La parashà inizia, affrontando un problema che difficilmente viene descritto dalla Torà: quello relativo ai voti e alle promesse.
Chi esprimeva la volontà di offrire qualcosa, o prometteva di offrire un qualcosa, aveva il dovere di mantenere.
La Torà attraverso queste espressioni ci insegna che è meglio, piuttosto che promettere e non mantenere, non promettere affatto.
In un altro passo troviamo scritto:
“Mozzà sefatekha tishmor ve asita – Ciò che esce dalla tua bocca osserverai e farai”.
Un concetto analogo lo ritroviamo all’inizio del libro di Bemidbar, quando si parla del “nazir” colui che offre tutto se stesso, astinendosi dal bere vino o sostanze inebrianti e dal tagliarsi i capelli e la barba.
Anche nel caso in questione è previsto un ritorno alla vita “normale” ma solo dopo un’offerta di un sacrificio di espiazione.
Tutto ciò può essere ovviato da un regolare comportamento ebraico, in cui è richiesta la zedakà, naturalmente in forma ignota e la semplice osservanza delle mizvot, che mantengono una disciplina ebraica, aiutando anche il nostro prossimo a vivere serenamente come noi, senza strafare o restringere le azioni della vita.
A questo particolare proposito, i Maestri della mishnà, hanno sentenziato dicendo:
“Lo mazzati la guf tov mi shetikà – non ho trovato di meglio per il corpo che il silenzio”.
Meglio far poco senza parlare, che parlare molto e non riuscire a mantenere.
Shabbat shalom