Per indicare il tipo di pace che Israele ha sempre desiderato di stabilire con i propri vicini, si è usato spesso l’espressione shalom shel emet, che in italiano viene tradotto con “una pace vera“, ma che letteralmente significa “una pace di verità“. Penso valga la pena analizzare questi due concetti, per fare poi alcune osservazioni rilevanti per il popolo ebraico in Israele e nella Diaspora.
In Bereshìt Rabbà (8:5) troviamo opinioni divergenti tra i vari gruppi di angeli con cui Dio stesso si sarebbe consultato prima di creare l’uomo. A ogni gruppo è assegnato il compito di rappresentare uno degli attributi di Dio e, di conseguenza, dell’uomo, creato a Sua immagine, e queste il primo uomo, gli angeli si divisero in vari gruppi, alcuni dicevano “venga creato”, mentre altri dicevano “non venga “: infatti è scritto (Salmi 85:11): “Carità e verità” si incontreranno giustizia e pace si baceranno”. La carità diceva “sia creato, poiché l’uomo compie opere caritatevoli, mentre la verità diceva: “non venga creato, perché l’uomo è solo menzogne”, la giustizia diceva “venga creato perché fa opere giuste”; mentre la pace diceva: “Non venga creato, perché l’uomo è tutto liti”. Che cosa fece il Santo, benedetto Egli sia? Prese la verità e la gettò in terra: infatti è scritto (Daniele 8, 13): “Tu gettasti la verità per terra”. Gli angeli del servizio divino dissero di fronte al Signore: Padrone del mondo, perché disprezzi il tuo ornamento (cioè la verità che è “il sigillo di Signore”)? Salga la verità della terra! Ciò è quanto è scritto (Salmo 85:12): “Germoglierà dalla terra la verità”.
Perché la verità, che in fondo fa un’affermazione incontestabile, viene penalizzata, mentre la pace, che pure si era opposta alla creazione dell’uomo, non viene toccata?
I Maestri si chiedono se l’uomo nella sua vita individuale e collettiva sia stato capace di realizzare quelle caratteristiche fondamentali che lo rendono “simile a Dio”: a questa domanda rispondono che, mentre l’uomo cerca di realizzare nel limite del possibile le qualità di giustizia e carità, pur rimanendo lontano dalla perfezione, non si può dire altrettanto per quanto concerne pace e verità: la mancanza di pace ha lasciato il segno su tutta la storia dell’uomo, per il sangue che è stato versato (e continua ad essere versato): anche se sarebbe logico che la pace venisse messa in pratica prima della carità, la realtà insegna che la pace è in costante ritardo: mentre non vi è un’organizzazione che riesca ad evitare le guerre, non mancano società filantropiche che realizzano compiutamente i loro scopi.
Le cose non vanno meglio per la verità: il mondo non è il luogo ideale in cui attuare la verità; anzi, il mondo si regge proprio perché la verità viene celata del tutto o in parte; spesso anche l’individuo nasconde agli altri e a se stesso la verità, che se venisse svelata, sarebbe assai pericolosa per la stessa sopravvivenza dell’uomo. La verità è destinata, insomma a vivere al livello dell’uomo di essere cioè “gettata per terra”. Il metro per misurare la verità diventa allora assai diverso: nell’ambito della vita dell’uomo non è richiesta una verità “celeste”, ma una verità “terrena”, cioè una verità che l’uomo sia in grado di realizzare e con la quale sia in grado di convivere. La verità viene quindi “adattata” alle capacità dell’uomo, deve “germogliare” e farsi strada attraverso l’uomo. Diversa è la sorte che tocca alla pace: la pace è alla portata dell’uomo e, secondo le promesse dei Profeti d’Israele, l’umanità è destinata, presto o tardi, a realizzarla. Pace e verità sono tra loro fondamentalmente diverse: mentre la pace si può moltiplicare (“i saggi moltiplicano la pace nel mondo”), la verità è una sola e può assumere solo forme diverse a seconda delle situazioni storiche degli uomini: verità ed elasticità sono modalità tra loro contrastanti.
