Sull’incontro estivo mondiale dell’Hashomer Hatzair
“Sfidano i missili per discutere degli ideali” così il Jerusalem Post intitolava il suo articolo sulla veidà dell’Hashomer Hatzair, meeting di rappresentanti mondiali tenutosi nel kibbutz di Holit, a meno di un chilometro da Gaza. Se senza dubbio, per noi partecipanti un rischio reale di essere colpiti da un kassam non c’era, “sfidare i missili” è un’espressione ottimale per ricreare lo spirito che ha animato quei quattro giorni, e che siamo speranzosi man mano si propaghi in tutti i centri del movimento. Il motivo dell’incontro era appunto quello di ridefinire la nostra linea ideologica tutti insieme, in modo che dall’Australia, alla Bielorussia, all’Uruguay, potessimo sentirci tutti parte dello stesso meraviglioso ente, e che tutti, nonostante le realtà davvero lontane tra loro, potessimo avere un motivo comune ad animarci e a poterci dare più rilevanza.
Si è discusso di sionismo, di socialismo, di ebraismo, e di molto altro, ma la sensazione era che noi, non stessimo semplicemente parlando per ore e ore di begli ideali usando belle parole: l’aria che si respirava lasciava profondamente intendere che noi quelle idee le stavamo già praticando, che già solo nel nostro modo di discutere così minuziosamente democratico, di organizzare il processo di modo che il risultato non lasciasse escluso o deluso nessuno, di condividere spazi, esperienze ed emozioni tra noi ragazzi, noi stavamo già in qualche modo raggiungendo l’Hagshamà, la realizzazione.
Il nostro microcosmo di giovani con la camicia blu, era già una realtà esemplare di per sé, dove ipocrisia e incoerenza non erano nemmeno lontanamente fiutabili nell’aria. E in questo senso intendo che abbiamo “sfidato i missili”: eravamo una prova che quello che predichiamo possiamo anche praticarlo, che siamo pronti a sottoporci all’ardua missione di sfidare la realtà a cui abbiamo deciso che non ci adegueremo, ma a cui invece ci sforzeremo di trovare un’alternativa.
L’Hashomer cambia, si ridefinisce, si migliora; diventa uno strumento per avere davanti a sé un’alternativa, per diventare parte di una militanza attiva nella società che si impegna al massimo per migliorarla. L’Hashomer diventa un modo di vedere la vita, qualcosa di molto più intenso di un semplice percorso giovanile. In Israele alcuni shomrim vivono nelle comuni, lavorano con i beduini, con gli arabi israeliani, coi palestinesi, lottano per una società più giusta, si adoperano, manifestano, dimostrano orgogliosamente il loro parere. E da questo centro, in tutto il mondo gli shomrim cominciano a prefissarsi nuove strade, nuove missioni, cercano di essere dugma ishit, esempi, per i loro chaverim, ma anche per l’intera società.
A New York, una kwutzà ha formato una comune, la quale è uno strumento per dare forza ai progetti dei singoli, che insieme si sentono molto più forti nelle loro piccole lotte; hanno programmi di educazione nelle scuole, di sostegno al consumo delle energie rinnovabili, di propagazione di un’informazione corretta, di sostegno a Israele, e un’infinità di altre cose che vanno definendosi e incrementandosi con il passare del tempo. In Sud America, una volta terminata l’attività con i bambini nei kenim, i chaverim si servono ancora della loro chulzà per fondare dei centri dove fiorisca un’educazione umanista che prenda spunto da valori estrapolati dall’ebraismo, dove si pensi insieme come combattere l’antisemitismo, la povertà, come favorire l’integrazione. In Bielorussia i ragazzi di ogni kwutzà sono coinvolti in un diverso progetto di volontariato. In Svizzera sta prenedendo piede un progetto con i rifugiati. Gli esempi potrebbero andare avanti a riempire pagine e pagine: e anche in Italia vorremmo provare a costruire qualcosa, partendo da quei piccoli passi che già abbiamo iniziato a muovere.
Cito le parole di Yotam Marom, compagno americano, il quale a mio parere ha ben espresso tutto ciò: “Ciò che voglio esprimere è quanto sono profondamente orgoglioso di indossare la mia Chultza Shomrit, questa semplice, sbiadita, blu, camicia bianca con le stringhe. La indosso perché riflette la mia identità, perché mi dà la forza di lottare ogni giorno per creare un modo alternativo di vita, perché mi concede il coraggio di essere parte di questo movimento di fronte alla realtà materiale che ci circonda, perché mi ricorda che le mie azioni quotidiane sono parte di questa straordinaria rivoluzione di cui siamo parte. La indosso, perché non mi lascerà mai dimenticare che non sono solo, che faccio parte di qualcosa di più grande, che ho il privilegio di far parte di questa rivoluzione con tutti voi. Per dirla in modo semplice e onesto, sono profondamente orgoglioso di essere un Shomer”.
Bianca Ambrosio – Milano 15/09/08
http://www.mosaico-cem.it/article.php?section=mondo&id=69