Giuseppe in Egitto ha un comportamento, a dir poco lontano dalle tradizioni famigliari, assumendo un atteggiamento e un vestiario che, agli occhi di chi non lo conosceva, poteva apparire un vero egiziano. Nella nostra parashà viene descritto il suo matrimonio con una donna – Asenat – di cui non si conosce l’identità e ha dei figli di cui non si parla del loro berit milà.
Eppure viene definito dai commentatori uno zaddik – giusto. Josef ha zaddik, a differenza di Giacobbe suo padre, Isacco suo nonno e Abramo suo bisnonno, che sono chiamati “avot – padri”, proprio per il suo comportamento legato fortemente ai principi dell’ebraismo.
Proprio nella nostra parashà, più volte viene pronunciata da Giuseppe l’espressione: “et ha Elohim anì jaré – io temo il Signore D-o“. Addirittura viene narrato verso la fine della parashà che, “gli egiziani mangiavano da una parte e gli ebrei mangiavano da una parte perché non era permesso agli egiziani di mangiare insieme agli ebrei il pane”.
È non solo: Giuseppe esprime ogni qualvolta venga interrogato, la sua originale identità “sono un ragazzo ebreo”
Tutto ciò fa denotare quanto fosse forte in Giuseppe la sua identità familiare e quanto fosse legata alle tradizioni abramitiche, anche in un paese e in mezzo ad una popolazione pagana, come quella egizia.
Una gocciolina di olio che, gettata in mare, non perde mai la sua caratteristica, e si tiene in disparte.
Così furono pure i fratelli Maccabei, i quali, nel marasma dell’assimilazione alla cultura ellenica, fecero del tutto per ribellarsi e risvegliare il popolo, per cacciare il nemico; quel nemico che, non con la forza ma con le buone maniere, stava facendo del tutto per annientare il nostro popolo.
Shabbat Shalom, chodesh tov e channucchà sameach.