Riccardo Di Segni
Rassegna Mensile di Israel – Settembre-Dicembre 2008 – Vol. LXXIV, N. 3
Introduzione
La neonatologia, disciplina medica che si occupa dell’assistenza ai neonati, ha compiuto negli ultimissimi anni progressi incredibili, che hanno dato la possibilità di salvare neonati che non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivenza ancora 20 o 30 anni fa. Un neonato normale nasce al termine di una gravidanza fisiologica. Prematuro, secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è il “nato vivo partorito prima della 37a settimana di gestazione”. Se questo termine temporale è molto anticipato (22-28 settimane) si parla di “estremamente” prematuro o, con un termine un po’ equivoco, di “grande” prematuro. L’equivoco sta nel fatto che il peso del “grande” prematuro, rispetto a quello fisiologico alla nascita di un bambino a termine (in media di 3000 grammi) è notevolmente ridotto.
La novità impressionante è che oggi i limiti di peso alla nascita compatibili con la vita si sono abbassati fino ai 500-600 grammi e l’età gestazionale compatibile con la vita è quella di 25 settimane. I progressi non sono tuttavia solo successi, perché le percentuali di sopravvivenza si possono accompagnare a gravi malattie e invalidità; il prematuro salvato può diventare una creatura sofferente per tutta la sua esistenza, con notevole carico per lui stesso, per la famiglia e per le strutture assistenziali. Tutto questo apre le porte ad una discussione bioetica drammatica su cosa sia lecito fare o non fare alla nascita di un prematuro, in particolare se è un “grande” prematuro, e quali siano i soggetti legittimati a prendere decisioni. La discussione bioetica ha coinvolto in primo luogo gli operatori professionali (ostetrici, neonatologi, rianimatori ecc.) ma subito dopo l’intera società nelle sue diverse componenti e rappresentanze, che di questo si stanno attivamente occupando, producendo documenti, spesso con orientamenti contrastanti.[1]
È inevitabile che il problema investa anche il mondo ebraico, e che si chiedano risposte nella cornice della halakhà, la legge tradizionale ebraica.
Alcuni dati tecnici
Per la migliore comprensione del problema sono necessarie alcune premesse tecniche. Nella pratica medica l’età gestazionale si calcola a partire dall’inizio dell’ultima mestruazione e in condizioni fisiologiche la durata è di circa 280 giorni, pari a 40 settimane. Nella letteratura rabbinica l’età gestazionale parte dal concepimento, quindi almeno 11-12 giorni dopo l’inizio della mestruazione (anche per chi non rispetta i termini delle regole della niddà), ed è di circa 271 giorni. I dati che seguono, salvo diversamente indicato, si riferiscono all’età gestazionale in termini medici. Le cause delle nascite estremamente premature sono varie: fetali, placentari, uterine, materne; in alcuni casi sono intenzionali, come l’interruzione volontaria di gravidanza, di cui una motivazione può essere la tutela della vita della madre; assume rilievo recente la pratica della procreazione assistita con gravidanze multiple. Allo stato attuale delle conoscenze, al disotto delle 22 settimane la sopravvivenza del neonato è impossibile; a 22 settimane è del 10-15%; a 23 del 30%; a 24 settimane del 50%; al disopra delle 25 settimane può esservi sopravvivenza, di solito dipendente da cure intensive; nelle settimane 23 e 24 si entra in una fascia definita di “incerta vitalità”.[2] La precarietà del piccolo è legata prima di tutto alla sua condizione di immaturità, sia temporale che da ritardo di sviluppo endouterino; a questa si aggiunge l’eventualità drammatica dell’emorragia cerebrale di quarto grado, che solo nel 10-15% dei casi può non lasciare reliquati, mentre negli altri espone a conseguenze dal lieve a gravissima; le alterazioni neurologiche comprendono funzioni cognitive subnormali, paralisi cerebrale, cecità e sordità. Malattie polmonari croniche si verificano a 23 settimane nel 57-70% dei sopravvissuti, al 24 dal 33-89% a 25 dal 16 -71%. Un altro gruppo nasce con gravi alterazioni genetiche o da infezioni virali. Si valuta che il 46% dei bambini nati sotto ai 1000 grammi avranno all’età di 8 anni una o più limitazione di attività giornaliere.[3]
Le domande
Le domande principali che tutti si pongono, e che ovviamente investono il campo ebraico, sono: come ci si comporta con un neonato certamente destinato a non vivere? Come ci si comporta con un neonato per il quale ci sono ragionevoli possibilità di sopravvivenza insieme al rischio di gravi malattie invalidanti? Se vanno prese delle decisioni, chi le deve prendere, e in particolare qual è il ruolo dei genitori?
