Il massacro perpetrato a Hevròn ad opera di un militante del Kach ci pone, in quanto ebrei, molte domande. Prendiamo spunto da questo episodio per analizzare come la tradizione ebraica affronta questo problema. Innanzitutto, secondo la Torà, in questo caso si tratta di shefikhùt damim (lett. versamento di sangue), cioè di un omicidio ingiustificabile, come quello compiuto per legittima difesa. Assieme al divieto di idolatria e di incesto, l’omicidio ingiustificabile rientra nella categoria delle tre trasgressioni più gravi che l’uomo possa compiere, e alle quali si applica il principio yeharègh ve’al ya’avòr: anche nel caso in cui la propria vita sia in pericolo, si deve essere pronti a farsi uccidere piuttosto che fare un omicidio ingiustificabile, una norma al cui rispetto sono tenuti sia gli ebrei che i non ebrei. Quindi, non v’è dubbio che la condanna dell’atto di Barukh Goldstein non può che essere chiara e inequivocabile: secondo la Torà una vita vissuta a scapito dì uno dei tre principi appena menzionati, non è degna di essere vissuta, perché priva delle condizioni elementari che rendono l’uomo degno di essere stato creato “a immagine divina”.
Qualcuno ha tentato di giustificare questo atto definendolo come una sorta di vendetta per gli omicidi perpetrati dai Palestinesi, specie dopo “la stretta di mano” di Washington. Ora, anche in questo caso, il giudizio della Torà è chiaro. Nella Bibbia viene narrato che Simone e Levì ordirono un piano per liberare la sorella Dina che era stata rapita e tenuta prigioniera dagli abitanti di Shekhem: Giacobbe non si oppose alla violenza usata dai due fratelli per liberare la sorella, ma disapprovò aspramente il massacro degli abitanti di Shekhem da loro compiuto, sia immediatamente dopo il fatto che in punto di morte. Sul pericolo di false interpretazioni e fuorvianti tentazioni, il Nazìv (Rabbì Naftalì Zevì di Wolozin, 19° secolo) così scrive nel suo commento alla benedizione che Mosè impartisce alla tribù di Levi (Deuteronomio 33, 8):
“Per Levì disse: I tuoi Urìm [oggetti che stavano sul pettorale del Grande Sacerdote] … appartengono a un uomo a te pio…” : Mosè benedisse Levì con le parole “I tuoi Urìm” [parola che può significare sia luce che fuoco], per auspicare che la luce della Torà il rendesse pii e li guidasse verso la giusta strada e non (divenisse invece fuoco portandoli a compiere) azioni completamente estranee all’esecutore, cosa contraria ai dettami della Torà”.
Sullo stesso episodio, Izhak Aramà (16° secolo) osserva come le parole di ammonimento e di condanna di Giacobbe contro Simone e Levi vadano intese come un monito contro il pericolo che lo zelo si concentri in una sola persona o in una sola tribù: solo “diluendo” e “distribuendo” questo zelo tra gli uomini e tra le tribù so ne possono ricavare dei benefici.
Per Shimshon Refael Hirsch (morto nel 1888, quindi prima che si sviluppasse appieno il Sionismo moderno) lo zelo è un grave pericolo per il popolo ebraico nei periodi in cui può esprimere completamente la propria libertà, senza trovarsi sotto l’influenza o il giogo straniero, mentre è altamente positivo quando il popolo si trova nella Diaspora, perché dà all’ebreo la forza di resistere e di opporsi con fermezza alle peggiori malversazioni e persecuzioni.
L’autore dei Sefer Ha-chinnukh (13° secolo) scrive che “le menti vengono trascinato dalle azioni”, un’affermazione che egli applica alle mizwoth, nel senso che ì pensieri e la vita contemplativa sono profondamente influenzati delle azioni dell’uomo. Nella visione ebraica, l’esercizio delle mizwoth può allontanare l’uomo dalla sua tendenza naturale alla violenza: tra i vari effetti attribuiti alle mizwoth, la stessa esecuzione quotidiana di determinate azioni concorre ad educare l’uomo al controllo dei propri istinti. Raccogliendo il suggerimento di Hirsch, si può dire che l’uso continuato della violenza e della forza può trascinare l’uomo, orientarlo verso una violenza gratuita e sproporzionata, impedendogli di esercitare il giusto controllo sulle proprie azioni.
