Un proverbio della nostra tradizione dice: “dimmi con chi vai, ti dirò chi sei” perché è in relazione a chi noi frequentiamo che veniamo giudicati per ciò che siamo.
Quando però un uomo vuole brillare di luce propria e venire indicato per ciò che realmente è, deve scrollarsi di dosso gli usi – buoni o cattivi che siano – di chi lo circonda.
Abramo, che ci viene presentato dalla Torà nella parashà della nostra settimana, nasce, vive e frequenta gente con tradizioni piuttosto discutibili, attaccati ad usi piuttosto lontani da quelli che rispecchiano il monoteismo.
Egli vive in un mondo dove il paganesimo (non tanto come religione, quanto come etica di rapporti e rispetto fra uomo e uomo) ha la supremazia; ha un padre e dei fratelli che seguono quella tradizione e la società in cui vive è pagana.
Ad un certo momento della sua vita il Signore gli si manifesta, e lo invita ad abbandonare la sua vita passata: “Vattene per il tuo bene dalla tua nazione, dal tuo paese natio, dalla casa dove sei nato, verso una terra che ti indicherò”.
Ci fanno notare i commentatori del testo che fisicamente e cronologicamente si esce di casa prima di abbandonare la propria città e solo dopo si abbandona definitivamente la propria patria.
Il percorso che fa Abramo è esattamente l’opposto di quello materiale. Il motivo di ciò è che, per brillare di luce propria e divenire l'”Abramo” della situazione, c’è bisogno di abbandonare i propri usi e costumi che fino ad allora ci hanno resi simili agli altri, iniziando però da quelli che ci toccano meno da vicino fino a quelli con cui abbiamo un contatto fisico.
Shabbat shalom