È noto che in generale esistono due importanti presupposti nella halakhà: il primo è che i diritti completi della persona si acquisiscono al momento della nascita, da quando la testa del neonato è uscita dal corpo materno;[4] il secondo è che ogni persona va curata e assistita, anche profanando altri divieti maggiori come quelli del sabato, anche se esiste una brevissima prospettiva di sopravvivenza.[5] Dovendo applicare questi presupposti alla lettera è evidente che non c’è spazio per le discussioni: il neonato sarebbe una persona con tutti i diritti e come tale va tenuto in vita a ogni costo. In realtà, la situazione che si delinea in base alle fonti classiche della halakhà e al loro sviluppo nel dibattito contemporaneo è molto più complessa.
Le fonti
Ogni ragionamento halakhico deve partire dall’esame delle fonti classiche, che in questo caso pongono non pochi problemi sia per come sono state interpretate nel corso della tradizione, che per quello che conosciamo oggi scientificamente. Il termine ebraico corrente per indicare il prematuro è pag, usato nella letteratura rabbinica per indicare frutta immatura,[6] ma non i neonati. Il termine rabbinico classico è quello di nefel, “caduto” (happalà è l’aborto). Il termine indica sia il neonato a termine con gravi alterazioni incompatibili con la vita,[7]7 che il nato prima del termine e non completamente sviluppato. In questo secondo senso la definizione s’identifica con la condizione di chi è nato all’ottavo mese di gravidanza.
Il nefel sta in una posizione intermedia tra la vita e la morte; non è vivente, perché non ha speranza di vita, né è morto. È chiamato nefesh (persona) e walad (nato) ma non è chiamato né adam né ish (i termini che indicano l’uomo).[8] La regola rabbinica se ne occupa in numerosi ambiti, dalle regole del Sabato a quelle sulla circoncisione, del riscatto del primogenito, dell’omicidio, del lutto, dell’eredità, del levirato. Chi uccide un nefel non è passibile delle pene che si comminano per un omicidio, ma questo non vuol dire che sia consentito uccidere un nefel.
Nel pensiero medico legale dei rabbini dell’antichità era condivisa l’idea che i nati all’ottavo mese di gravidanza fossero a grave rischio di sopravvivenza, a differenza dei nati al settimo e al nono. Tale era la forza di questa convinzione che la regola prescriveva che per i neonati del settimo e nono mese fosse consentito profanare il Sabato, a differenza di quelli dell’ottavo mese, considerati come condannati a morire entro breve termine. In alcuni casi tuttavia l’esperienza mostrava che anche i nati all’ottavo mese sopravvivevano, e per risolvere la contraddizione venne elaborata la teoria della “doppia creazione”, sostenuta anche da un midrash.[9] Secondo questa teoria vi sono due linee di sviluppo fetale, una che si completa in sette mesi, e un’altra in nove. Chi appartiene alla linea del settimo mese, quando nasce al settimo è sviluppato normalmente e sopravvive; così chi appartiene alla linea del nono, quando nasce a termine. Chi nasce all’ottavo mese, se appartiene alla linea del nono mese è immaturo e non sopravvive, ma se appartiene alla linea del settimo mese è un neonato completo che si è “trattenuto” nel grembo materno e alla nascita sopravvive. Si pone quindi la domanda di come definire e identificare il nefel che non ha possibilità di sopravvivenza. La fonte più antica[10] dà diverse definizioni:
a. senza il nome del Maestro: si tratta del neonato prematuro. Come spiegheranno le fonti successive, per poterlo sapere bisogna calcolare il tempo trascorso dal bagno rituale della madre, e per essere certi ci deve essere stato un unico rapporto;
b. a nome di Rabbi Yehuda haNasì: il nefel si riconosce per incompleto sviluppo delle unghie e della peluria. Si tratta di segni fisici non ben definiti e identificabili con difficoltà; altri ancora ne sono stati aggiunti nella tradizione, con valore incerto;
c. a nome di Rabban Shimon ben Gamliel: se sopravvive trenta giorni dalla nascita, a posteriori non è considerato “nato all’ottavo”.
