esposto e regolando l’accesso a una alla volta, in tempi ridotti, con disinfezione della vasca e sanificazione dei locali prima e dopo, uso di materiali personali da portare via e altre misure igieniche.
Le procedure di produzione di alimenti secondo le regole della kasheruth hanno avuto dei rallentamenti e delle difficoltà organizzative, legate al fatto che per molti prodotti è richiesta la presenza di un controllore, in località distanti dai centri urbani, e che la macellazione rituale avviene in mattatoi selezionati che vanno raggiunti con viaggi e il personale addetto spesso viene dall’estero; incastrare le lavorazioni con le quarantene e i divieti di spostamenti ha comportato enormi difficoltà.
Lo studio e l’educazione sono precisi doveri religiosi, quindi il problema della scuola e delle attività di studio più o meno formali è anche un problema religioso. Non c’è stata alternativa all’attenersi alle disposizioni governative che hanno imposto prima la chiusura poi il contingentamento, ma l’investimento per risolvere in altro modo i problemi è stato appassionato. Si è cercato di fornire ogni studente i mezzi necessari per lo studio a distanza. Un’intera serie di attività culturali e di formazione religiosa si sono trasferite su internet, e, con grande sorpresa degli organizzatori e dei docenti, hanno richiamato un pubblico assai più vasto di quello tradizionale, gettando così le basi per nuove modalità di comunicazione che dovranno essere seguite anche in epoca post Covid.
La crisi economica ha comportato gravissime difficoltà anche per famiglie che riuscivano in condizioni normali a sopravvivere dignitosamente. Le comunità, secondo un comando religioso antichissimo, provvedono all’assistenza ai bisognosi, per quanto è loro possibile. L’emergenza Covid-19 ha moltiplicato i problemi e ha messo in crisi un sistema che anche nella normalità è perennemente precario. Sono state organizzate campagne di reperimento fondi e di distribuzioni di generi di prima necessità. Tra l’altro, la regola prescrive in queste attività la massima discrezione, in modo che chi riceva non si trovi esposto, e il rispetto di questa regola non è stato semplice in momenti di aumentate necessità.
I rabbini di tutto il mondo sono stati sottoposti a quesiti su come comportarsi in tutte le situazioni determinate dal Covid-19 in cui la normale osservanza delle regole diventava impossibile o complicata. C’è stata una fitta rete di comunicazione e le possibilità attuali sono state sfruttate al massimo, con circolazione istantanea di domande e risposte. Sono usciti almeno già due libri che raccolgono risposte di autorità riconosciute (rav Asher Weiss, in Israele, e rav Hershel Shachter, negli Stati Uniti). Sfogliando gli indici si trovano argomenti come questi: l’obbligo di rispettare le prescrizioni dei medici e delle autorità sanitarie; come comportarsi nei digiuni; ordine di precedenza nel salvataggio di malati gravi, in situazioni di risorse limitate; uso di medicine sperimentali; liceità di attaccare due pazienti allo stesso respiratore; se sia consentito tagliarsi la barba per fare aderire meglio la mascherina; se sia permesso o obbligatorio mettersi in pericolo, contraendo la malattia, o come campione per vaccini da testare, per salvare altri; se sia lecito o obbligatorio denunciare alle autorità chi trasgredisce le regole sanitarie; se si possano portare a un malato ricoverato gli oggetti per la preghiera, con il rischio che vengano rovinati o poi distrutti; quale disinfettante per la cute sia utilizzabile di Sabato (in cui è proibito ungersi con creme); per chi ha interrotto, per la chiusura delle Sinagoghe il ritmo della normale lettura pubblica della Torà (di cui si legge un brano differente a settimana), da dove riprendere al momento della riapertura; se si può di Sabato diffondere la notizia di un contagio; se si possono organizzare riunioni di preghiera all’aperto con le persone che stanno sui balconi; se e come si può misurare la temperatura corporea di chi accede alla Sinagoga di Sabato; come organizzare la lettura della Torà nella Sinagoga, che prevede la presenza di tre persone a distanza ravvicinata (in questo caso, anche a Roma abbiamo adottato barriere di plexigas). La regola ebraica disciplina anche il diritto civile e si è occupata quindi di tanti altri problemi: la disciplina degli affitti, per chi si è dovuto spostare non potendo più usare la sua abitazione; il pagamento dell’affitto per negozi che hanno smesso di lavorare; chi ha prenotato un servizio, ad esempio un viaggio in un’agenzia, e non l’ha potuto utilizzare; chi ha contagiato altri, sapendo di essere contagioso, se debba rifondere il danno procurato.
Va detto che nel mondo ebraico, come del resto anche al suo esterno, non molti si sono adeguati alle disposizioni sanitarie, considerandole inutili, dannose, eccessive. Particolare scalpore ha destato il comportamento di alcuni gruppi molto religiosi (charedìm, i cosiddetti “ultraortodossi”) che in Israele e negli Stati Uniti hanno opposto resistenza alle chiusure di Sinagoghe e scuole e ai divieti di assembramento in occasione di matrimoni e funerali. In realtà c’è stato molto dibattito e solo alcuni gruppi non hanno rispettato deliberatamente le regole. Nelle polemiche che ne sono nate sono stati spesso usati termini molto duri nei confronti dei disobbedienti, sia all’interno che all’esterno dell’ebraismo, con toni risentiti e sproporzionati e doppi standard di giudizio. Qualcuno ha fatto notare che i giudizi trancianti sono inappropriati; che un’occasione di scandalo sono state le esequie a un anziano 94enne cui hanno partecipato migliaia di persone. Ma l’anziano era un sopravvissuto di Auschwitz ed era stato il protagonista della ripresa della vita della comunità a New York per tutta la sua vita, guidandola con consigli miti e sapienti. Onorare una personalità del genere per molti ha significato non dimenticare determinati valori sociali e storici che la pandemia sta facendo a pezzi.