La parashà che leggeremo questo shabbat contiene gli “Aseret ha Dibberot – I Dieci Discorsi” e non I Dieci Comandamenti, come erroneamente vengono definiti.
Infatti in essi non sono contenuti soltanto delle regole da osservare, ma piuttosto le modalità di come ci si deve raffrontare con il prossimo.
La scorsa settimana abbiamo letto la “shirat ha jam – la Cantica del Mare” che sigla definitivamente la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egizia, dopo quattrocentotrenta anni, ma che non deve e non può essere affatto dimenticata, pena il ritorno a quella condizione.
Il primo dei “dieci discorsi” inizia con le parole: “Io sono il Signore D-o tuo che ti fece uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi”; sembra più una costatazione che un comandamento.
Ma dal momento stesso che, alla vigilia della liberazione la Torà comandi dicendo: “affinchè ti ricorderai del giorno dell’uscita dall’Egitto tutti i giorni della tua vita”, troviamo nelle tavole della legge, la codificazione di esso come elemonto fondamentale della vita del popolo ebraico.
Basterebbe soltanto soffermarsi sul commento di questo “primo discorso” o “primo comandamento” che già avremmo materiale da spiegare per settimane; infatti in esso è racchiuso tutto il senso degli altre nove.
Non esiste al mondo una costituzione di uno Stato che inizi con “Io sono – Anokhì”, ma questa è la Costituzione del popolo ebraico che viene firmata direttamente da D-o
“khetuvim be ezba Elohim – scritti con il dito di D-o”; è così che la Torà definisce le Tavole del Patto o come meglio conosciute “Tavole della Legge”.
Il motivo infatti, secondo alcuni commentatori che gli aseret ha dibberot inizino con il pronome Io, è perchè a capo di tutta l’organizzazione della vita, dalla Creazione del Mondo a questo preciso momento in cui un popolo – Il Popolo di Israele – si sta formando, c’è la volontà di D-o come protagonista principale.
Rashì, nell’interpretare le prime parole della Torà “Bereshit barà Elohim…In principio il Signore creò..” riporta il commento del midrash dicendo che secondo l’interpretazione di Rabby Izchak, il motivo per cui la Torà inizia da Bereshit e non dall’uscita dall’Egitto è quello di dimostrare agli abitanti della terra, che essa appartiene a D-o, il Quale ha la facoltà di consegnare e togliere le varie terre ai suoi abitanti, per concederle a chi Lui reputa più opportuno.
In questo momento il neo popolo di Israele, accetta l’esistenza di un solo D-o, proclamandolo Re Eterno e, a sua volta, Iddio accetta il popolo di Israele e lo riconosce come “reame di sacerdoti e popolo santo”.
La condizione di libertà è fondamentale alla nascita di un popolo e non vi è e non può esservi libertà senza una legge. Una legge giusta e imparziale, come quella data da D-o, il Quale si ritrae, facendo spazio all’Uomo ed in particolare al popolo ebraico, consegnandogli una Legge eterna.
Una legge incisa su tavole di pietra “charut al ha luchot – incisa su tavole di pietra”, in modo indelebile, affinchè non possa mai essere cancellata.
Ma a questo fanno eco i maestri della Mishnà che aggiungono un qualcosa di particolarmente importante e che correda la condizione della legge: essa è stata data per la libertà dell’uomo “al tikrè charut ellà cherut – non leggere charut – inciso su pietra, ma leggi cherut – libertà”.
La libertà è il bene più prezioso per tuti gli Uomini, ma non ne deve essere fatto abuso, altrimenti sfocia in schiavitù; libero è colui che rispetta il suo prossimo, è colui che gli permettere di esprimere le proprie opinioni, anche se contrastanti e la legge ne è garante, in quanto prende le difese di chi è in minoranza ed è più debole.
Tutto esattamente l’opposto di ciò che fu in Egitto, quando la potenza del Faraone sottomise altri uomini, togliendogli ogni sorta di diritto e libertà, fisica e morale.
E’ per questo che le prime delle Dieci Parole suonano con l’obbligo di ricordare la schiavitù.
Soltanto chi ricorda la propria sofferenza è in grado di non farla patire agli altri!
Shabbat shalom