La prima difficoltà conseguente a questa fonte è la definizione della halakhà, la regola finale, in rapporto alle diverse opinioni della fonte: non è chiaro se le opinioni siano in conflitto o si integrino; quale sia delle tre l’opinione decisiva, se sia sufficiente una sola delle tre definizioni, o ne servano almeno due.[11] Nella letteratura ritualistica si trovano effettivamente diverse soluzioni. Può essere utile citare, tra le diverse formulazioni, la codificazione di Maimonide, Milà 1:13:
Chi è nato all’ottavo mese, se era completo nella peluria e nelle unghie, è un neonato completo, che era della linea settimina e si è trattenuto nel grembo materno; è permesso spostarlo di Sabato e lo si circoncide di Sabato; ma se quando nasce la peluria è mancante e le unghie sono incomplete è certamente dell’ottavo mese, che doveva nascere al nono ed è uscito prima di completarsi, pertanto è considerato come una pietra ed è proibito spostarlo di Sabato; ciò malgrado se è sopravvissuto 30 giorni è considerato neonato vitale, pari in tutto a tutti i neonati, perché chiunque sopravvive per trenta giorni non è nefel.
Lo Shulchan ‘Arukh di Yosef Caro nelle regole del Sabato (Orach Chayym 330:7) così prescrive:
Si fa al neonato tutto ciò di cui ha bisogno…; questo per un nato al nono o settimo mese; ma per chi nasce all’ottavo, o è in dubbio se sia settimo o ottavo non si profana il Sabato a meno che la peluria e le unghie non siano complete.
L’altro problema, che sembra un problema recente della nostra epoca, è come conciliare queste indicazioni e le teorie che le giustificano alla luce dei dati scientifici a nostra disposizione. La prima contraddizione sta nel dato scientifico che nega l’esistenza di due linee di sviluppo, una di sette mesi, l’altra di nove. Oggi sappiamo che c’è un’unica linea e che le possibilità di sopravvivenza dei neonati sono direttamente legate all’età gestionale, per cui non c’è un vantaggio dei settimini rispetto ai nati all’ottavo mese. L’altro dato è l’effettiva possibilità di salvare neonati prematuri, non solo quelli dell’ottavo mese ma quelli ancora più precoci.
Dal punto di vista storico sappiamo che le teorie talmudiche corrispondono a concetti diffusi e accettati come verità scientifiche nel mondo antico, a partenza dalle scuole mediche greche. Ad Ippocrate è attribuito il trattato fondamentale su questo tema, Peri Oktamenou. Malgrado le obiezioni formulate già nell’antichità (anche Aristotele dissentiva) e anche nel mondo ebraico (un esempio di dubbio è in Filone), la dottrina è stata accolta nelle scuole di medicina fino e oltre il medioevo. Qualcuno ha supposto che si tratti di un grossolano equivoco derivato dalla fiducia incontrollata di alcuni grandi medici dell’antichità nelle versioni raccontate dalle donne; laddove invece era possibile che le donne riferissero di una gravidanza settimina per nascondere rapporti illeciti pre- o extra-matrimoniali. Rimane tuttora diffusa a livello popolare in un’ampia fascia geografica che comprende anche l’Italia.[12]
Il caso sarebbe tra i più emblematici di una palese contraddizione tra evidenza scientifica e fonti della tradizione ebraica, che impone di elaborare soluzioni che da una parte non neghino l’evidenza e dall’altra non cancellino la tradizione.[13] Le soluzioni prospettate sono diverse: per alcuni[14] “sono cambiate le nature” (nishtanù hativ’im) per cui oggi si ha a che fare con una realtà biologica diversa da quella descritta nell’antichità; per altri, ciò che è cambiato è la frequenza dei fenomeni, per cui se prima c’erano molti noni che nascevano ottavi – e quindi a rischio – oggi ci sarebbero molti più settimini destinati a sopravvivere;[15] per altri ancora[16] non è cambiato nulla dal punto di vista biologico, ma è cambiata la tecnica e la possibilità di curare, per cui non si può più considerare destinato a morte certa chi invece può sopravvivere grazie alle cure.[17]