In tempi di persecuzione e di dispersione, quando gli ebrei erano visti come vittime, era facile presentare Israele come l’antitesi della violenza, come il popolo che ha dato al mondo l’immagine della colomba con il ramoscello d’olivo o la profezia delle spade che saranno trasformate in aratri. In tempi normali, quando, come dice Hirsch, Israele è sulla sua terra in una posizione dì forza e di dominio, l’uso della violenza può provocare conseguenze stabili, e talora devastanti, sulla coscienza dell’uomo. Quasi in sintonia con questo discorso, Golda Meir affermava che “avrebbe potuto perdonare tutto agli arabi, tranne il fatto che avevano messo i figli d’Israele nella condizione di uccidere i loro figli”.
Questo pericolo era già stato avvertito dai Maestri dei Talmud [Ketuboth 111 a]: Rabbì Jossè beRabbì Hanìnà, interpretando un verso del Cantico dei Cantici, aveva già messo in guardia Israele dal “salire con violenza” alla conquista della Terra d’Israele: la violenza avrebbe richiamato altra violenza, mentre sarebbe stato assai più saggio aspettare che fosse il Messia a redimere Israele e l’Umanità. È questa com’è noto la posizione espressa da alcuni gruppi di Hassidim negli anni in cui è sorto e si è sviluppato il Sionismo.
Molto si è speculato sul fatto che il massacro sia stato perpetrato alla vigilia di Purìm, giorno in cui si ricorda la distruzione di ‘Amalek. Già i Maestri avevano scritto che ‘Amalek era ormai scomparso dalla terra, ma anche interpretando ‘Amalek come simbolo del male assoluto, si deve ricordare che ‘Amalek rappresenta il nemico che prova un odio immotivato verso il popolo ebraico: i Moabiti, che attaccano Israele perché colti dalla paura, non possono essere certo paragonati ad ‘Amalek che ha colpito senza alcun motivo gli ebrei appena usciti dall’Egitto, e per questo motivo Moav non verrà attaccato da Israele. Quale che sia l’atteggiamento da assumere verso i palestinesi, è chiaro che non possono essere: “assimilati” ad ‘Amalek.
Fatta questa premessa che serve a chiarire quale sia l’atteggiamento della Torà in questo caso, è doveroso fare una precisazione. Sia in Israele che nella Diaspora, molti hanno reagito separando nettamente le proprie responsabilità da quelle di Barukh Goldstein, colpe estremamente gravi anche per le conseguenze che hanno avuto verso tutto il popolo ebraico. Ora se, da una parte, ognuno è responsabile di fronte alla legge per le proprie colpe (ish be-khettò yumàt), dall’altra vale anche il principio per cui kol Israel ‘arevìm ze ba-zè, ogni ebreo è garante per l’altro, cioè ognuno ha una parte delle responsabilità di ciò che fa un altro ebreo: come dice il Ritvà “Israele è come un solo corpo”, in cui ognuna delle membra risento dei dolori presenti in qualsiasi parte del corpo. Quindi non ci si può tirare fuori, affermando che il “massacro era stato previsto” e esternando le giuste proteste: come ai tempi in cui Ezrà prima e Hìllel più tardi salirono da Bavèl per risolvere i gravi problemi della Comunità ebraica di Erez Israel, la Diaspora non può soltanto ammonire o protestare, ma deve essere maggiormente presente con la propria opera e la propria forza in Erez lsrael, andando a stabilirvisi.
La scelta di far nascere lo Stato d’Israele, di cui festeggeremo in questi giorni il 46° anniversario, e che, nelle preghiere ebraiche è indicato come “l’inizio della fioritura della nostra redenzione”, ha comportato e comporta tutti i giorni dei gravi rischi. Quando parlava dei dolori che il popolo ebraico ero costretto a sopportare quotidianamente, rav Kuk diceva che mentre nella Diaspora Israele era sottoposto alle malattie dell’invecchiamento, in Israele i pericoli erano quelli connessi con í dolori dei parto: questi ultimi erano comunque preferibili ai primi.
Tuttavia, a dispetto dei pessimisti e di quanti hanno giudicato e giudicano quasi naturale, connaturato allo spirito ebraico quello della vendetta, l’animo più intimo e il desiderio più profondo dei popolo d’Israele possono essere bene espressi da questa preghiera di Rabbì Nachman di Brazlav:
Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri,
Signore della pace, Re cui la pace appartiene,
di porre la pace nel tuo popolo Israele.
E la pace si moltiplichi fino a penetrare
in tutti quelli che vengono al mondo.
E non ci siano più né gelosie né rivalità
né vittorie né motivi di discordia fra gli uomini,
in quanto il suo prossimo
il suo bene
desidera il suo amore
e agogna il suo costante successo,
al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi,
per parlare insieme e dirsi l’un l’altro
la verità in questo mondo.
Un mondo che passa come un batter d’occhi,
come un’ombra,
Non come l’ombra di una palma o di un muro,
ma come l’ombra di un uccello che vola.
1994