Tuttavia, il rapporto tra pace e verità non è problematico sin tanto che essi entrano in contrasto tra loro: in tal caso, la verità (nei suoi limiti umani) e la pace vanno realizzate senza alcuna eccezione; il problema sorge quando in una certa situazione, verità e pace richiedono due soluzioni diverse o addirittura contrastanti, per cui è necessario rinunciare alla piena applicazione dell’una a favore dell’altra: quale concetto ha la priorità? È più importante perseguire la pace o la verità?
Secondo i Maestri, Dio stesso non esitò a mentire oppure a suggerire di nascondere la verità: Sara, a causa dell’età avanzata, mette in dubbio la capacità a Sara; oppure, mentre Saul regna ancora su Israele e Samuele deve consacrare come re al suo posto David, Dio gli suggerisce di far finta di andare a fare un sacrificio, per il timore che Saul possa uccidere Samuele.
Nella Bibbia le due figure che hanno impersonato “shalom” ed “emeth” sono state Aronne e Mosè: il primo è pronto a ogni compromesso per raggiungere la pace (di lui i Maestri dicono che amava la pace e inseguiva la pace); mentre il secondo, pur avendo preso in varie occasioni le difese del popolo ebraico, non dimentica di applicare il rigore della legge nei confronti di coloro che si sono allontanati dai comandamenti divini. L’episodio del vitello d’oro e il diverso atteggiamento assunto dai due fratelli ne illumina bene la personalità. Così, quando si chiedono quale sia la strada che l’uomo, ogni uomo, deve seguire, i Maestri non hanno dubbi nel proporre la figura di Aronne, e notano che, alla morte di Aronne “tutta la Casa d’Israele lo pianse per trenta giorni”, mentre per Mosè è scritto che “i figli d’Israele (quindi non tutti) lo piansero”: gli uomini che perseguono la verità non sono certo i più amati.
Certo la questione dovrebbe essere ulteriormente approfondita, ma sembra che la realizzazione di shalom shel emeth, in quanto due idee tra loro contrastanti sul piano della teoria e dell’azione, sia un’utopia: per raggiungere la pace, la verità deve essere in qualche modo sacrificata, ma la “verità germoglierà dalla terra” e poiché, come si è detto, la pace è per sua natura la pace natura “terrestre”, è dovere dell’uomo fare tutto ciò che è in suo potere per fa sì che la pace generi la verità, almeno all’interno del popolo d’Israele.
Qual è il senso e la prospettiva da dare all’esistenza del popolo ebraico oggi, dopo la shoà (l’olocausto) e la tekumà (il risorgimento ebraico)?
In questo ultimo secolo, il popolo d’Israele ha speso le sue energie migliori per creare prima e consolidare poi lo Stato d’Israele. Specialmente dopo la “Guerra dei sei giorni”, la vita ebraica si è “polarizzata”, l’interesse degli ebrei (di tutte le tendenze) si è orientato quasi esclusivamente verso la soluzione dei problemi dello Stato d’Israele. Lo Stato d’Israele ha costituito per l’ebreo una sorta di garanzia, una specie di “assicurazione” sull’identità ebraica: basta aprire i quotidiani per “ricordarsi” che si è ebrei, non c’è bisogno di approfondire il senso della propria identità.
Abbiamo, quindi, se non dimenticato, almeno accantonato in questi anni i compiti primari affidati al popolo ebraico secondo la tradizione: il pericolo cui andiamo incontro – in quanto ebrei – è che, una volta risolto felicemente nel giro di qualche anno il problema della pace in Israele, l’ebreo soddisfatto e gratificato per i risultati raggiunti, diventi, per così dire, “disoccupato”. Con sfaccettature diverse, il problema si pone per l’ebreo diasporico e per quello israeliano: la cultura ebraica, nei vari aspetti che traggono la loro origine dalla Torà, è il terreno che storicamente ha garantito l’identità, il futuro e il ruolo del popolo ebraico. Sarà bene che le guide del popolo ebraico e gli ebrei tutti si muovano per tempo e assicurino un più ampio spazio ai problemi della “sicurezza” spirituale e culturale.
In questa nuova ottica, anche i ruoli dello Stato d’Israele come motore della cultura ebraica e della Diaspora come suo partner subiranno certamente dei profondi cambiamenti.
In una società moderna in cui l’uomo si sente più sradicato.