Le conclusioni che derivano da queste analisi sono che oggi, visto che è possibile salvare un neonato grazie alle terapie, non vale più la regola dell’ottavo mese e quindi si profana il Sabato per salvarlo. Tuttavia anche se l’evidenza scientifica impone una revisione o una reinterpretazione della regola classica, rimane di questa in ogni caso valido un principio: aldilà dell’età gestazionale la regola distingue tra chi ha probabilità di salvarsi e chi no. Chi non ha possibilità di sopravvivere, o è molto dubbio che le abbia, non è una persona tutelata a tutti gli effetti, ma rientra nella categoria di nefel. Il nefel, giuridicamente, esiste ancora, anche se non è più automaticamente chi nasce all’ottavo mese.[18] Per il nefel non si profana il Sabato.
Un’altra serie di dati importanti per la discussione attuale si ricava dall’esame di un altro problema, che riguarda un altro tipo di vivente che non gode degli stessi diritti completi del neonato a termine: il feto. Un problema pratico affrontato dalle fonti antiche è se sia consentita ad una donna incinta l’interruzione del digiuno di Kippùr per salvare il feto; non c’è dubbio che la regola codificata lo consenta.[19] Ma si tratta di capirne le giustificazioni. È un principio fondamentale della legge rabbinica che per salvare una vita umana sia lecito trasgredire divieti rigorosi come quelli del Sabato. Il Talmud, che dà per scontato questo principio, porta però diverse giustificazioni. Una di queste, a nome di Rabbi Shimon ben Menassia, si basa sul verso che dice «i figli di Israele osserveranno lo Shabbat» (Es. 31:16), da cui la regola: «profana per lui un Sabato, perché ne possa osservare molti altri»; un’altra sull’interpretazione del verso di Lev. 18:5 «osserverete le mie leggi e le mie regole, che l’uomo (haadam) farà e vivrà con loro (wachay bahem)»; «vivrà con loro», ragiona Rabbi Yehudà a nome di Shemuel, significa che i precetti devono portare la vita e non la morte.[20]
Ora, se è chiaro che il principio riguarda gli esseri viventi dalla nascita, non è così automatico che si estenda anche al feto. Opinioni minoritarie ritengono che se è il verso del Levitico a far testo, non si può salvare il feto, perché non è ancora adam, essere umano a tutti gli effetti; se invece vale anche l’altra regola, il feto si salva perché possa in futuro, come uomo, osservare tanti Sabati. Un’ulteriore analisi della discussione, fatta dal Natziv[21] aggiunge un’altra variabile, quella dell’incertezza; la regola del Levitico si applica per salvare un adam anche in caso di dubbio, perché è comunque adam; mentre la regola dei “molti Sabati” si può applicare solo in casi certi e non di dubbio (perché la giustificazione della trasgressione è data dalla presunzione di sopravvivenza); più precisamente ci deve essere una presunzione di sopravvivenza fetale maggiore del 50%. Questa analisi viene trasferita all’interpretazione della regola dello Shulchan ‘Arukh, sopra citata, a proposito del Sabato e il neonato prematuro. Rispetto al feto, il neonato immaturo è in uno status migliore, in quanto è venuto alla luce; ma se è evidente che è gravemente sofferente, con poche possibilità di vita, potrebbe essere meno protetto dalla legge rispetto a un feto sul quale c’è comunque una maggiore presunzione di sopravvivenza. Le conseguenze sono che se lo Shulchan ‘Arukh si basa sulla regola del Levitico (“vivrà con loro”), questa non vale per i prematuri senza possibilità di vita; se segue la regola dei “molti Sabati” si può intervenire per salvare un prematuro, ma solo se ci sono più del 50% di possibilità che si salvi.
Il passaggio logico tra le regole del Sabato e del giorno di Kippur al problema generale del trattamento del prematuro va chiarito meglio. Perché dai casi del Sabato e del Kippur si deduce in primo luogo che le regole dei giorni festivi non si profanano in determinate circostanze (assenti o ridotte possibilità di sopravvivenza); ma che c’entrano Sabato e Kippur con il problema generale? In un giorno feriale si deve/si può intervenire? La risposta è che dalle regole del Sabato e Kippur si deduce quale è lo stato del prematuro, se e in quali condizioni sia valutabile come essere umano.
Se si dice che in determinate condizioni si profana il Sabato, a maggior ragione in ogni altro giorno della settimana si dovrà intervenire. Ma se il nefel non è, come si è detto, adam, tecnicamente non scattano le regole che obbligano di intervenire in base al Lev. 19:16 «non rimanere impassibile davanti al sangue del tuo prossimo». E questo in qualsiasi giorno. Ma questo non significa che debba essere abbandonato senza che debbano entrare in gioco altri principi, come quello della misericordia, che impone in ogni caso un comportamento compassionevole.[22]22
I pareri espressi dai contemporanei
I pareri autorevoli espressi sulla questione così complessa vanno ricercati tra gli scritti degli ultimi anni e sono purtroppo frammentari e come spesso accade, non necessariamente univoci. A nome di Rav Shlomo Zalman Auerbach, uno dei maggiori decisori del nostro tempo, sono riferiti due pareri nel noto libro di Rav Neuwirth sulle regole del Sabato:[23] in generale si salva un neonato, nato anche prima dei sette mesi; tuttavia se la prospettiva di vita è minima (chayye sha’à), mentre si fa qualsiasi cosa per un neonato a termine, anche se con gravi malattie, non si interviene per un nefel. C’è un altro parere riferito a suo nome, che aggiunge un nuovo elemento alla discussione:[24] «In ospedale, anche quando sia chiaro che il piccolo non può vivere che per breve tempo, è permesso e obbligatorio profanare il Sabato, perché nel luogo in cui vi sono molti curanti e non tutti sanno distinguere tra un piccolo con ridotte prospettive di vita e altri con maggiori prospettive, si rischia di trascurare le cure nei confronti di coloro che hanno possibilità di sopravvivere».[25] Ancora un altro parere si riferisce a un neonato in 24a settimana, con prospettive di vita inferiori al 10% (secondo le possibilità terapeutiche di allora), per il quale il rav decide che non c’è alcun obbligo di intervenire, ma se lo si vuole lo si può fare anche trasgredendo il Sabato.[26] Questi pareri possono essere contraddittori, e c’è chi spiega che nel pensiero del rav il rischio di trascurare le cure ai neonati con maggiori possibilità non si pone quando c’è una precisa decisione su un neonato che chiaramente non ha possibilità di sopravvivere.[27]
A. Steinberg così sintetizza: un neonato con grave difetto che può essere fatto vivere, va curato, fatto vivere e si profana per lui il Sabato; un neonato con difetti incompatibili con la vita non c’è obbligo di farlo vivere e non si profana per lui il Sabato. Se le possibilità di vita sono minime, come per un nato alla 22a o 23a settimana non si ha l’obbligo di rianimare ma è comunque opportuno provare a farlo (e ne dedurremmo che se è lecito di Sabato a maggior ragione gli altri giorni, nda). Per un neonato rianimato, se si verifica che le possibilità di vita sono venute meno, si pone il problema se sia lecito interrompere i trattamenti; problema che per quanto riguarda gli adulti già divide i decisori della halakhà. Per il neonato in queste condizioni il fatto che la sua vita all’inizio fosse in qualche dubbio, non autorizza la sospensione dei trattamenti.[28]
La halakhà discute il caso di un paziente che si ammala e che ha davanti a sé un futuro di sofferenze per lui intollerabili, se abbia il diritto di rifiutare le cure che gli allungano la vita e con queste le sofferenze; secondo Rav M. Feinstein[29] ne ha il diritto, e quando il paziente non può esprimere la sua volontà è necessario il consenso dei suoi per continuare le terapie. Altri, come Rav Waldenberg, non sono d’accordo.[30] Trasportando questa discussione al caso del prematuro con prospettive di sofferenze, il fatto che il nefel non sia adam, dovrebbe indurre a far prevalere la posizione di Rav Feinstein,[31] nel senso che bisogna evitare le sofferenze, con il consenso dei familiari. Ma nel caso di un neonato in cui la scelta era tra il trattarlo, con rischio di danni neurologici e cecità conseguenti alle terapie, e non trattarlo, la decisione di Rav Y. Silberstein fu a favore dei trattamenti. La sua decisione è stata però contestata da altri, appunto in base al fatto che il nefel non è adam; e siccome la sopravvivenza non è nemmeno certa, mentre l’invalidità grave lo è, è meglio astenersi dall’intervenire.[32]
Nel caso di un feto di 650 grammi nato alla 23a settimana, con prospettive di sopravvivenza del 20%, e che se fosse sopravvissuto avrebbe avuto la possibilità del 20% di sequele neurologiche, 25% respiratorie, 13% deficit intellettivi, in cui genitori informati chiedevano di non intervenire, Rav Naftali Bar Ilan stabilì questi criteri: non si accelera il decesso; non si eseguono manovre rianimatorie, non si fanno esami del sangue, non si danno farmaci; si fa il possibile per alleviare il dolore, anche se questo può accelerare la morte; si dà una terapia di sostegno, nel rispetto della dignità, con ambiente caldo, pulizia del corpo, solidi, liquidi e ossigeno.[33]
Le conclusioni a cui arrivano i decisori contemporanei, che suggeriscono di non intervenire o di limitarsi a comportamenti di sostegno, sono il risultato della convergenza bilanciata di tutti gli elementi sopra discussi: dalla valutazione dello status differente del prematuro rispetto al normale neonato alla problematica che deriva da una grave situazione di sofferenza.
La volontà dei genitori
I genitori vengono coinvolti nel dramma della prematurità che può avere conseguenze su un’intera vita di sofferenze e di necessità assistenziali a loro carico. Ma la loro risposta può essere varia perché ci può essere chi a ogni costo vorrebbe continuare le cure e chi invece le vorrebbe interrotte. I genitori, da un lato, vanno sentiti, perché hanno responsabilità e autorità sui figli, dall’altro il loro coinvolgimento è tale che sono certamente interessati alla soluzione che desiderano e quindi, come tali, il loro parere non può essere vincolante. Così scrive Rav Steinberg: «Se hanno intenzione di proseguire il trattamento, è chiaro che bisogna starli a sentire; ma se vogliono interromperlo quale è la loro posizione? Da un lato sono responsabili, in quanto hanno diritti e doveri verso i figli, e quindi bisogna sentirli, dall’altro si può dire che su questioni che riguardano la vita stessa non hanno diritti speciali, tanto più che si può sospettare il loro interesse alla cosa (la sofferenza legata all’allungamento della vita del neonato, le spese, la vergogna famigliare ecc.) e quindi non bisogna starli a sentire».[34] Dall’ultimo parere sopra citato di Rav Auerbach, che dice che “se lo si vuole” si può intervenire, la decisione se intervenire dipende dalla volontà, che a sua volta deriva da una valutazione complessiva di vari fattori nella quale la volontà positiva dei genitori ha il suo peso.[35]
TAVOLA 1. Sintesi dei dati
Alcune posizioni bioetiche | Halakhà | |
Principio fondamentale bioetico | In generale non distinguere i criteri da adottare per prematuri e nati a termine (CNB, American Academy of Pediatrics). | In teoria i grandi prematuri possono entrare in una definizione differente (nefel). |
Soglia temporale | • Inaccettabile (CNB). • Distinzione tra età: no alla 22a e 23a settimana, alla 24a solo dopo esame clinico post rianimatorio, alla 25a sì. In caso dubbio sull’età se il trattamento è inefficace passare dall’in tensivo al confortevole (FI). • No il prematuro estremo (altri). | In generale si rianima. Quando le possibilità sono minime come alla 22a e 23a settimana o sotto al 10% non si ha l’obbligo di rianimare ma è comunque opportuno provare a farlo. Alcuni alzano la soglia dell’obbligo di intervento al 51% di possibilità di sopravvivenza. |
Malattie e malformazioni | Non si rianima se ha malformazioni incompatibili con la vita (altri). | Se il grave difetto è compatibile con la vita, il neonato va curato, fatto vivere e si profana per lui il Sabato; il neonato con difetti incompatibili con la vita non c’è obbligo di farlo vivere e non si profana per lui il Sabato. |
Accanimento | Il trattamento immediato non lo è. Non continuare a trattare se il trattamento è inefficace (CNB, CSS). | L’interruzione del trattamento segue le stesse regole dell’adulto (con le relative divergenze). |
Previsione di disabilità | • Non è motivo per desistere (CNB). • Seguire indicazioni materne (altri). | Opinioni controverse. |
Parere dei genitori | • Al centro, ma in caso di conflitto è il medico a prevalere (CNB) o la tutela della vita e salute del neonato (CSS). Vincolante in caso di terapie speri mentali (CNB). •Vincolante la madre sui prematuri estremi o portatori di handicap (altri). | Rilevante se desiderano far vivere il prematuro, altrimenti non vincolante. |
[1] Per l’Italia si veda il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica: I grandi prematuri, Note bioetiche, 29 febbraio 2008, che nasce dalla sollecitazione di un documento professionale del 2006, Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse, comunemente definito “Carta di Firenze”; il parere del Consiglio Superiore di Sanità del 4 marzo 2008 reperibile in www.ministerosalute.it, Cure ai prematuri: parere e raccomandazioni del Consigli Superiore di Sanità. Per una visione cattolica del problema v. A. Bompiani, Aspetti etici dell’assistenza intensiva e ‘provvedimenti di fine vita’ in epoca neonatale al limite della vitalità, «Medicina e morale» 2008/2: 227-277.
[2] Il termine rabbinico che indica la possibilità di sopravvivenza è in aramaico bar qayyma. Curioso, e forse utile mnemonicamente, è il fatto che il valore numerico di qayyma è 161, che sommato a 12 (giorni dall’inizio della mestruazione) equivale a 173, quasi pari all’inizio della 25a settimana (175° giorno).
[3] Per una sintesi dei dati su sopravvivenza ed esiti cfr. G. Paterlini, P. Tagliabue, Parameters for Survival and Certainty on the Prognosis for Extremely Premature New borns, «Journal of Medicine and the Person», 2007: 151-153. Le variazioni dei dati riferiti in letteratura dipendono anche dalla funzionalità dei centri. I risultati non sono concordi specialmente sulle valutazioni degli esiti gravi a distanza, di cui è evidente l’alta incidenza ma è diversa la valutazione nel tempo; alcuni autori mettono in evidenza una riduzione negli anni.
[4] Rambam, Rotzeach 1:9.
[5] Chayye sha’à, TB Yoma 85a, Rambam, Shabbat 2:18.
[6] Cfr. ad es. TB Yoma 86 b.
[7] Rashi Sanhedrin 84b capoverso afilu.
[8] A. Steinberg, Encyclopedia of Jewish Medical Ethics (EJME), II ediz, (in ebraico) alla voce ylud, al capov. musagim hanog’im lanefel e le note 317-332.
[9] TJ Yevamot cap. 4:2, foglio 5d; il midrash interpreta la parola biblica wayytzer, “creò”, in Gen. 2:7, riferita alla creazione dell’uomo, che è scritta con una doppia yod, come se si trattasse di una doppia creazione.
[10] Tosefta Shabbat 15:7, ripresa in TB Shabbat 135b-136a e Yevamot 80b.
[11] Un’analisi approfondita degli sviluppi halakhici di queste fonti è in Sefer Assia vol. 8 5755-1995, pp. 223-321, in particolare gli articoli di Rav N. Gutel, Premature infants in Halacha, (in ebraico) pp. 225-294 e di Rav M. Halperin The Eight-month Fetus (in ebraico), pp. 295-299.
[12] L’origine greca è già discussa nel classico J. Preuss, Biblical and Talmudic Medicine, New York F. Rosner ed., 1978 pp. 393 ss.; cfr. R. Reiss e A. Ash, Meqorot Klassiim le-emuna amamit, in Sefer Assia vol. 8, cit., pp. 315-320. Per la sopravvivenza di queste convinzioni in fasce popolari in Italia, basta una consultazione nei vari siti di discussione nel web.
[13] In realtà una lettura più attenta della prima fonte della Tosefta potrebbe indicare che le differenti opinioni ivi esposte siano già l’espressione di un forte dubbio su quello che per alcuni era un assunto scientifico. Se la prova, per un Maestro, è il livello di maturità raggiunto dal neonato o per un altro Maestro, a posteriori, quello della sua sopravvivenza, ciò può voler dire che l’intero concetto di ottavo mese veniva messo in dubbio. Sia Rabbi che Rabban Shimon ben Gamliel appartenevano alla dinastia dei Nesiim, che per la loro posizione erano autorizzati, e tenuti a conoscere il pensiero filosofico e scientifico greco (chokhma yevanit, TB Baba Kama 82 b). Anche le divergenze tra i decisori successivi, per quanto i loro modi di ragionare siano giuridici e non scientifici, possono in qualche modo riflettere un dubbio sostanziale.
[14] Come Chazon Ish, Yore De’ah 155:4.
[15] Rav Gutel, cit.
[16] Come Izchaq Yaaqov Weiss 1982-1989, Minchat Itzchaq, 4:123:19-20; Shevet haLewi 3.
[17] Gil Student, Halakhic Responses To Scientific Development”, nel capitolo Premature Babies, in www.aishdas.or/toratemet/science.html.
[18] Secondo Rav Halperin in Sefer Assia cit. pag. 299 n. 25 la regola vale se si realizzano due condizioni: lo sviluppo fisico è incompleto e il neonato, secondo il giudizio medico, non sopravviverà malgrado le cure.
[19] Shulchan ‘Arukh Orach Chayym 617:2.
[20] TB Yoma 85b; davanti alla tutela della vita, piqquach nefesh, cadono tutti i divieti tranne tre: idolatria, omicidio e gravi colpe sessuali (‘arayot). Notevole il fatto che lo stesso verso del Levitico è usato da Paolo in Gal. 3:12 per dimostrare, al contrario, che la legge porta morte.
[21] Naftali Zevi Yehuda Berlin nel commento Ha’ameq Sheela alle Sheiltot derav Achai, 167:17.
[22] Naftali Bar Ilan, Rachel Kuperman, Yechiel Bar Ilan, Treatment of premature, Non-viable Babies or Babies with a Prognosis of Lifelong Suffering, (in ebraico), Sefer Assia vol. 12 pp. 130-139.
[23] Rav Neuwirth, Shemirat Shabbat Kehilkhata 2a ediz. cap. 36:12 n. 24.
[24] Nishmat Avraham 4 Orach Chayym 330.
[25] In questa posizione si potrebbe vedere un appoggio rabbinico al concetto bioetico di “pendio scivoloso” (slippery slope, in ebraico midron chalaqlaq) che esprime la necessità di posizioni rigorose iniziali per non intraprendere cammini inarrestabili che porterebbero a permettere cose problematiche.
[26] Nishmat Avraham 5 Orach Chayym 330; Bar Ilan cit. n. 28 e commento della redazione.
[27] Bar Ilan cit. § 6.
[28] A. Steinberg Hatipul baylud hapagum, Techumin vol. 7, pp. 226-230; EJME, pag bigvul hachayut, n. 354-362.
[29] Igrot Moshe Choshen Mishpat 2-3.
[30] Tzitz Eli`ezer 9:47.
[31] Bar Ilan cit. § 7.
[32] Birkat banim 13:2, con l’obiezione di Rav Twerski; Steinberg EJME n. 336-337; Bar Ilan cit. n. 33.
[33] Bar Ilan cit. § 8.
[34] Hatipul, cit., § 6.
[35] Bar Ilan cit., § 6.